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Una volta alla settimana compiliamo una playlist di tracce che (secondo noi) vale davvero la pena sentire, scelte tra tutte le novità in uscita.

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... Tutte le tracce che abbiamo recensito dal 2016 ad oggi. Buon ascolto.

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A volte è necessario approfondire. Per capire da dove arriva la musica di oggi, e ipotizzare dove andrà. Per scoprire classici lasciati indietro, per vedere cosa c’è dietro fenomeni popolarissimi o che nessuno ha mai calcolato più di tanto. Queste sono le storie di HVSR.

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Visioni interiori: Stevie Wonder diventa adulto

Una pentalogia che ha cambiato il corso della musica popolare.

Avete presente l’attimo in cui la maggiore età corrisponde a una vera maturazione? E quando un allineamento di pianeti genera dei capolavori? No? Allora vi raccontiamo di come un artista è (ri)nato entrando nella storia. 

Piovono pietre miliari

Anche se ce ne accorgiamo soltanto guardandoci indietro, la vita è una sequenza di spartiacque. Una concatenazione di momenti in cui, consapevoli di appartenere a un quadro che si svela poco alla volta, prendiamo delle direzioni pur non sapendo cosa accadrà. Del domani non c’è certezza, quindi “essere” geni significa anche aggiungere al quadro la pennellata che realizza una visione.

Prendete l’uomo noto all’anagrafe di Saginaw, Michigan, come Stevland Judkins e che ognuno conosce con il nome d’arte di Stevie Wonder. Il 13 maggio 1950 saluta il mondo prima del previsto, l’eccesso di ossigeno nell’incubatrice scatena una retinopatia degenerata in cecità ma lui non si perde d’animo, che vi credete. Nella mente ha un universo che percepisce con tutti i sensi tranne uno e allora scriverà e canterà canzoni che posseggono colore, sapore, densità e una gioia che non viene mai meno, neppure quando affronta l’invettiva e il mal d’amore.

Sorridere sempre, no matter what.

Stevie è un esempio di ottimismo della volontà e la sua carriera una fenomenale, progressiva acquisizione di sicurezza che a metà anni Settanta tocca vertici con pochi eguali. In retrospettiva, hai la netta sensazione che con un atteggiamento risoluto, caparbio e maturo quest’uomo abbia pianificato le sue mosse, assorbendo ciò che gli accadeva attorno e dentro per ispirarsi, plasmare la musica e persino gli eventi.

Il suo contagioso entusiasmo è un marchio di fabbrica, ma soprattutto il valore aggiunto di un linguaggio che impasta soul, funk, R’n’B, pop, jazz, tecnologia e spunti etnici in qualcosa di unico. In capolavori che mettono d’accordo critica e pubblico grazie a una voce duttile ed espressiva, al dono di rendere naturale la complessità della scrittura e degli arrangiamenti, a melodie efficaci lontane dalla banalità.

Non finisce qui: mezzo secolo fa, con un pionieristico uso dell’elettronica, Wonder ha cambiato il volto della black music e, insieme a Marvin Gaye, Isaac Hayes e Curtis Mayfield, ne ha spostato l’asse da quarantacinque a trentatré giri. Mica male per uno che sembrava un pupazzo nelle mani del boss della Motown Berry Gordy, eh? Di una vicenda sul serio wonderful lascia tuttora di stucco che, superata ogni avversità, il protagonista scolpisca un diadema perfetto e ottenga il successo planetario. Che, poco oltre vent’anni, lasci un segno indelebile nella storia. Il Mozart afroamericano? E sia.

Mozart al piano: uguale, no?

Stevie e Berry nemiciamici

Della nascita di Stevland e del dramma a essa legato abbiamo riferito. Se questo fosse un film, ora leggereste le parole “quattro anni dopo” stagliarsi sul panorama di Detroit, dove la madre ha traslocato in seguito al divorzio e dove il bimbo canta nel coro della chiesa e presto impara a destreggiarsi con armonica, piano e batteria. Nel ‘61 Ronnie White dei Miracles nota il fanciullo, organizza un’audizione presso il marchio simbolo della città dei motori ed ecco fatto. Aggiunto un Little al suddetto nomen omen, in principio 45 giri e album cadono nel vuoto.

