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A volte è necessario approfondire. Per capire da dove arriva la musica di oggi, e ipotizzare dove andrà. Per scoprire classici lasciati indietro, per vedere cosa c’è dietro fenomeni popolarissimi o che nessuno ha mai calcolato più di tanto. Queste sono le storie di HVSR.

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Guida allo shoegaze in 10 dischi

Ok i My Bloody Valentine, le scarpe, gli sguardi bassi e il fuzz. Ma poi?

Eddy Cilìa distribuisce consigli per gli ascolti ai principianti assoluti: 10 album-simbolo per tracciare a grandi linee una scena a suo tempo presa in considerazione con incomprensibile ritardo anche dall’influente e autorevole stampa d’oltremanica.

Tanto vale partire dal nome. Dapprincipio non si parla di “shoegaze” bensì di “shoegazing”, letteralmente “fissarsi le scarpe”. Il termine debutta su Sounds a inizio 1990 nella recensione di un concerto dei Moose ed è subito adottato dal più diffuso e autorevole New Musical Express. Interessante notare come la potentissima stampa britannica, sempre pronta al bailamme mediatico a ogni stormire di trend, per una volta – in luogo di raccontare in diretta una scena, o inventarsela – si accorga in clamoroso ritardo di una che da lungi va germinando. Da poco dopo la metà del decennio precedente addirittura, se si assume a primo vagito il secondo EP dei My Bloody Valentine, The New Record by, edito nel settembre ’86, ancora acerbo e nondimeno con una sua peculiarità rispetto al mini di un anno e mezzo prima This Is Your Bloody Valentine, banalmente goticheggiante. E che già ha prodotto – firmato dalla medesima compagine, dublinese di natali e londinese di adozione dopo avere soggiornato prima nei Paesi Bassi e quindi a Berlino – un indiscutibile capolavoro. Assente da questa lista solo per la regola che ci siamo dati di indicare nelle nostre discografie di base un unico titolo per gruppo o solista, Isn’t Anything ha visto la luce nel novembre 1988 su Creation (casa discografica che sta allo shoegaze come in quegli stessi anni la Sub Pop al grunge), collezionato elogi e venduto bene, andando al numero 22 della classifica generalista UK e conquistando la vetta di quella indie. In dodici brani per complessivi trentotto minuti che sarebbero comunque bastati – non si fossero successivamente superati con il colossale Loveless – a riservare ai suoi autori un posto nella storia maggiore del rock, il canone di un genere neonato ma dai tanti progenitori è delineato pressoché per intero: congiura di opposti, musica che egualmente respinge e seduce, vaporosa, granitica e magmatica, il cuore di panna di melodie ineffabilmente insidiose che batte con metronomia post-kraut e proto-baggy sotto strati di chitarre che sventagliano feedback piuttosto che riff. Non è per alterigia o timidezza che chi sta sul palco ha lo sguardo volto in giù invece che alla platea: è che deve tenere d’occhio una selva di pedali e assortiti effetti.

La stagione felice dello shoegaze è breve. Un po’ perché una critica che pesa ancora parecchio sulle scelte del pubblico sembra paradossalmente addossare a questa ondata di band emerse senza chiedere permesso la colpa, che è sua, di non essersene accorta tempestivamente e reagisce sminuendole. Non pare un caso che sia il Melody Maker, arrivato buon ultimo a indagarle, a coniare una definizione sottilmente velenosa – «la scena che celebra se stessa» – sottolineando un’autoreferenzialità che in effetti c’è ed evidenziando come non conti che qualche decina di musicisti insolitamente collaborativi fra loro. E un po’, e anzi tanto, perché due boom contemporanei e opposti quali l’ascesa di un rock autoctono che non disdegna più il dancefloor, e anzi lo corteggia, e il grunge, cui il Regno Unito prima si consegnerà e poi reagirà sciovinisticamente con il cosiddetto britpop, la spingono quasi subito ai margini della ribalta. Secondo paradosso: un fenomeno esauritosi in pochi anni laddove era nato avrà sorte migliore negli USA (innumerevoli gli epigoni, saranno magari oggetto di un’altra trattazione) e, tramutandosi gradualmente in dream pop, allungherà il suo magistero ben dentro il secolo attuale.

