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Una volta alla settimana compiliamo una playlist di tracce che (secondo noi) vale davvero la pena sentire, scelte tra tutte le novità in uscita.

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... Tutte le tracce che abbiamo recensito dal 2016 ad oggi. Buon ascolto.

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A volte è necessario approfondire. Per capire da dove arriva la musica di oggi, e ipotizzare dove andrà. Per scoprire classici lasciati indietro, per vedere cosa c’è dietro fenomeni popolarissimi o che nessuno ha mai calcolato più di tanto. Queste sono le storie di HVSR.

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U.F.Orb: viaggio in un cervello pulsante

Il secondo disco degli Orb di Alex Paterson.

Un cervello, due capolavori, tre decenni e spiccioli fa, gli anni Novanta nel pieno del loro splendore. Anche nella musica popolare la matematica non è un’opinione e il tempo resta una faccenda molto relativa.

  • Artista: The Orb
  • Titolo: U.F.Orb
  • Anno: 1991
  • Tracklist:
    • O.O.B.E. – 12:51 (musica: Alex Paterson, Kris Weston, Thomas Fehlmann)
    • U.F.Orb – 6:08 (musica: Alex Paterson, Kris Weston)
    • Blue Room – 17:34 (musica: Alex Paterson, Kris Weston, Miquette Giraudy, Steve Hillage, John Joseph Ward, Neil Fraser)
    • Towers of Dub – 15:00 (musica: Alex Paterson, Kris Weston, Thomas Fehlmann)
    • Close Encounters – 10:27 (musica: Alex Paterson, Kris Weston, Orde Meikle, Stuart McMillan)
    • Majestic – 11:06 (musica: Alex Paterson, Kris Weston, Martin Glover)
    • Sticky End – 0:49 (musica: Alex Paterson, Kris Weston, Orde Meikle, Stuart McMillan)
  • Formazione:
    • Alex Paterson – produzione, synths, elettronica
    • Kris Weston – ingegnere del suono
    • Andy Falconer – ingegnere del suono
    • Thomas Fehlmann – synths, elettronica

Notizie dall'ultramondo

I paragoni sono un male necessario. Stanno lì, pronti a intervenire quando fatichiamo a comprendere qualcosa e cerchiamo dei punti di riferimento, in un vacillare che forse prelude alla crisi ma a volte contiene il seme di un inizio o di un canone artistico. Se sei un tipo sveglio e oggetto di confronti, l’umorismo ti torna utile e puoi addirittura inglobarlo dentro un’estetica come ha fatto Alex Paterson, la mente degli Orb, che su certe “famigerate” somiglianze con i Pink Floyd (da lui apprezzati limitatamente alla fase barrettiana) e sui ricorsi storici ha giocato spesso e volentieri.

A riprova, nell’articolo che vi apprestate a leggere abbiamo raccolto qualche indizio dalla sciarada che Alex da sempre gestisce con un’eleganza guascona stemperata da abbondanti dosi di ironia. In un brillante gioco tra chi crea e chi ascolta, negli Orb la tela di rimandi costituisce una trave portante non solo per via dei numerosi sample sparsi lungo i dischi e destinati a infinite rinascite in virtù di una decontestualizzazione memore del surrealismo. In questo caso, infatti, c’è dell’altro: un’entità cui il termine “gruppo” va stretto, poiché si tratta di un organismo che si evolve sottolineando quanto nel pop (?) il tempo e l’originalità siano astrazioni plasmate dal talento.

Confusi e felici, per una musica da sentire ed eventualmente ballare abbiamo escogitato definizioni comunque limitanti, perché ciò che consegna agli annali i “Pink Floyd della generazione rave” (i paragoni eccetera…) è una sfuggente fusione tra ritmi house e trame riconducibili sia all’elettronica ambientale che a certo rock dall’indole space e kraut. Però rallentando gli uni in modo da incastrarli con fluidità alle altre, giacché non esiste differenza tra spazio cosmico e interiore.

Non finisce qui. Dal calderone emergono inebrianti aromi che restituiscono un genuino spirito psichedelico, la lezione dell’hip hop assimilata tramite i campionamenti, le “voci trovate” concepite da Brian Eno e David Byrne e adattate al reggae da Adrian Sherwood, il taglia-e-cuci appartenuto ai Can, l’influenza esercitata dal dub e dal BBC Radiophonic Workshop per quanto riguarda le sonorità espanse, la tecnologia che non scade nel mero espediente, lo studio e il processo di registrazione elevati a strumenti. Riconoscibile ogni ingrediente, il sapore resta unico.

Presto detto il segreto: pur collocandosene al di fuori, gli Orb sono figli di un’epoca – il lustro tra la coda degli Eighties e un 1993 così lontano eppure così vicino – nella quale coraggio e apertura mentale rappresentavano la norma. Anni meravigliosi in cui DJ e band hanno iniziato a confondersi e l’attualità è stata costruita lanciandosi nell’ultramondo. Mettendo da parte la nostalgia, vi va di salire sulla macchina del tempo?

