Avanguardia, emozioni, futuro. Queste le chiavi di volta di una cattedrale sonora elegante ed essenziale, costruita in California e trasferita in un mondo parallelo. Un mondo migliore dove la terra ruota attorno a una luna in frac.
La domanda è di quelle che fanno accapigliare i critici, ma vale la pena porla: in che misura sperimentalismo e canzone possono dialogare? Per quanto ci riguarda, troviamo sottile il confine tra avanguardia e autoreferenzialità e riteniamo che spetti alla comunicazione il ruolo di ago della bilancia e alle emozioni elargire un tocco umano. In proposito il pop d’autore insegna parecchio, siccome da Phil Spector ai My Bloody Valentine un passo stilisticamente fondamentale è accompagnato da brani memorabili.
Lo stesso dicasi per chi ha reso il rock qualcosa di adulto con un atteggiamento da intellettuali concreti e privi di spocchia: Velvet Underground, Can, Roxy Music, King Crimson, This Heat erano solo apparentemente distaccati e in realtà hanno concepito un approccio innovativo all’emotività, sistemandone il flusso tra le righe perché consci che essa rappresenta l’ossatura di qualsiasi gesto artistico. In tal modo hanno evitato l’autocompiacimento da virtuosi e la frigidità per pochi eletti, a pieno beneficio di un post-punk che ha preso diligentemente nota.
Nulla invecchia più in fretta dell’avant senza sentimento e anche in questo i Tuxedomoon sono (stati) esemplari e pionieristici al pari di Laurie Anderson. Mai come nel loro caso, però, il concetto di “gruppo” pare restrittivo per chi ha travalicato i confini di una new wave in piena fioritura cimentandosi con teatro, scuola colta, multimedialità e molto altro. Inclusa un’idea minimalista e artigianale di tecnologia che, mescolando organico e sintetico, ha tratteggiato panorami di un retrofuturismo fosco che racconta le sorti poco magnifiche della modernità.
Imprendibili, multiformi ed eclettici per vocazione, i Tuxedomoon sono americani ispirati dal Vecchio Continente che, riallacciando un filo storico e culturale, hanno plasmato un modello di dopo rock che riconosce gli ingredienti principali nel talento, nell’ampiezza di orizzonti e nella chiarezza di idee. Per questo, con un lavoro di cesello così preciso da risultare spontaneo, dischi come Half-Mute e Desire trasformano la “ricercatezza naturale” da paradosso in realtà. Per questo, sofisticata però mai austera, la loro musica è un universo in espansione. Accettate ogni speranza, voi che entrate per la prima volta.
San Francisco è unica e non lo nasconde, prendendosi gioco di locals e turisti con la nebbia e un vento misto a pioggia che schiaffeggia il viso. C’entra la natura di città portuale fondata da cercatori d’oro, marinai e criminali mescolati alla folta popolazione asiatica, ma soprattutto la condizione di estremo avamposto del continente. Di fronte all’Oceano Pacifico, è letteralmente l’ultima spiaggia dove i sogni possono svanire e un trampolino verso nuove possibilità.
Un terreno fertile per l’anticonvenzionalità, anche, da quando i poeti beat l’hanno eletta a patria ponendo le basi per la controcultura. In un contesto così particolare non stupisce che la Baia abbia recepito e successivamente sviluppato il punk con modalità espressive a sé stanti. Se ti rimane un’ultima carta ti conviene giocarla in questa città, a maggior ragione se incarni un anello di congiunzione tra rimasugli hippie e la nuova era come Steven Brown, arrivato da Chicago per muovere i primi passi in un gruppo di teatro free, gli Angels of Light.
Steven maneggia svariati strumenti e all’università frequenta un corso di musica elettronica dove conosce Blaine L. Reininger, tastierista e violinista originario del Colorado. Per entrambi il 1977 offre la scintilla all’eclettismo, a una preparazione superiore alla media, alla voglia di affermare sonorità ricche di contenuti. Il punk funge da incubatrice concettuale per chi inizialmente si battezza Tuxedomoon New Music Ensemble e cresce in un underground che più under non si potrebbe.