The Telescopes

Taste
(What Goes On, 1989)

Innumerevoli gli antesignani dello shoegaze e alcuni così prossimi da risultarne coevi. In modi affatto diversi in Gran Bretagna Jesus and Mary Chain, Spacemen 3 e Loop (indicati in ordine di uscita di primo album: ’85, ’86 e ’87) hanno eletto a elemento fondante del loro sound il feedback. Evidenti discepoli dei secondi e con un idem pantheon di numi tutelari che include 13th Floor Elevators e i frastornanti Velvet Underground del secondo LP e dagli Stooges giunge ai Suicide (si noti bene: enorme l’influenza esercitata da un duo voce e synth su un genere basato su chitarre e distorsori), i Telescopes esordiscono nell’88 con un 7” flexi condiviso con i terzi e su Cheree, label che prende il nome da una canzone dei Suicide, e a 33 giri debuttano l’anno dopo per un’etichetta americana che a ragione sociale ha designato il titolo di una dei Velvet. Sicché appare pletorica l’ulteriore sottolineatura di tali ascendenze fatta battezzando Suicide la dodicesima e ultima traccia di un programma rovinosamente urticante benché depistantemente inaugurato dalla soffice And Let Me Drift Away.

Lush

Gala (4AD, 1990)

Fra gli ispiratori dello shoegaze figurano anche Siouxsie & the Banshees e Cocteau Twins. Londinesi, Emma Anderson e Miki Berenyi prima di un gruppo fondano una fanzine dove sfogano la loro passione per gli anni ’60 di Byrds e Beach Boys e delle band garage e psych sottratte all’oscurità da Lenny Kaye con Nuggets. Quando decidono di cambiare lato della barricata scrivendo le prime canzoni lo fanno unendosi ai Baby Machines (nome che omaggia i Banshees) del chitarrista Meriel Barham e del batterista Chris Acland. Barham lascia (si unirà ai Pale Saints, ma non in tempo utile per contribuire al loro esordio in lungo), le ragazze imbracciano delle chitarre (per entrambe il primo strumento era stato il basso) e con una sezione ritmica completata dal nuovo arrivato Steve Rippon nascono i (le) Lush. E chi dà loro domicilio discografico se non quella 4AD alle cui fortune i Cocteau Twins avevano offerto un apporto decisivo? Chi firmerà nel 1992 la regia del primo album “vero”, Spooky, se non Robin Guthrie? In questo contesto è però più significativo l’antologico Gala, che lo precedeva raccogliendo quanto dato alle stampe, principalmente su un mini e due 12”, fino ad allora.

Pale Saints

The Comforts of Madness (4AD, 1990)

Chi manca all’appello fra i referenti della scena che celebrava se stessa? Un poker di gruppi statunitensi: Galaxie 500, Opal, Dinosaur Jr., Sonic Youth. Nel più variegato e godibile (sebbene non esente da momenti in cui il passo accelera e si ricorre ai distorsori) dei dischi che abbiamo scelto per darne una rappresentazione insieme il più essenziale e completa possibile rispondono tutti “presente”, ma i primi due molto più spesso (gli Opal persino coverizzati: Fell from the Sun; coverizzando a loro volta il brano che lo tallona, Sight of You, i Ride chiuderanno un cerchio) degli altri due. Il pop “con le chitarre” programmaticamente esposto nell’epocale raccolta su cassetta C86, compilata dal New Musical Express l’anno prima che il gruppo si formasse, e le dilatazioni tipiche della psichedelia concorrono a dar vita all’album più ingiustamente dimenticato – sarà perché i Pale Saints mantenevano un profilo basso; sarà perché, scioltisi nel ’96 dopo avere pubblicato il quasi altrettanto notevole In Ribbons (1992) e il viceversa minore Slow Buildings (1994), diversamente da altri non si sono mai riformati – e meritevole di recupero dei dieci qui presi in esame.