Eddài! Ci divertiamo.

Viaggi lunghi e ben distesi

Ricorrendo a una metafora che supporremo gradita al diretto interessato, i primi due album degli Orb derivano in parte da un allineamento di pianeti che garantisce le condizioni ideali al compiersi della visione di Duncan Alexander Robert Paterson. Soprannominato “Dottore”, Alex nasce il 15 ottobre 1959 a Battersea, quartiere londinese dove in tutta la sua maestosità post-industriale sorge la centrale elettrica immortalata da Animals. Indizio numero uno sfruttato anni dopo con affetto e humour dal ragazzino che, perso il padre e tirato su dal fratello maggiore, apprezza Alice Cooper e Led Zeppelin e alle superiori fa comunella con Martin Glover.

Quando costui rinasce Youth, a fare da roadie e DJ pre-concerto per i suoi Killing Joke chiama l’amico, successivamente assunto dalla E.G. nel ruolo di talent scout. Indizio numero due: fondata dal management dei King Crimson, oltre agli stessi Killing Joke, ai Roxy Music e alla creatura di Robert Fripp, l’etichetta ha in catalogo Brian Eno, “non musicista” per eccellenza con il quale Paterson presenta diverse affinità.

Oh, my lovely Battersea!

Avanti veloce alla fine degli anni Ottanta, allorché Albione si infiamma per la house e il nostro eroe capisce subito le potenzialità di un linguaggio odoroso di funk e silicio. Nell’appartamento condiviso con Youth bazzica Jimmy Cauty, già nei Brilliant assieme a Glover: scattata l’intesa, lui e Alex prelevano la ragione sociale dal film Il Dormiglione di Woody Allen, mettono dischi in giro per la città e ne creano di propri, cavalcando l’acid house in Tripping on Sunshine e assemblando l’EP Kiss con campionamenti dell’omonima stazione radio newyorchese.

Alla decisione di forgiare uno stil novo che culli le sinapsi invece di sbatacchiarle segue il provvidenziale semestre al Heaven, il locale dove Paul Oakenfold affida loro la gestione del chill out. Grazie al passaparola, tutti i lunedì un centinaio di persone si tuffa in un ambiente che mescola dub, elettronica da/per freak, dance che chiude il cerchio come la Sueño Latino poggiata su E2-E4 di Manuel Göttsching. Indizio numero tre: una sera Steve Hillage passa di là, riconosce un brandello della sua Rainbow Dome Musick e nasce un’amicizia che sfocerà in collaborazione.

L’inaudito concetto di clubbing e le stratificazioni di vinili altrui “corrette” inserendo effetti ed enigmatici frammenti contribuiscono ad allargare gli orizzonti. Ne è prova un singolo caratterizzato da durata e titolo inusualmente, assurdamente lunghi che nell’ottobre 1989 intreccia synth voluttuosi, rumori dell’oceano e la voce di Minnie Riperton. Segno dei tempi che stanno cambiando, quei ventidue minuti epocali incontrano il favore dei fan dell’indie, dei frequentatori delle discoteche e di John Peel, ringraziato in una session decembrina eseguendo per l’appunto A Huge Ever Growing Pulsating Brain That Rules from the Centre of the Ultraworld.

Non mi chiedere quante ne avrò remixate, in vita mia.

Pochi mesi e Dave Stewart chiede di remixare Lilly Was Here, a sorpresa il pezzo entra nei Top 20 e fior di nomi sgomitano per i rifacimenti “made in Orb”. L’attività parallela – che raggiungerà un probabile zenit in Higher than the Sun dei Primal Scream – rappresenta una fonte di introiti e un eccellente trampolino di lancio; tuttavia nell’aprile 1990 i due si separano. La Big Life propone di realizzare un album, per Alex è un “sì” ma Jimmy preferirebbe l’etichetta gestita con Bill Drummond, l’altro membro dei KLF. Arrivederci e grazie per modo di dire, poiché pare (le versioni ovviamente discordano a seconda della campana) che Cauty abbia approfittato dell’operato dell’ex socio senza accreditarlo nel disco omonimo degli Space e in Chill Out degli stessi KLF.

Mentre incassa il colpo, Paterson sfacchina su un brano che raccorda Ennio Morricone, Pat Metheny e Steve Reich su un loop di batteria scippato a Harry Nilsson. In autunno Little Fluffy Clouds campiona Rickie Lee Jones intenta a raccontare dell’infanzia in Arizona e, come un nastro di Möbius, la scheggia di intervista prende posto nell’incantevole rompicapo. Piantato un altro paletto, il capobanda coinvolge il diciottenne ingegnere del suono Kris “Thrash” Weston e l’innesto si rivela fondamentale: lo spiegano i concerti tenuti a inizio 1991, dove la chitarra di Steve Hillage collega la bohème progressive di Canterbury alla pista da ballo. Il futuro è qui, è adesso. E presto zampillerà da un disco in tutti i sensi grande.