Dapprima i due provano a casa dell’amico Tommy Tadlock, che li aiuta dal punto di vista tecnico mentre Brown sfrutta l’ambito teatrale, allestendo una formazione aperta cui partecipano Gregory Cruikshank, Victoria Lowe e Winston Tong, destinato più degli altri a una permanenza duratura benché intermittente. Data la provenienza, i performers “interpretano” il ruolo di cantante in concerti che sfociano in happening multimediali grazie al contributo di Bruce Geduldig e durante i quali si alternano composizioni in tutti i sensi originali e trasfigurazioni di Marvin Gaye, Rolling Stones e David Lynch.
I Tuxedomoon escono allo scoperto discograficamente nel 1978 a 45 giri: la cyber filastrocca con violino gitano e frenesie jazzy Pinheads on the Move e i Devo impolverati di Joeboy the Electronic Ghost rappresentano un biglietto da visita sensazionale come il successivo EP No Tears, forte della danza di nervi e cavi elettrici New Machine, del deragliante inno omonimo, dello sfuggente bolero Litebulb Overkill e dello stravolgimento Nite & Day (Hommage à Cole Porter).
Intanto, nel viavai di musicisti il DJ radiofonico Peter “Principle” Dachert aggiunge il tassello mancante alla fisionomia compiuta del singolo The Stranger, tela di recitativi, tremolanti cadenze sintetiche ed esotismi della mente che adombra una Love / No Hope tra Devo e Residents. Ancora meglio nel ‘79 Scream with a View, vinile di medio formato in cui si gioca seriamente con desolazioni robotiche, ambient disossata, incubi in bianco e nero. Gioielli che non a caso suscitano l’interesse appunto dei Residents, lesti ad accogliere i Tuxedomoon alla Ralph. Strano è chi strano fa.
A un primo sguardo, l’orbita di questa luna è tutto fuorché lineare. Ciò nonostante, osservandola con attenzione scorgi logiche che si combinano perfettamente con la musica e non potrebbe darsi altrimenti, considerando quanto gli artefici fondano istinto e raziocinio in un linguaggio che raggiunge la pienezza espressiva al primo album. Nel 1980, Half-Mute stabilisce le coordinate di riferimento della formazione coagulatasi attorno a Brown, Reininger e Principle dipanando avanguardia umanista, sapiente uso delle risorse tecnologiche, atmosfere meditabonde, fascino (con)turbante.
Eloquente l’apertura Nazca, volute di synth e sax che scivola agile da un registro all’altro, cui rispondono la nevrosi a stento trattenuta di 59 to 1 e una Fifth Column atterrata dal secondo lato di Low. L’ansiogena Tritone (Musica Diablo) simpatizza per il demonio ricorrendo all’intervallo di quarta eccedente bandito dalla chiesa nel Medioevo, Loneliness riduce all’osso i Pere Ubu, James Whale anticipa l’isolazionismo e in What Use? John Foxx smette i panni del dandy. Apoteosi nel finale, sulle corde tese a est di Volo Vivace, i Velvet Underground aggiornati di 7 Years, il kraut-jazz impressionista KM / Seeding the Clouds. Riconoscibili gli elementi di base, metamorfosi e amalgama garantiscono un esito inaudito.
Dopo che il piano di aprire i concerti dei Joy Division va all’aria a causa del suicidio di Ian Curtis, si organizza un giro in Europa che entusiasma critica e fan. Poco da stupirsi, ché il bagaglio estetico e lo spirito del progetto guardano a questo lato dell’Atlantico, pur se reinterpretati. Lo spiega benissimo l’album che coloro che non optano per Half-Mute considerano il vertice dei Tuxedomoon: inciso in Inghilterra con l’esperto Gareth Jones, nel 1981 Desire smussa un po’ di spigoli e approfondisce l’aspetto ritmico conservando intensità e carica visionaria.
Scaletta di nuovo immacolata, dal respiro cinematico della suite East / Jinx / … / Music #1 (giostra felliniana sospesa su un Bosforo futurista, ipotesi tango-troniche, pulviscoli impro, scorci teutonici) al music-hall alieno Holiday for Plywood. Nel mezzo, una Victims of the Dance decadente con gusto, la synth wave in paranoia Incubus, una title track che scompone il funk algido di Arthur Russell, gli Ultravox! mesti di Again, il Moroder post-industriale di In the Name of Talent. Consegnati due capolavori, i Tuxedomoon scelgono di imitare gli scrittori della “generazione perduta”. L’Europa li attende a braccia aperte.