Ride

Nowhere (Creation, 1990)

Favoloso il 1990 dei Ride, che mettevano in fila tre eccelsi EP cui entro l’anno seguiva il debutto adulto. Qualunque aspettativa si fosse creata, Nowhere ne era all’altezza. A livello di realizzazione, riscontri giornalistici, passaggi radiofonici, vendite. Quale il segreto del suo successo? Lo si può tuttora individuare nel perfetto amalgama tra due leader, Mark Gardener e Andy Bell, che separandosi perderanno il tocco magico. Le armonie vocali anni ’60, l’affastellarsi di chitarre effettate qui sferzanti e là marmoree donavano allo stile Ride una connotazione sua propria anche in un contesto tendente all’omologazione quale quello dello shoegaze. Potentissimi ma capaci di tocchi di rara delicatezza (In a Different Place), melodici e al contempo fragorosi (Seagull), gli Oxfordiani erano tra coloro che, in un ambito in cui Nowhere è ritenuto all’unanimità secondo giusto a Loveless dei My Bloody Valentine, lasciavano il segno più profondo. Canzoni come le due summenzionate – o Decay, guizzante e urticante; Paralysed, dai caratteristici intarsi elettroacustici; o ancora una Vapour Trail in scia agli Stone Roses – restano fra le più memorabili dell’epoca. A prescindere dal genere.

Slowdive

Just for a Day (Creation, 1991)

In un’intervista di inizio 2014 il leader Neil Halstead assumeva a scopo degli Slowdive il forgiare «una grandiosa bellezza senza tempo». Non stava declinando il discorso al passato, come sarebbe stato fino a pochi mesi prima visto che l’ultima uscita discografica del gruppo risaliva al 1995, quando Pygmalion aveva chiuso la stagione in ogni senso ruggente dello shoegaze rimediando indifferenza dal pubblico e pernacchie dalla critica senza meritare né la prima né le seconde. Significativamente omonimo, l’album del ritorno del quintetto di Reading andava dietro con calma sia all’intervista che (quattro anni) all’ancora più inattesa riapparizione alla ribalta con lo strepitoso MBV (2013) dei My Bloody Valentine (di lì a poche settimane i Ride contribuiranno a loro volta al più sorprendente dei revival con l’ottimo Weather Diaries) collezionando al contrario vendite apprezzabili e recensioni entusiastiche. E stavolta, con il suo prodigioso rinnovare i fasti di Just for a Day e Souvlaki (1993) ricreandone il respiro rumorosamente estatico, meritando queste e quelle. Così avrebbero suonato i Cocteau Twins se fossero stati dei Sonic Youth andati a scuola da Brian Wilson.

Swervedriver

Raise (Creation, 1991)

Se uno non sapesse altrimenti potrebbe credere Raise il prodotto di una band americana, sicuramente inscrivibile nel perimetro dello shoegaze, ma con lampanti punti di contatto pure con il grunge. Senza contare che la maggior parte dei testi ha come tema automobili e viaggi. Invece gli Swervedriver sono di Oxford ed era su raccomandazione dei concittadini Ride che approdavano alla Creation, per i cui tipi davano alle stampe per cominciare un tris di promettenti EP. Promesse mantenute appieno in un lavoro di rimarchevole impatto, costruito su fondamenta ritmiche solide a sufficienza da reggere i riff e i muri di distorsioni acide delle chitarre di Adam Franklin e Jimmy Hartridge, i due soli elementi sempre presenti in una vicenda (l’immancabile reunion data 2015) giunta ai giorni nostri. Miscela urticante e a tratti alquanto heavy da cui fa però capolino una voce che tratteggia melodie di malinconica trasognatezza certo più prossime alla 4AD che all’hard. Tensione tra poli opposti che qui si manteneva in perfetto equilibrio consentendo al quartetto di guadagnarsi un buon seguito sia in patria che oltre Atlantico. Non avranno altrettanta fortuna gli album successivi.

My Bloody Valentine

Loveless (Creation, 1991)

250.000 sterline: a tanto ammonta il conto per la registrazione di Loveless. Abbastanza da fare rischiare la bancarotta all’etichetta di Alan McGee e ci vorranno gli Oasis per rimetterne a posto i disastrati bilanci. Il pop con le chitarre più conformista degli anni ’90 pagherà le spese del più urticante. Smodata l’ambizione del secondo My Bloody Valentine: creare un incrocio fra Pet Sounds e Metal Machine Music come se l’avesse prodotto Phil Spector. Impresa già abbozzata nella canzone collocata tre anni prima in apertura di secondo lato di Isn’t Anything, quella Feed Me with Your Kiss che avrebbe piuttosto potuto essere intitolata Feedback Me with Your Kiss. Polpa melodica succosissima in scorza di urlanti chitarre in distorsione con un attacco ritmico che spiega perché i Nostri fossero al tempo la band preferita di Bob Mould. Parte da lì, Loveless. Ancora più eterea però la voce di Bilinda Butcher, galleggiante su vortici di elettriche ondivaghe. Come una Liz Fraser ingaggiata dai Jesus and Mary Chain per rifare ad libitum Sister Ray. Estasi dolorosa, tenerezza sadomaso, dolce ipnosi. La critica è subito unanime: una pietra miliare. Giudizio che il trascorrere del tempo non ha cambiato e, anzi, semmai rafforzato.

