A volte l’amarezza può distrarre, e una vicenda dal finale triste rischia di mettere in secondo piano ciò che davvero conta, ovvero la musica. Non nel caso dei Morphine e di un capolavoro dove intensità e dramma sono parte integrante della magia.
Caro diario… Non ricordo dove mi trovavo la sera del 3 luglio 1999. Considerato che era sabato, stavo probabilmente tirando tardi da qualche parte in un’estate provinciale che rammento come una noiosa intercapedine verso giorni più felici. Di certo non presenziavo ai Giardini del Principe di Palestrina ed è altrettanto sicuro che non ho mai invidiato i presenti al festival Nel Nome del Rock, i quali non vedevano l’ora di assistere alle esibizioni di Morphine e Queens of the Stone Age. È lì, infatti, che il cuore di Mark Sandman ha cessato di battere. L’uomo che immancabilmente attraeva l’attenzione – magro, alto, l’eleganza tipica dei riservati – riusciva appena a eseguire un brano e, dedicato il successivo al folto pubblico, all’improvviso si accasciava sul palco.
Un arresto cardiaco lo portava via, quarantaseienne. Una morte “normale”, ha scritto qualcuno in un resoconto che ho consultato mentre cercavo materiale per queste righe. Perplesso, mi domando in che senso e in che modo la morte possa essere considerata normale. A lei non importa quanti anni hai, se siedi comodo in salotto, passeggi o suoni a migliaia di chilometri da casa: arriva senza bussare e arrivederci. Normale, una faccenda così? Neanche se forzi il cinismo al limite e ti fermi ai dati oggettivi di un referto medico. Perché il mondo è molto più che oggettività e lo sa benissimo chi, tra un addio e l’altro, continua a vivere e tenere duro.
In parte consola annotare che, in anni pre-social, ci sono state risparmiate le foto con il defunto da parte di chi coglie ogni possibile occasione per glorificarsi l’ego. Al loro posto, sul muro della scalinata che conduce ai Giardini del Principe una targa di pietra ricorda una persona gentile, sorridente e intenta a inseguire pensieri su un bloc-notes. Artista in tutti i sensi enigmatico, per un tempo troppo breve Mark Sandman ha camminato tra i comuni mortali anche se comune non era.
Mortale sì, ahilui e ahinoi. Però capace di concepire musiche inimitabili e di scrivere canzoni che allo stesso tempo feriscono e alleviano i tagli che lasciano sulla pelle. Come l’esistenza, che prende e dà in un circolo continuo. Come i Morphine, che di questo cerchio mostrano il midollo e i meccanismi, le curve e le illusioni, il senso di perdita e la voglia di descriverlo per venirci a patti in un modo o nell’altro.
Per questo il loro fascino così imprendibile lavora per sottintesi finché non raggiunge i nostri angoli più segreti e vi rimane, da enigma perduto per sempre con il suo autore e con ogni speranza di risolverlo. Ma se gli amici a un certo punto se ne vanno, la musica non finisce perché contiene l’anima di un uomo. Entrambe sono al vostro servizio, ogni volta che lo desiderate.
Cosa buona e giusta osservare il passato. Inevitabilmente, si tratta di un gesto che compiamo indossando le lenti dell’oggi: ascoltiamo, contestualizziamo e cerchiamo di comprendere in che misura tendenze e generi siano radicati nella contemporaneità. Per quanto possibile, la riflessione dovrebbe esulare dalla nostalgia, poiché se ci concediamo l’amarcord ecco la mente correre subito all’educazione sentimentale che ci segna tra i quindici e i vent’anni. Giusto così: in fondo nessuno può dirsi indenne al processo naturale che regala a giornalisti e critici una “linea” e agli appassionati i “gusti personali”.
Indipendentemente dalla vostra collocazione, immagino che avrete ben presenti gli anni Novanta. Rammenterete l’evoluzione del rock all’insegna di una totale contaminazione che – avviata in largo anticipo da Talking Heads e Clash – sfocia da un lato nella stagione del “post” e dall’altro in una serie di infinite permutazioni. A ben ascoltare, però, il rimettersi in gioco prende comunque le mosse dal già esistente: nel caso dei Morphine, dall’ennesima trasfigurazione della black che affronta blues e jazz adottando un’efficace economia di mezzi.
La ricetta battezzata da Mark low rock prevede batteria, sax, basso, testi che omaggiano la Beat Generation. Nient’altro. Niente chitarra. Basta e persino avanza, siccome un power trio assolutamente atipico vanta invidiabile solidità formale, ampi spazi di manovra, senso dell’avventura e creatività schietta. Quello che ti aspetti da un individuo focalizzato sulla sua passione più grande, e tuttora è questo il ricordo che ognuno serba del talento originario del Massachusetts.
Alla carriera in ambito musicale Sandman arriva piuttosto tardi, dopo una laurea e un vissuto consumato tra aver seppellito due fratelli ed essersi arrangiato a vivere da pescatore e tassista. Come un Travis Bickle cui negano l’happy end, nel corso di una rapina subisce una ferita al petto con conseguenze che forse conducono al luglio 1999.
La musica rappresenta perciò una fonte di salvezza quando nei medi anni ‘80 canta e imbraccia la chitarra nei bostoniani Treat Her Right, gruppo blues rock in cui approccia lo strumento concentrandosi sulle corde per l’appunto low di MI e LA. I loro LP contengono solo vaghe avvisaglie della grandezza che emerge dopo lo scioglimento, quando un’altra band si affaccia al proscenio nel fatidico 1991. Prendetelo per un altro segno del destino.
