Gli Opeth sono solo Mikael Åkerfeldt o una vera e propria band? Prima di Blackwater Park la risposta è una, nel caso di Blackwater Park probabilmente un’altra, dopo… meglio lasciar perdere. Ecco un assaggio dei dolori del giovane Mikael di inizio millennio, a metà tra death metal e fascinazioni progressive anni ‘70.
C’è un momento nella carriera di una band in cui… in cui cosa?! Beh, per la verità non c’è un solo momento, ma molti. E tanti altri ancora, man mano che si scava all’indietro e ci si torna con il pensiero. La gran parte di quei momenti, però, si perde nell’abisso, così come altri, più vistosi, vengono immediatamente cristallizzati nelle cronache, magari grazie a quella certa opera significativa, di successo, decisiva. Quelli più interessanti, invece, si recuperano tutti con il senno di poi: li si è “vissuti” soltanto a posteriori, magari a distanza di anni. E li riconosciamo come importanti, pregni di significato, degni di vaticinio.
Molti anni dopo l’uscita dell’album, Mikael Åkerfeldt ha capito che Blackwater Park – o meglio: tutto l’anno e mezzo intorno alla realizzazione di un vasto scaglione creativo ed esistenziale convenzionalmente denominato Blackwater Park – è stato per lui davvero pieno di vita e segnato da quello che possiamo chiamare fato. Colmo di una serie di atti, sguardi e sospiri puntellati nel suo tempo animico che ancora oggi gli raccontano parecchie cose. Alcune proveremo a dircele tra noi, ora.
Per cominciare, durante le sessioni dell’album, tra Mikael e il suo inseparabile comprimario chitarristico Peter Lindgren qualcosa si è rotto, irrimediabilmente. Åkerfeldt non poteva immaginare che il processo di straniamento dell’amico fosse così irreversibile. Con il tempo e, appunto, il senno di poi, è diventato chiaro che, il momento in cui Peter, durante le registrazioni, una sera ha smesso all’improvviso di provare un riff particolarmente ostico dicendo: «Ok, registralo tu, altrimenti qui facciamo notte» ha segnato la prima, grossa crepa che due album dopo ha portato il vecchio Pete a caracollare fuori dagli Opeth e da tutto il circuito musicale che conta.
Parlando di momenti importanti, impossibile non ricordare quando Mikael, ascoltando le pessime registrazioni dei brani che poi sarebbero diventati fondamentali nel nuovo album (e che lui aveva per la prima volta registrato su un computer a casa di un amico, utilizzando per la prima volta il programma Cubase), ha confessato di aver pensato che le canzoni fossero ottime, ma che questa cosa per la prima volta non gli impediva di sentirsi una merda. Forse stava diventando adulto, giusto un attimo prima di sfondare.
D’altra parte, aveva lottato molti anni con il suo gruppo tentando di conquistare un contratto discografico che conta. Era certo che, una volta centrato l’obiettivo, il resto sarebbe stato un’esaltante discesa da acquasplash. Così aveva sempre raccontato a se stesso, ma era una bugia e ora doveva capirlo. Dopo quattro album e una serie di contratti firmati e controfirmati con etichette di livello (Candlelight, Peaceville), la band non era ancora riuscita a fare un tour mondiale e, a essere sinceri, non se la filava praticamente nessuno, a parte una schiera di disagiati in fissa con la necrofilia e i riti satanici.
Però i nuovi pezzi erano davvero fichi. Forse i migliori mai realizzati fino a quel momento.
Poi è scattato qualcosa. Mikael, in studio, inizia a urlare al microfono i versi delle nuove canzoni, scritti poco tempo prima, solo, seduto al tavolo della cucina. Sente di avvertire solo lì, mentre li sta incidendo e gli altri da dietro il vetro lo osservano, un improvviso, un tempestoso senso di disagio. Per carità, non era la prima volta che esprimeva stati d’animo tremendi: aveva descritto visioni da incubo in Morningrise e Still Life, intonato elegie malsane dedicate a qualche decadente scorcio naturale della sua memoria in My Arms, Your Hearse, eppure stavolta ci era andato giù davvero pesante e non se ne era neppure reso conto. Sembravano i pensieri di un maniaco. C’era qualcosa di sbagliato nella sua testa e non gli veniva da ridere a pensarlo. Persino i suoi compagni di band non lo guardavano più a lungo negli occhi quando gli parlavano. Forse era andato troppo in là. Ben oltre i cancelli del Parco di Blackwater.
Tutte queste svolte dell’esistenza, riconosciute dopo anni di distanza, rappresentano l’ennesima dimostrazione di quanto l’artista – a meno che non sia Franco Battiato o i Dead Can Dance – sia un completo inconsapevole di ciò che sta creando e di cosa il mondo là fuori potrebbe pensarne.
Il povero Åkerfeldt – squattrinato, mollato da tutti, le dita piene di geloni e una chitarra acustica canadese riassemblata con la colla vinilica e svariate bestemmie – a inizio millennio stava per incidere l’album di maggior successo della sua esistenza. Il titolo che avrebbe trasformato un nerd impacciato in uno degli ultimi dèi del progressive rock.