The Boo Radleys

Everything's Alright Forever (Creation, 1992)

Il loro capolavoro è il successivo di un anno Giant Steps, classico di un pop mercuriale e magniloquente capace di tenere assieme con arrangiamenti orchestrali reggae e noise, funk e punk, dub e psichedelia e sontuose melodie alla Beach Boys (tant’è che qualcuno l’ha definito «quanto di più simile a un suo Pet Sounds ebbe la generazione che schizofrenicamente si divise fra grunge e britpop»). Il loro brano di grandissima lunga più celebre è Wake Up Boo!, che nel ‘95 trascinava l’album ancora dopo e quasi omonimo Wake Up! al primo posto delle classifiche britanniche. Ed ecco spiegato perché il lavoro più ingiustamente sottovalutato dei Boo Radleys è Everything’s Alright Forever, che li coglieva in un momento insieme di passaggio e di straordinaria maturazione dopo il mediocre esordio del ’90 Ichabod and I, totalmente appiattito sul modello Dinosaur Jr. e a tal punto detestato dagli autori stessi che non hanno mai permesso che venisse ristampato. Pienamente ascrivibile al canone dello shoegaze ma già capace di arricchirlo e distanziarsene, concedendosi inserti di chitarre acustiche, intarsi latin-jazz (!), ricami di tastiere.

Catherine Wheel

Ferment (Fontana, 1992)

Questione di DNA? Voce e co-leader con il chitarrista Brian Futter dei Catherine Wheel, Rob Dickinson è cuginetto (sette anni più giovane) di Bruce Dickinson, cantante degli Iron Maiden. E guarda caso, per… ahem… battezzare il gruppo che fonda nel 1990 con Futter e una sezione ritmica che schiera Dave Hawes al basso e Neil Sims alla batteria, sceglie il nome di uno strumento di tortura medievale. Sempre guarda caso, dopo due EP per la minuscola Wilde Club, il quartetto debutta nel novembre 1991 per la Fontana (che lo ha ingaggiato vincendo una vera e propria asta con Creation e Opal) con un terzo 12” inaugurato da una trascinante ballata elettrica intitolata… Black Metallic. Siamo a dire il vero più dalle parti del Neil Young di Like a Hurricane che in area New Wave of British Heavy Metal, ma tant’è: della brigata dello shoegaze i Catherine Wheel saranno, con gli Swervedriver, quelli che con più convinzione proveranno l’assalto al mercato USA. Inizialmente con buoni riscontri sia di critica che commerciali, salvo poi venire sommersi dall’onda altissima del grunge.

Verve

A Storm in Heaven (Hut, 1993)

Curioso come due scene – shoegaze e britpop – percepite al tempo e poi pure storicizzate come antitetiche, la seconda addirittura in parte una reazione alla prima, abbiano condiviso un paio di gruppi. E che gruppi! Uno, abbiamo visto, i Boo Radleys. L’altro i Verve, niente di meno. Dei quali pochi giustamente ricordano Forth, fiacco esito nel 2008 di un’estemporanea rimpatriata, e al contrario assai ingiustamente non molti di più un primo lavoro in studio lontanissimo dai numeri di un campione di incassi quale Urban Hymns (ventidue copie vendute di quello per ciascuna di A Storm in Heaven, certifica la British Phonographic Industry), distante da quello anche stilisticamente ma artisticamente dello stesso – e stratosferico – livello. Se in alcuni brani, piazzati come un presagio a fondo corsa, i Verve che saranno un po’ si intravvedono, in precedenza il disco parla la lingua di una neo-psichedelia che, rovesciando l’assunto introspettivo del verbo shoegaze, guarda a dimensioni esterne più che interiori. Ipotesi insomma di space rock dopo il post-punk che altri si incaricheranno di esplorare.

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