La storia di tre buskers che hanno sconvolto quel poco di mondo disposto ad ascoltarli con un classico senza tempo. Con un disco “simbolo” che da decenni passa di generazione in generazione, brillante e vitale come il giorno in cui ha visto la luce.
Di fronte a certi dischi, una delle reazioni più ricorrenti è l’incredulità. La conosciamo bene quella sensazione, così come conosciamo il rumore delle mascelle che cadono per terra quando ci rendiamo conto di quanto siano attuali i capolavori autentici. I classici che, in ragione della loro condizione, riportano il respiro di un’epoca restando miracolosamente freschi e rappresentando un modello per chiunque a prescindere dall’anno di uscita, siccome la “cosa rock” è una forma d’arte con alle spalle settant’anni di storia ed evoluzione.
A proposito di freschezza, esemplarità e decenni: stenti a credere che ne siano trascorsi quattro dall’esordio omonimo dei Violent Femmes, tanto è vitale la rivisitazione delle radici che lo caratterizza. Al di là della bellezza della musica, del livello elevatissimo delle canzoni e della genialità dell’operazione nel suo complesso, una delle ragioni va cercata in un felice minimalismo. Nel less is more applicato alle radici del suono americano che scaturiva da un attento, meticoloso esame del passato condotto su basi nuove.
Facciamo un passo indietro a poco prima dei medi anni Ottanta: spenti gli ultimi fuochi post-punk e con la tecnologia e il look “giusto” a dominare le classifiche, giornalisti e appassionati più avveduti si accorgono di un sottobosco che, in netta controtendenza, bada alla sostanza e getta le fondamenta del rock cosiddetto alternative, senza accontentarsi dei revival e anzi riscoprendo con inventiva folk, country, blues e la lezione dei Sixties.
Da par loro, i Violent Femmes interpretano questo approccio estetico riducendo tutto ai minimi termini. La strumentazione vede chitarra e basso in prevalenza acustici muoversi lungo un continuo rovesciamento di ruoli tra energico strimpellare, assoli liberi e raffinato supporto melodico, la batteria sembra assemblata nella bottega di un rigattiere e la voce – Frank Black prenderà nota – si snoda tra lamenti, sguaiatezze, saliscendi emozionali, tirate discorsive. È un suono inedito: sghembo e sardonico, efficace e travolgente, asciutto e robusto.
Folk punk? E sia, se proprio volete una definizione di comodo coniata all’epoca mentre vi divertite a escogitare assonanze e fantasie: i Velvet Underground che incidono il terzo LP a Nashville, i Modern Lovers alle prese con Sweetheart of the Rodeo, i Gun Club disintossicati e sereni, i Ramones cresciuti a pane e Hank Williams… L’elenco potrebbe continuare a lungo, perché i Violent Femmes sono una faccenda che più cerchi di catalogare e più sfugge con un adorabile sberleffo.
Tra uno schizzo di rabbia e una ballata a lume di candela, un r’n’r malandrino e uno sbuffo di humour nero, parliamo di chi ha messo d’accordo Pixies, 16 Horsepower, Zen Circus e Gnarls Barkley. Parliamo di un disco che custodiamo come una reliquia, che conosciamo a memoria ma non abbiamo mai smesso di ascoltare. Un motivo deve pur esserci, e nelle righe che seguono abbiamo tentato di spiegarlo.
Le band sono meccanismi curiosi e ognuna fa storia a sé. Alcune ruotano attorno a una polarità tra leader, altre sono il paravento di un solista e altre ancora poggiano sulla forza del collettivo. Non di rado, le ultime sono tra le più interessanti per la rete di rapporti che si crea tra i componenti e una fusione che sfocia nell’unicità. Il rovescio della medaglia è un equilibrio delicato, cui basta sottrarre uno degli elementi o attenuarne l’effetto per alterare l’armonia e far sì che l’ingranaggio si inceppi.
È proprio una curiosa interazione a rendere i ragazzi di Milwaukee, Wisconsin (città dei birrifici, della Harley-Davidson e di Happy Days) qualcosa di esemplare, pertanto vale la pena spendere qualche parola su una combriccola di “nerd ma non troppo” che si completano a vicenda. Natali newyorchesi, il cantante/chitarrista Gordon Gano risiede in un sobborgo dove il padre, appassionato di country e gospel, è pastore battista e attore. Assai complesso, il rapporto del ragazzo con la religione emerge nel materiale che comincia a scrivere prestissimo, da testa calda alta un metro e sessanta che si diploma e per un po’ vende enciclopedie, mentre a cambiargli la vita provvedono Lou Reed e i Velvet, Brian Eno e Patti Smith, Jonathan Richman e il post-punk.
Mescolati con blues prebellico, Johnny Cash, Bob Dylan e la Carter Family, costituiscono il cardine ispirativo modellato da Brian Ritchie e Victor DeLorenzo, sezione ritmica attiva dal 1980 con la buffa denominazione che sappiamo. Tre primavere in più del ventenne Gordon e bassista abilissimo, Ritchie è un neo-fricchettone appassionato di Sun Ra e di etnologia con alle spalle la breve militanza nei concittadini Plasticland. DeLorenzo viaggia invece verso la trentina, recita da quando era all’asilo e, tenendosi stretto il retroterra da batterista jazz, ha escogitato un’attrezzatura composta da un rullante e una bacinella metallica con funzioni di tamburo.