Un destino che in principio si piega al genio il cui cognome richiama la graphic novel di Neil Gaiman, capolavoro che mostra affinità con i Morphine in una combinazione fra generi che ruota attorno a una dimensione onirica. È proprio dal mondo dei sogni che il nostro uomo afferma di aver prelevato la ragione sociale e in special modo da Morfeo, la figura che secondo la mitologia greca veglia sugli addormentati laddove nel folklore germanico spetta al sandman farci sognare spargendo sabbia sui nostri occhi.
Non è dunque per caso che i Morphine siano acrobati fantastici ma concreti, sul filo di un’apparente semplicità, a monte della quale troviamo in realtà una visione precisa e un approccio tanto spontaneo quanto scrupoloso. L’interesse di Mark per l’etnologia si salda così ai rudimentali aggeggi ricavati da casse del tè, secchi ed elastici tipici dello skiffle: adattato il basso lasciando le due corde più profonde, rimuove i tasti per cercare le sfumature e usa lo slide, ottenendo un impasto ruvido, caldo e tremolante dove si muovono ombre ataviche e inquietudini moderne, bordoni al confine del rumore e scheletri melodici.
Poi si circonda di spiriti affini: accanto al batterista Jerome Deupree, Dana Colley incarna la complementarità che incrocia sax baritono e tenore alla voce discorsiva, pigra e torbida, ai ritmi di estrosa puntualità e alle atmosfere noir. La somma supera il totale con un “a sé” che spezzetta blues, rock e jazz per ricomporli in fogge inaudite. Eloquente nel ‘91 Good, debutto per la piccola Accurate che maltratta metamorfosi jazz-funk, ipotizza i Lounge Lizards a zonzo in una discarica, declina le dodici battute secondo una sanguigna chiave arty oppure le cosparge di zolfo. Che sia qualcosa di sensazionale è chiaro anche a un marchio intelligente e raffinato come Rykodisc, che assolda il terzetto e ristampa l’album mentre a tamburi e piatti siede Billy Conway, anch’egli ex Treat Her Right e prematuramente scomparso nel 2021.
Entro un biennio, Cure for Pain cristallizza l’arte dei Morphine in una maturità dall’elevatissimo standard compositivo. Uno splendore, quanto compreso tra l’introduzione ambientale di Dawna e la crepuscolare cartolina western Miles Davis’ Funeral: le strutture argute e irresistibili di Buena bagnano il blues nella pece, I’m Free Now è una carola avvolgente e pigra, All Wrong tratteggia un’elastica funkadelia bianca e Candy porge una tesa ballata di nicotinico languore.
Se A Head with Wings possiede lo spirito baldanzoso delle ore piccole, il mandolino spunta nel folk degno di un Mark Lanegan pacificato In Spite of Me, Thursday narra di adulteri con frenesia adeguatamente martellante e l’omonimo “post roots” districa disturbati echi Fifties. Al bluesabilly concepito da un Chris Isaak malaticcio di Mary Won’t You Call My Name? rispondono il Nick Cave traslucido della meditabonda Let’s Take a Trip Together e l’eccitazione a stento trattenuta di Sheila. Un capolavoro inarrivabile per chiunque, Cure for Pain compresi gli stessi Morphine.
In un’epoca nella quale sta succedendo di tutto e di più, ha una logica che Cure for Pain venda niente male. Un miracolo cui si replica a testa alta limando un po’ di asperità e scansando i cliché in Yes, che centra il bersaglio a metà decennio con un linguaggio più diretto, indagando con estro e ispirazione inalterati i risvolti di un’espressività ormai classica e concedendo eccellenti deviazioni dalla via maestra. Una fetta di mondo si accorge di sonorità bizzarre che tuttavia conservano tratti universalmente riconoscibili per poter essere apprezzate anche da una platea più vasta.
Una notorietà d’autore che incontra la fascia più alta del “gusto medio” stuzzica l’interesse della Dreamworks, lesta ad aggiudicarsi un nome consapevole della propria statura ed ecco giustificata la leggera prevedibilità di Like Swimming. Tenendo a bada la noia, ci si destreggia con apprezzabile mestiere, gradevolezze sinora inedite e zampate da cavalli di razza in un disco di buona caratura, il cui unico difetto risiede nel riscontro commerciale buono ma insufficiente a garantire il salto di categoria. Sandman ne è consapevole, e lo stesso vale per l’esigenza di svoltare stilisticamente.
Prova ne sia un eccellente LP sul quale la formazione sfacchina fino all’estate del ’99 e che per forza di cose vedrà la luce postumo. Sfoggio di classe e inventiva, The Night indica un’evoluzione articolata su arrangiamenti arricchiti con giudizio e sulla fuga da una peculiarità a rischio di stanchezza. Mai un momento di flessione, qui, e apici nelle sabbie orientali di Rope on Fire, nel trip hop dolcemente sghembo di Like a Mirror, nel Leonard Cohen girato soul del brano omonimo e nel groove di Top Floor, Bottom Buzzer.
Tra lo scrosciare di applausi puoi udire qualche sospiro. Anche se hai cercato in ogni modo di fartene una ragione, alla fine vince il rammarico pensando ai dischi che i Morphine avrebbero potuto continuare a offrici se quella maledetta sera il fato avesse deciso altrimenti. Purtroppo così sono andate le cose, anche se così non dovrebbero mai andare.