Da bravi cosmopoliti, ci mettono poco ad ambientarsi e nell’82 commentano un balletto di Maurice Béjart incentrato su Greta Garbo con quadretti colti e cameristici, arie popolaresche devo-lute, ricordi del John Cale di The Academy in Peril. Bello, Divine, però non quanto il mini Suite en sous-sol e gli aromi di Courante Marocaine, l’oscillazione tra gotico e isteria Allemande Bleue, una sinuosa L’étranger. Nel frattempo, ad Amsterdam, Blaine viene rapinato e investito da un’auto e passerà mesi su una sedia a rotelle, mentre il gruppo è sfrattato e ripara in Belgio.
Siamo a una svolta allorché Reininger si prende una pausa e subentra Luc van Lieshout. Da ensemble libero, i Tuxedomoon si adattano alle circostanze attraverso musiche che scardinano un vissuto del quale sono figlie, ed ecco spiegato nel bel mezzo degli anni Ottanta il più accessibile Holy Wars. Gli oltranzisti storcono il naso sbagliando di grosso, ché la sperimentazione – comunque ammorbiditasi in modo graduale – rinforza canzoni di malinconica eleganza come una The Waltz che trasloca a Berlino la svolta elettrica di Miles Davis, una In a Manner of Speaking splendente romanticismo, il funk mutante d’Arabia Some Guys e il raffinato mélo pop di St. John.
Entro dodici mesi, il mini Ship of Fools accoglie il polistrumentista Ivan Georgiev nei medesimi panorami e allo stesso tempo sorprende con un neoclassicismo in punta di tasti. Ci avviciniamo ai titoli di coda. Nel 1987 You insiste su synth pop astratti, surrealismi new wave ed esotismo (re)inventato: non un passo indietro, semmai un guardarsi intorno per chi punta al domani e dunque riconosce una sorta di ristagno. La serietà impone una messa a riposo della sigla, il decennio sfuma sulla formidabile antologia ricca di inediti e rarità Pinheads on the Move e sul doppio live Ten Years in One Night.
Il successivo, rumoroso silenzio racconta attività solistiche di alto livello e, in capo a un quadriennio, The Ghost Sonata ripesca dall’82 modernismo, classicità e teatrale sentire. Il messaggio nella bottiglia non ha seguito fino al 1997 e a Joeboy in Mexico, passato inosservato nonostante la discreta mediazione tra gli esordi e la seconda fase di carriera. Dissolvenza.
Il tempo sarà pure un bastardo, però ogni tanto si ricorda di essere galantuomo. In un nuovo millennio segnato dall’onda lunga del post-rock, è probabile che i Nostri – i quali conducono vite parallele sparpagliati per il globo – si siano sentiti attuali più che mai. La medesima impressione si ricava da Live in St. Petersburg e Soundtracks / Urban Leisure, lo scavo negli archivi che – A.D. 2002 – anticipa di un biennio il materiale nuovo sfoggiato da Cabin in the Sky.
Un nucleo storico in forma smagliante è affiancato per l’occasione da Van Lieshout, Geduldig e dagli ospiti Tarwater, DJ Hell e John McEntire. Applausi per il rigore e l’inventiva dell’operazione che assicurano il declamare frammentato intessuto di fiati di A Home Away, lo stralunato jazz folk Baron Brown, le atmosfere (a)tipicamente imprendibili di Annuncialto e The Island, il post-surf Cagli Five-O.
Tre anni e la Grecia benedice Vapour Trails, ancor più riuscito in virtù del Messico (quasi) senza nuvole di Muchos Colores, della dolcezza in gusci di tensione – o forse è il contrario? – di Still Small Voice, delle complesse arguzie Kubrick e Dizzy, dell’etno-blues in dub Wading into Love. E poi? Poi parlano chiaro i sottotitoli di Tm (The 30th Anniversary Box) e Unearthed Lost (Cords + Found Films), l’amore mai sopito per le colonne sonore, una sobria autocelebrazione guastata nel 2016 dalla scomparsa di Bruce Geduldig.
Se l’arte può essere immortale, non così gli uomini e quindici mesi dopo ci lascia anche Principle. Difficile dire dove si dirigerà adesso la luna, tuttavia confidiamo che Vapour Trails resti un sigillo coerente all’intera vicenda. Esistono band che vengono ciclicamente esaltate, dimenticate e riscoperte e altre che, invece, conquistano un pezzo di eternità scrivendo regole proprie. Guardate nel cielo, stanotte, e ne troverete una a forma di luna. Non potete sbagliarvi: è piena, bellissima e indossa il frac.
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