L'intesa si vede subito.

Soggetti volanti non identificabili

Doppio capolavoro che trasloca il villaggio globale nell’iperspazio, The Orb’s Adventures beyond the Ultraworld accosta Il Dottor Stranamore e Flash Gordon alle missioni Apollo, notiziari lituani a particelle di Sex Pistols e Bill Evans, di Vivaldi, White Noise e Kraftwerk. Un messaggio chiaro e la ricetta innovativa impongono l’armonia degli incastri, l’equilibrio di concretezza e levità, una moderna psichedelia ottenuta per sottrazione e citazione, uno stile e un atteggiamento che oggi diamo per scontati ma che nel 1991 rappresentano la mappatura di territori inesplorati.

Ecco spiegata l’attualità del mantra ambient pop Little Fluffy Clouds, di un superbo “live mix” di A Huge Ever Growing Pulsating Brain That Rules from the Centre of the Ultraworld, del sinuoso hip hop mutante Earth (Gaia) e dell’onirico proto trip hop Supernova at the End of the Universe, mentre all’avvolgente Back Side of the Moon risponde il jazz a gravità zero di Spanish Castles in Space, alla Giamaica cibernetica di Perpetual Dawn e Outlands replicano la scampagnata cosmica Star 6 & 7 8 9 e una danzereccia Into the Fourth Dimension che alterna tentazioni barocche e slanci electro.

Festeggiato il natale tenendo nei negozi per ventiquattro ore The Aubrey Mixes, si scavalca in scioltezza un’altra frontiera. Malgrado sfiori quaranta minuti, la house siderale Blue Room centra l’ottava piazza nazionale con tanto di relativa, surreale visita a Top of the Pops da parte di una coppia di astronauti scacchisti. Indizio numero quattro: leggenda vuole che la “stanza blu” si trovi nella base militare americana di Wright-Patterson e custodisca prove dell’esistenza di forme di vita extraterrestri.

Entrate e cercate la stanza blu, se ne avete il coraggio.

A proposito di alieni: nel luglio ‘92 gli Orb completano l’impresa di Screamadelica spazzando via i rimasugli delle barriere tra rock e dance. Al ritorno dal viaggio attraverso le galassie, U.F.Orb riporta su un pianeta Terra diverso da come lo ricordavamo, invitandoci in oceani profumati d’erba buona non privi di tensioni e gestendo al meglio le teste pensanti (spiccano Hillage, Thomas Fehlmann, Jah Wobble e Guy Pratt, vecchia conoscenza scolastica e – indizio numero cinque – affermato turnista nei Pink Floyd del dopo Waters).

Il tappeto sonoro, al solito cosparso di campionamenti (menzione d’obbligo per svariati assi della battuta in levare e una conferenza su Karl Popper e Pierre Teilhard de Chardin…) e di dettagli funzionali all’insieme, è ulteriormente irrobustito e agganciato a ritmiche tanto solide quanto raffinate. Valore aggiunto di uno stipatissimo CD, dove i nostri punk situazionisti inseriscono un’accorciata Blue Room a fianco dell’ipnotico viluppo di tensione e rilascio O.O.B.E., alla traccia omonima che immerge Jurij Gagarin nell’alba di Ibiza dopo una gita a Chicago e Detroit, a una Towers of Dub insieme giocosa (esilarante, la burla telefonica che la apre) e venata di blues, alle slanciate inquietudini di Close Encounters, all’incalzare sull’orlo dell’estasi esotica di Majestic e al sarcastico, fulmineo saluto Sticky End.

Incontri ravvicinati di un certo tipo.

Non un minuto di noia, U.F.Orb rimane qualcosa di impareggiabile e freschissimo nonostante i numerosi tentativi di imitazione, ed è anche da questi particolari che riconosci una pietra miliare. Dalla vetta della classifica la strada parrebbe spianata, eppure la Big Life tiene in stallo i ragazzi immettendo sul mercato ristampe di vecchi singoli. Il nuovo materiale si accumula, un seccato Paterson passa alla Island e inizia a, ehm… orbitare intorno al proprio conclamato classicismo. Siccome le rivoluzioni si compiono una volta nella vita, non vi è nulla di male in questo e neppure nei tre decenni che da allora hanno offerto una serie di variazioni sul tema e l’inevitabile pizzico di maniera.

Un percorso di fisiologici alti e bassi ispirativi, di avvicendamenti nel collettivo e cambi di scuderia, di collaborazioni (indizio numero sei: da Fripp siamo giunti a Lee “Scratch” Perry e David Gilmour) e celebrazioni conduce dritti nel presente. La curiosità e la passione di sempre, nei suoi “anni Sessanta” il cervello del Dr. Alex pulsa ancora anche se il mondo non ha più un centro. Incurante di ciò, una musica decollata dalle rive del Tamigi continua a espandersi nell’universo. È diretta verso casa, passando per la via più lunga.  

The Orb Alex Paterson Kris Weston 

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