Con Kid A e Amnesiac i Radiohead erano giunti a un punto di non ritorno. Da cui la domanda: come si riparte a comporre musica dopo aver stravolto le regole del rock? La risposta è tutta dentro il disco successivo.
Scavando nei meandri di YouTube si trova un bootleg dei Radiohead registrato la sera del 22 luglio 2002. È la prima delle tre serate consecutive in cui la band di Oxford si esibisce al Coliseu dos Recreios di Lisbona, un teatro ottocentesco a due passi dalla centralissima Praça do Rossio, ed è il concerto con cui il gruppo di Thom Yorke torna dal vivo dopo la lunga maratona del tour di Amnesiac, che si è concluso nove mesi prima in Giappone.
Salita sul palco, la band attacca There, There, un pezzo fino a quel momento inedito, poi Yorke annuncia che i Radiohead eseguiranno “some new songs”. Alla fine saranno in totale otto, sgranate una dietro l’altra prima che il vecchio repertorio riparta da I Might Be Wrong. È la prova generale della resa e dell’impatto sul pubblico di Hail to the Thief, condotta secondo una pratica che oggi, con l’avvento degli smartphone e dei social media, è sempre meno diffusa.
«We are accidents / Waiting to happen» intona Thom sulle note finali di quello che sarà proprio il primo singolo dell’LP6, e quello che ancora deve accadere è proprio un nuovo album dei Radiohead, che segue la deflagrante doppietta di Kid A e Amnesiac.
Al nuovo secolo i Radiohead sono arrivati quasi a pezzi, come se lo spazio occupato dalla notorietà e il plauso unanime ricevuto per OK Computer appartenessero a un’era precedente. Kid A e il gemello Amnesiac hanno destrutturato la loro musica e le loro certezze, e quel risoluto colpo di spugna al passato ha disegnato un luminoso tratto verso il ventunesimo secolo.
Il nuovo sound – acido, elettronico, minimale – sembra provenire dal futuro, ma ha un impatto a tal punto contemporaneo da rendere rapidamente chiaro che i Radiohead sono la band che più di ogni altra ha incarnato il suono del presente. È una scossa forte e inaspettata, che sembra coincidere in modo perfetto con i cambiamenti di un mondo all’apparenza immutabile nei suoi equilibri. I movimenti contro la globalizzazione infiammano le piazze in Europa e in America e, mentre cadono le Torri Gemelle, i primi versi di Idioteque suonano come un oscuro presagio («Who’s in a bunker? / Women and children first»).
In un’intervista a Rolling Stone del 2003, Thom Yorke usa il termine “presentimento” per definire le sensazioni e il contesto di quel periodo: il cantante racconta che, molto prima che la band iniziasse a registrare Hail to the Thief, si trovava in macchina e stava ascoltando un servizio della BBC sulle elezioni americane del 2000. Parlando delle presunte irregolarità del voto in Florida che saranno determinanti per il risultato finale, George W. Bush venne chiamato “ladro”: «Quella frase ha fatto scattare un interruttore nella mia testa. Inoltre c’era una luce particolarmente strana quella sera. Per me, tutti i sentimenti del disco derivano da quell’attimo».
Per quanto la scrittura di Hail to the Thief abbia inevitabilmente assorbito l’aria di un certo periodo storico, è sbagliato – o quantomeno limitante – definirlo un album “politico”, come spiega Yorke stesso a Spin:
Sarebbe piuttosto superficiale se il titolo dell’album si basasse esclusivamente sulle elezioni americane. Per me si tratta di forze che non sono necessariamente umane, forze che stanno creando questo clima di paura. Durante la registrazione del disco sono diventato ossessionato dal modo in cui alcune persone sono in grado di infliggere un dolore incredibile agli altri credendo di fare la cosa giusta.
Il suono del jack che si infila nella chitarra di Jonny Greenwood è la prima cosa che si ascolta in Hail to the Thief e, forse, è anche la prima di alcune dichiarazioni di intenti.
Da un lato ci sono infatti le sperimentazioni cui i Radiohead ci hanno abituato da Kid A in poi. Elettronica ed elettricità: ogni suono può essere potenzialmente trasformato in musica, persino il rumore di un cavo che si infila nella chitarra, che smette di essere qualcosa di sporco e grezzo da eliminare in fase di montaggio e diventa invece un elemento coerente con la “narrazione” musicale che finora ci ha sedotto.
Dall’altro lato ecco un simbolismo quasi didascalico: questo è l’album in cui tornano le chitarre, o meglio quello in cui i Radiohead integrano il nuovo e il vecchio, il presente e il passato, lo spirito del loro inizio di secolo e l’identità che ha segnato gli anni ’90. Probabilmente è questa la più grande spinta in avanti di Hail to the Thief: un progresso che evolve ogni discorso che è stato intrapreso, fino al completamento del percorso.
Nel libro This Isn’t Happening. Radiohead’s Kid A and the Beginning of the 21st Century, Steven Hyden afferma che spesso il primo brano in scaletta determina la lettura che la stampa darà di un album, raccontando di come Jeff Tweedy si fosse reso conto che gli album degli Wilco venivano interpretati dai giornalisti proprio sulla base della canzone iniziale. Forse per questo la scelta di aprire Hail to the Thief con 2+2=5 ha rafforzato la sensazione che si trattasse del lavoro in cui i Radiohead prendono una netta posizione politica. ll riferimento più robusto, in realtà, è a 1984 di George Orwell: il sognatore che cerca di raddrizzare un mondo nel quale 2+2 fa sempre 5.