I cavalli sono pazzi, ma di razza. Dopo una partenza faticosa, la necessità diventa virtù e fonte di inventiva allorché decidono di staccare la spina proponendo le canzoni di Gano nei caffè e agli angoli delle strade. In una bella vicenda in tutto e per tutto americana, il 23 agosto 1981 il terzetto si piazza fuori dall’Oriental Theatre di Milwaukee per tirare su qualche dollaro approfittando dell’imminente concerto dei Pretenders. Fortuna vuole che James Honeyman-Scott si fermi ad ascoltare e suggerisca a Chrissie Hynde di invitare gli strampalati sconosciuti sul palco come spalla. Accolti a suon di fischi, alla fine dell’esibizione i nostri eroi conquistano gran parte del pubblico.
Non pensate però a una strada spianata. L’unica etichetta interessata è l’indipendente californiana Slash e, per quanto prestigiosa, stanzia un budget pressoché inesistente. I Violent Femmes devono farsi prestare diecimila dollari dal padre di Victor e incidere l’LP in uno studio a pochi chilometri da casa: sotto la puntuale supervisione di Mark Van Hecke, l’intesa e il repertorio ampiamente collaudati rappresentano i pilastri su cui sistemano un’idea meravigliosa di folk inzuppato nel (dopo) punk e testi dal taglio adolescenziale.
In racconti che camminano sulla corda tesa tra innocenza, ribellismo e frustrazione abita però una profondità preziosa che ne facilita l’identificazione a qualsiasi età. Pertanto, dall’aprile 1983 un trentatré giri dalla copertina che non fa minimamente presagire il contenuto viene tramandato di generazione in generazione e occorrerà quasi un decennio perché tagli il traguardo del disco di platino. Nel 2016 un calcolo stimava le copie vendute attorno a tre milioni, e non possono trattarsi unicamente di fan che rimpiazzano vinili usurati e/o di chi, vent’anni fa, ha acquistato l’edizione deluxe in doppio CD della Rhino.
Oltre a essere piuttosto sorprendente, il dato restituisce un fascino duraturo che scavalca le epoche. Da caratteristiche come queste riconosci i capolavori, e lo stesso vale per la robustezza della scrittura e del quadro d’insieme e per un’identità che esibisce fieramente i luoghi da cui proviene. In un fertile gioco di rimandi, lo svagato fanciullino disegnato dal tenero Richman si misura con la tradizione nascondendo sotto la pelle i nervi tesi dei Talking Heads, che a loro volta trarranno spunto dai Violent Femmes per la sterzata “neo roots” di Little Creatures.
Riferimenti che spiegano come rappresenti un’impresa da pionieri vestire di estrosi abiti metropolitani un linguaggio rustico conservando spartana eleganza e approccio iconoclasta, impetuosa urgenza e schiettezza assoluta. Ulteriori pregi di una mezz’ora abbondante nella quale sfilano gioielli come l’epidermico, stralunato inno d’apertura Blister in the Sun, come le Add It Up e Kiss Off che fotografano i Cramps in versione unplugged quando il termine neppure esisteva, come una Gone Daddy Gone che caracolla irresistibile in punta di xilofono.
Se Please Do Not Go porge beffardi incastri di echi Fifties e cadenze giamaicane, il pianoforte e il violino dello struggente commiato Good Feeling immaginano Lou Reed tra le praterie del Texas, Confessions cita Ballad of a Thin Man per scarnificarla e cospargerla di impennate e febbri rumoriste, i rockabilly mutanti Prove My Love e Promise vantano l’amalgama perfetto di elettricità, spigliatezza e agitazione e nella favolosa To the Kill è un’ipotesi di Pere Ubu sotto sedativi a prendere il proscenio. Magnifico, in una parola.
Potrebbe chiudersi così, la questione: un influentissimo capo d’opera centrato al primo colpo, e poi arrivederci e grazie. Invece, dopo l’eccellente conferma a 45 giri del rock’n’roll stradaiolo Ugly e del convulso blues wave Gimme the Car, nell’84 Hallowed Ground incarna il mezzo con il quale Gordon Gano affronta la religione a testa alta e senza mandarle a dire. Altrettanto coraggiosamente, è lì che si iniettano dosi di jazz anarchico (tra gli ospiti figura John Zorn) in folk, gospel e country rendendo omaggio al cubismo di Captain Beefheart e indagando il gotico a stelle e strisce.
Si cala un altro asso che offusca il successivo The Blind Leading the Naked, dove Jerry Harrison tira a lucido i suoni e arricchisce gli arrangiamenti, finendo per evidenziare una calligrafia a tratti indebolita e un pizzico di maniera. Saggia idea prendersi una pausa di riflessione – Gano si dedica a un rock dalle tinte black con i Mercy Seat, Ritchie pubblica due interessanti LP solisti – e ripresentarsi nell’88 con il gustoso e frizzante 3. Siamo comunque agli sgoccioli: più che discreto Why Do Birds Sing?, negli anni ‘90 la magia svanisce quando a Victor DeLorenzo subentra Guy Hoffman.
Il resto della discografia si raccomanda ai completisti terminali e fa il paio con risvolti talvolta sgradevoli da riferire, su tutti la causa legale intentata da Brian contro Gordon per contributi non riconosciuti alla composizione. Anche se dopo la riappacificazione non ci si è fatti mancare nulla tra celebrazioni e una fugace reunion dei membri originali, è evidente l’accanimento terapeutico di chi pubblica dischi e intraprende tour campando di rendita.
Spiace insomma riferire di un’attualità anonima e trascurabile. Ciò nonostante i veri Violent Femmes stanno altrove: vivono in una dimensione parallela di eterno presente che ha l’aspetto di una casa di legno non molto distante da un’altra magione, più grande e colorata di rosa. Ci piace immaginare i tre che, nel salone, armeggiano tutto il giorno con strumenti bislacchi mentre una bambina li osserva attraverso le fessure, curiosa e ammaliata come se fosse la prima volta che li sta ad ascoltare.
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