Blackwater Park, pubblicato dalla Music for Nations quando era ancora un’etichetta molto forte negli Stati Uniti e recensito positivamente in ogni dove, è diventato un best-seller, ha vinto secondo le proprie regole e cambiato il corso della vita di Mikael e di tanto prog metal. Però resta l’album più depresso, malato e disperato degli Opeth. Il pubblico ci si avvicina con fare abbastanza sicuro, abbindolato dalla sua fama, però viene risucchiato nella foresta di Biancaneve dopo la bomba atomica e ne esce con lesioni cutanee chiare intorno allo sterno, debolezza muscolare e un senso di calore eccessivo: guarda caso, i sintomi primari della lebbra.
Ma non appesantiamo troppo la faccenda. Il contagio è circoscritto solo all’anima.
Åkerfeldt ha sempre parlato con grande entusiasmo di band retro doom, psych prog, folk dark e del catalogo Vertigo, ancora quando la faccenda non era per niente una moda. C’erano loro e i Cathedral a fare una testa così ai giornalisti con nomi tipo Captain Beyond, Lucifer’s Friend o Bram Stoker. Lui, però, rispetto a Lee Dorrian, ha aggiunto via via nomi più improbabili per il pubblico metallaro che lo seguiva: il poeta suicidario Nick Drake, l’odontotecnica sballata Linda Perhacs, il prog deviato e sinistro dei Comus, la magia blanca dei Fleetwood Mac. Per non parlare del solo album mandato a ruota fino a fondere le orecchie della band durante la lavorazione di Still Life e di Blackwater Park: Innervisions di Stevie Wonder.
Ed è un’esperienza interessante ascoltare questo disco prima di calarsi negli acquitrini degli Opeth. I motivi sono tre. Il primo è che si tratta di un album meraviglioso che chiunque dovrebbe sentire almeno una volta nella vita. Il secondo è che scoprirete che Higher Ground non l’hanno mica scritta i Red Hot Chili Peppers. Il terzo è che, dietro la glassa ultradistorta e mefitica di Blackwater Park, c’è la stessa anima irrequieta e complessa di brani come Visions. Sul serio, senza esagerazioni.
Mikael Åkerfeldt oggi ha ammesso che gli Opeth “in quanto band” non sono mai esistiti sul serio. Scrive da sempre tutto lui e spesso ha suonato in studio gli strumenti degli altri. Però ha sempre avuto bisogno di illudersi che ci fosse un gruppo, al punto che, pur di non comparire come unico songwriter, prendeva per buoni un paio di riff del povero Lindgren a ogni disco per metterselo al fianco come compositore.
Su Blackwater Park c’è un momento in cui Mike capisce che: 1) non c’era mai stata, appunto, una vera band; 2) solo ora gli Opeth sembrano diventati qualcosa di assai vicino a una squadra. Per la prima volta e con sua grande sorpresa, Åkerfeldt si sente parte di un insieme collaborativo in grado di arricchire le cose senza nulla togliere alla propria visione.
Non certo con il duo ritmico Lopez e Mendéz – gregari di talento ma pur sempre gregari – né tantomeno con Lindgren. Stiamo parlando ovviamente di Steven Wilson, che oltre a cantare su Bleak, suona e fa i cori ovunque, scrive le parti pianistiche e persuade Mikael a non usare quel cazzo di Ebow su ogni dannato pezzo. Insomma, decisamente qualcosa più di un esecutore. Non dimentichiamoci, inoltre, che per certo ci ha messo del suo anche Fredrik Nordström, produttore swedish death per eccellenza che, oltre a mixare l’album, ha disegnato la coltre sonora black-death-gonzo-prog che lo caratterizza. Questi signori hanno saputo dare del “tu” al piccolo Mikael e, grazie a loro, per una volta lui si è sentito meno solo e vicino all’esperienza di una vera band.
Nel tempo, l’amore di Mikael per il vecchio vinile e per il progressive anni ‘70 ha trasformato un gruppo capace di fondere Camel e Morbid Angel in una sbornia di vecchi 33 giri fine a se stessa, ma con Blackwater Park il nutrimento dal passato non si era ancora trasformato in cannibalizzazione. La musica rétro – anche molto distante dal genere che gli Opeth suonavano – ne ha illuminato il percorso arricchendo le strutture violente e abrasive del death metal in un modo così fresco e originale che non si sarebbe mai potuto ottenere se lui avesse continuato a sbattere il grugno su Blessed Are the Sick o su Leprosy dei Death.
Peccato che l’armata Åkerfeldt sia stata l’ultimo grande esempio di evoluzione e, successivamente, lo sia stata anche in negativo per ciò che oggi rappresenta un inveterato declino revisionistico che regna da almeno quindici anni buoni nel genere metallico, persino quello che si autodefinisce più “progressivo”. A parte i Leprous e poche altre realtà, sembra che ogni gruppo sia bollito in un loop passatista senza senso, in una scriteriata e disperata fascinazione per un tempo che non ha vissuto e che mai potrà vivere, se si limiterà a ricalcarne superficialmente le gesta senza seguire invece l’esempio di integrità, coraggio e ricerca personale che gruppi come i sopracitati Camel e gli stessi Morbid Angel hanno offerto nei loro anni migliori.