L’imberbe seguace di Ray Charles svolta nel 1963, allorché The 12 Year Old Genius immortala un’esibizione al Regal Theater di Chicago e Fingertips, Pt. 2 vola alla prima piazza delle graduatorie dei singoli pop ed R&B. Tuttavia, il più giovane cantante mai giunto in vetta non replica immediatamente il successo perché la voce sta cambiando con l’età e ai piani alti impongono una pausa. Ne approfitta per studiare pianoforte classico, poi molla il “Little” e nel ’65 riappare con un taglio quel tanto più adulto entrando nel reparto compositori della label. Commercialmente sul piccolo formato non sbaglia più un colpo fino al tramonto del decennio, mentre aumentano i brani (co)firmati, lo spazio in qualità di produttore, la fiducia in sé e una coscienza sociale.  

Piccolo ma già grande.

Nel ’69 partecipa all’Harlem Cultural Festival eseguendo It’s Your Thing degli Isley Brothers in ciò che considera l’addio all’enfant prodige. Da non sottovalutare inoltre il matrimonio del settembre 1970 con Syreeta Wright, ex segretaria della Motown e cantante che Wonder produrrà, la quale dà una mano con i testi di canzoni più elaborate che vanno accumulandosi. A un mese dal ventunesimo compleanno Where I’m Coming From – primo 33 giri scritto e curato in piena autonomia – lascia Gordy dubbioso. Non è un caso.

Preparato il terreno, l’artista (ri)nasce nell’attimo in cui consegue la maggiore età e, svincolato dagli accordi, fa ottimo uso del conto in banca. Appena conclusi i festeggiamenti per il suo pupillo, una mattina del maggio 1971 il padrone dell’impero costruito sul suono della giovane America legge la missiva ricevuta da un avvocato. Per poco non sviene, prende il telefono per chiedere spiegazioni ma Stevie non è in casa e la moglie riferirà. Clic.

La moglie poco prima di riferire.

Berry ha appena realizzato che la mucca che stava mungendo è diventata un toro. Mesi dopo, Wonder mette sul tavolo della trattativa un tomo di centinaia di pagine blindate chiedendo novecentomila dollari di anticipo, il controllo totale sugli album, diritti stratosferici per vendite ed edizioni. Lo accontentano e da un contratto epocale traggono vantaggio ambo le parti: il Nostro per ovvi motivi, la “Hitsville” perché, dopo le defezioni di Four Tops, Gladys Knight & the Pips, Temptations e Miracles, si tiene un campionissimo. Quando si dice un ottimo affare.

Musiche della mente

Gli aspetti legali e finanziari in parte si saldano al lato creativo, poiché il ragazzo ha conosciuto l’estensore dell’accordo Johanan Vigoda tramite Malcolm Cecil e Bob Margouleff, esperti in elettronica responsabili del progetto Tonto’s Expanding Head Band. Mito vuole che si presenti da loro, smanetti su Moog e ARP per quarantotto ore e riemerga dall’apnea con le strutture di svariati brani e la collaborazione del duo. Gli ultimi tasselli prima di affrontare Gordy sono i corsi universitari di teoria musicale e un’offerta della CBS rispedita al mittente. Il resto lo sapete.

Nel marzo 1972, Music of My Mind è il “vero” esordio di chi fa (quasi) da sé facendo molto più di tre. Di chi, in uno studio pagato di tasca propria, sfrutta i trucchi imparati durante un lussuoso apprendistato e approda a un soul inaudito innestando sonorità all’avanguardia su una calligrafia stellare. La fusione tra synth e strumenti organici permette infatti all’anima di respirare in Love Having You Around (atmosfere alla Sly Stone, vocoder sobrio, finale proto-electro) e Superwoman (liquido cyber soul), Sweet Little Girl (rhythm’n’blues dai magistrali cambi di passo) e Keep on Running (funk indiavolato). Nell’unità d’insieme, alle slanciate seduzioni I Love Every Little Thing About You ed Evil rispondono il Brasile stranito di Girl Blue, una lucente Happier than the Morning Sun, il jazz in buccia elettrica Seems so Long.

Gemme articolate e multiformi che stabiliscono il canone rafforzato a fine annata da Talking Book, consacrazione della star reduce da un tour con i Rolling Stones che ne espande ulteriormente il bacino d’utenza. Nel mezzo, la crisi coniugale sfocia negli splendori che inaugurano e chiudono una scaletta immacolata: tra You Are the Sunshine of My Life e I Believe sfilano il groove di Superstition, l’invenzione del Prince “disturbato” Maybe Your Baby, la serenata You and I. Per un’ancheggiante Tuesday Heartbreak trovi la sfuggente e delicata You’ve Got It Bad Girl, per il polemico folk-blues Big Brother ci sono lo struggimento aromatizzato gospel Blame It on the Sun e la filastrocca Lookin’ for Another Pure Love.