C’è un tratto comune tra i primi due brani in scaletta: inizio ipnotico, atmosfere rarefatte, un imprevisto slancio di energia che cambia il panorama. Se in 2+2=5 è uno scatto improvviso, Sit Down. Stand Up poggia su una crescita graduale, raggiungendo un climax che monta fino a esplodere in miliardi di particelle o, per meglio dire, di rain drops. A questo punto ci si rende conto di avere a che fare con la chiusura del cerchio: tornate le chitarre, non sono sparite le innovazioni. I due pezzi di apertura del disco sono la sintesi di ciò che i Radiohead sono diventati, come se avessero ripagato così l’attesa e le perplessità di chi, fino ad allora, si chiedeva che direzione avrebbero preso dopo Kid A e Amnesiac.
In questo senso la successiva Sail to the Moon suona come un altro inizio. Come se attraverso i primi due pezzi la band avesse risposto in maniera esauriente ai dubbi e ora suonasse libera da qualsiasi pressione. Si spiega anche così una ballata malinconica e sognante che apre un primo spiraglio di luce e di speranza.
C'è stato un tempo in cui tutti pensavano che forse il mondo stava progredendo e forse stavamo migliorando, anche in termini di comprensione delle altre persone, di tolleranza, compassione e così via. Poi è come se qualcuno avesse premuto un interruttore e avesse fatto tornare tutto indietro.
È Così che Thom Yorke racconta il testo di Backdrifts, forse il punto che collega più profondamente l’album a Kid A (prova ne sia che lo sviluppo del pezzo risale a quel periodo). Da par suo, Colin Greenwood definisce questa canzone come quella in cui il gruppo ha iniziato a capire come far dialogare le macchine e gli strumenti “organici” prendendo le misure con un modo nuovo di approcciare la musica.
Alcuni brani dei Radiohead hanno riff di chitarra così iconici da essere ricordati per la loro efficacia: non a caso, Go to Sleep è un’altra boccata d’aria ed energia, di luce e armonia. Una canzone diretta ed efficace che sistema una delle pietre angolari di un disco che, da qui in poi, torna a essere spigoloso e poco propenso ai compromessi. L’atmosfera diventa più cupa con la malinconica Where I End and You Begin, in cui risalta il contrasto tra la melodia della voce e il ritmo sostenuto della batteria, aprendo un ponte su OK Computer.
Con We Suck Young Blood la band destruttura ancora una volta la classica forma canzone, trovando un nuovo modello che rende automaticamente originale. Il brano non cede alla tentazione di trasformarsi in una coinvolgente danza, ma si inerpica nelle strade tortuose degli intrecci sonori e della sperimentazione. The Gloaming, invece, riporta e attualizza le suggestioni di Kid A su un territorio ancora più ostico, per ricordarci da dove siamo venuti e non farci dimenticare che la ricerca è continua e ostinata, perché l’ispirazione in questo periodo è un drago costantemente affamato cui bisogna dare sempre di più.
Le parole di Thom Yorke al New Musical Express nel maggio del 2003 spiegano meglio di qualsiasi altra cosa la forza inebriante di There There: non è solo una delle canzoni più importanti dell’album, ma dell’intera discografia della band britannica.
Mi ha fatto piangere quando l'abbiamo finita perché penso che sia la cosa migliore che abbiamo mai fatto.
Uno dei suoi punti di forza, secondo Jonny Greenwood è «Un enorme accumulo di tensione e rilascio. Il che è davvero importante nella musica: fare in modo che le cose non diano un risultato istantaneamente, ma costruirle affinché funzionino bene nell’arco dei cinque minuti della canzone».
A parte il primo singolo, c’è comunque ancora spazio per episodi importanti: la breve, struggente ballata I Will, dove le linee melodiche si sovrappongono in un unico, coinvolgente canto, il groove intrigante di A Punch Up at a Wedding che dona al quadro complessivo un colore diverso e inaspettato, una Myxomatosis, corrosiva e irregolare dove risalta il suono imponente delle tastiere, prendendo ispirazione da band come Tubeway Army e Add N to (X) che ne facevano un utilizzo altrettanto spregiudicato.
Infine, le ultime suggestioni: la morbida Scatterbrain, in cui il contrasto tra la tempesta selvaggia narrata nel testo e la calma interiore trasmessa dalla musica dà origine a sensazioni ambivalenti, fino al sorprendente finale di A Wolf at the Door, che a suo modo mette un punto risolutivo a un album vario e ispirato. L’ultima canzone è un inaspettato flusso di coscienza, che con un giro di chitarra ipnotico e il ritornello quasi beatlesiano apre definitivamente alle melodie. Da un punto di vista musicale è probabilmente il momento più liberatorio, mentre il testo rimanda a immagini amare e rabbiose pur attraverso un narrato fiabesco: un altro contrasto, un altro esercizio di equilibrio stilistico fragile come un filo sottile, ma al contempo solido e dalle forme originali.
Sono tutti qui i 56 minuti di Hail to the Thief. O meglio: 56 minuti in cui trovare risposte o dubbi, ispirazione o perplessità.
Intervistati da Telegraph Magazine nel maggio del 2003, i membri della band sono chiamati a descrivere la genesi di Hail to the Thief da un personale punto di vista. Il batterista Philip Selway racconta di un processo molto più sereno rispetto a Kid A e Amnesiac: «Con Hail to the Thief c’era entusiasmo per quello che stavamo facendo e una spontaneità che di certo non sentivamo da un po’ di tempo». Quando il giornalista Craig McLean chiede che cosa rappresentino i Radiohead, Phil risponde:
Essere musicalmente il più onesti possibile, cercando di basare qualsiasi decisione che prendiamo su principi artistici piuttosto che su qualsiasi altra cosa.
È la libertà di esprimersi senza limiti o condizionamenti assecondando l’ispirazione senza porsi nessun limite. Forse è davvero questa l’unica cosa che conta e che i Radiohead riescono a fare così bene.
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