Groove ne abbiamo?

Fantastico, eppure la palma di (primo) capolavoro spetta a Innervisions, fosco resoconto sullo stato dell’Unione redatto dalla parte dei neri e schiarito con sonetti d’amore. La copertina che nell’estate 1973 ritrae un autentico visionario custodisce il cortometraggio funk Living for the City, la danza circolare Higher Ground, il flamenco jazzato Visions e la flessuosa Too High. Se Golden Lady si porge ricca con equilibrio e l’intensa All in Love Is Fair è pervasa da amarezza, Jesus Children of America sistema ombre accanto alla latinità di Don’t You Worry ‘Bout a Thing e ai pugni in guanti di velluto tirati a Nixon in He’s Misstra Know-It-All.

E poi? Poi il destino prova a rovinare la favola. Wonder incappa in un grave incidente d’auto: quattro giorni di coma, cinque mesi di riposo e una tournée più tardi, Fulfillingness’ First Finale palesa il cambiamento in un artwork dove, tra rimandi al presente e al passato dell’artefice, una tastiera punta in alto collegando una serie di piani. Traete i simbolismi che preferite, annotando un clima più meditativo (eccezioni la trascinante Boogie on Reggae Woman, l’altra coltellata a “Tricky Dicky” You Haven’t Done Nothin’, la cartolina dal Sudamerica Bird of Beauty, un’inquieta Creepin’) e la calda malinconia di Smile Please, Heaven is 10 Zillion Light Years Away, Too Shy to Say e They Won’t Go When I Go. Il forziere pressoché esaurito, bisogna scrivere altro materiale. Di nuovo, niente paura.

Paura, chi?

Vivere a Wonderland

L’incidente ha conseguenze e significati analoghi alla caduta dalla moto di Bob Dylan. Improvvisamente, l’essere umano è posto di fronte alla mortalità e ciò stabilisce un prima e un dopo, sfumando i confini tra biografia e arte. Da recenti prospettive afrocentriste Stevie medita il ritiro: chiude con Cecil e Margouleff, vuole andare in Ghana a occuparsi di bambini affetti da handicap e critica la condotta colà tenuta dal governo americano. Alla fine cambia idea, rinnova con la Motown cavandone altre palate di dollari e nell’autunno ‘75 ha un album pronto. Nondimeno, il perfezionista remixa e ritocca materiali su cui ha speso tempo e impegno finché Songs in the Key of Life corona ogni possibile ambizione.

Enciclopedico e compatto, il doppio LP – cui nel settembre 1976 si allega un corposo 7” per non lasciar fuori nulla – alterna impegno e intimismo, partendo dalle finezze a lento rilascio Love’s in Need of Love Today e Have a Talk with God per illuminare d’immenso una cameristica Village Ghetto Land, il soul rock progressivo Contusion, lo spumeggiante omaggio a Ellington di Sir Duke e il funk da manuale I Wish. Altrove scintillano gioielli senza tempo (Isn’t She Lovely, Pastime Paradise, As), compendi di stile (Summer Soft, Ordinary Pain, Black Man) e sottolineature di conclamato classicismo (Knocks Me off My Feet, Joy inside My Tears, Another Star, All Day Sucker).

Se per caso vi siete chiesti come suonerebbe insieme ai Roots.

La critica applaude all’unanimità, il disco entra nella classifica generalista al numero uno, vi soggiorna tredici settimane e rappresenta l’inizio dell’inevitabile discesa. Un triennio e Journey through the Secret Life of Plants, colonna sonora di un documentario giocata su strumentali, stranezze e una manciata di pezzi compiuti, si arresta alla quarta piazza e sparisce alla svelta dal radar. Per controbilanciare l’esperimento, nel 1980 il vendutissimo Hotter than July torna al pop con ottimi esiti nel reggae Master Blaster, nella spigliata dedica a Martin Luther King di Happy Birthday, in una romantica Lately e nelle venature disco di All I Do.

Anche se rispetto all’epoca aurea paga qualcosina in termini di manierismo, rimane l’ultimo significativo avamposto di un percorso che segna sempre più il passo tra duetti, collaborazioni e (per fortuna, pochi) dischi privi di smalto. D’accordo: sono quarant’anni che Stevie Wonder campa di rendita, ma biasimate voi chi ha composto canzoni immortali nella chiave della vita. La sua, la nostra, quella di chiunque conosciamo.  

Stevie Wonder Marvin Gaye Isaac Hayes 

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