Dolorosamente, al cuor non si comanda e, pur non avendo in simpatia reunion, tour celebrativi e sciccherie assortite, quando abbiamo rivisto insieme Kimya Dawson e Adam Green, non abbiamo resistito. Proprio loro, che tramite Juno ed Ellen Page avevano spezzato il muro dell’underground per entrare nelle case di milioni di inconsapevoli amatori. Ora che sono tornati, saremmo curiosi di sapere cosa ne pensa Elliot Page. Noi, incondizionatamente, ci siamo.
Le pesche sono ammuffite. Per forza: saranno passati quasi trent’anni! Un ragazzino e una donna – Adam Green e Kimya Dawson – che, partendo dalle strade di New York, sono arrivati… alle strade di New York. Si conoscono quando lui ha 13 anni e lei 20, a un microfono aperto per studenti a Westchester County. Kimya è un’accompagnatrice di campi estivi, quindi facilitata al contatto con ragazzi più giovani, anche grazie alla madre maestra. Qualche tempo dopo l’esibizione Adam inizia a lavorare per Pizza Pizzaz, proprio a fianco del negozio di dischi nel quale è impiegata la stessa Kimya. Durante una pausa si concede un giro fra gli scaffali, e la cassiera gli chiede se per caso fosse lui quello che aveva visto esibirsi all’Open Mic. Così parte la connessione: vanno per concerti (Unwound, Make Up), iniziano a suonare insieme (devono prima però ottenere il permesso dai genitori, che decideranno comunque, le prime volte, di accompagnarli). Suonano, circolando, muovendosi, giocando (“to play”… ah, la lingua inglese, quando riesce perfettamente a figurare la performance e il suono come una prova divertente, accattivante, gagliarda): del resto è il 1994 e tutto quello che succederà (che in realtà al momento non possiamo conoscere, carpendone soltanto l’anima nella raccolta Unreleased Cutz and Live Jamz 1994-2002) entrerà a far parte della loro storia, della loro leggenda.
Ma i confini dell’underground sono labili. Sbarcheranno infatti anche sul ponte di un film che incasserà più di 230 milioni di dollari in tutto il mondo, faranno amicizia con Strokes e Regina Spektor, si lasceranno per millemila progetti paralleli, incideranno almeno un disco con un’altra coppia che rimarrà negli annali (o almeno nel mio cuore: con Binki Shapiro lui, con Aesop Rock, negli Uncluded, lei).
Soprattutto, scriveranno canzoni che rimarranno nel cuore di tutti i loro ascoltatori: dirette, vere, senza fronzoli. In una sola parola, oneste.
Iniziamo dalle cose futili che però permettono di campare. Milioni di dollari? Hollywood? Yes, Juno, di Jason Reitman (figlio di cotanto padre Ivan), con Ellen Page, Michael Cera, Jennifer Garner e Jason Bateman. Scritto da Diablo Cody, vincitrice dell’Oscar alla miglior sceneggiatura originale – tre altre nomination. Riassunto schematico: gravidanza indesiderata, bimbo promesso a una coppia benestante e, ovviamente, nulla che andrà come preventivato. Ripensamenti, vicinanze, sensi di colpa, la crescita, il liceo. La musica dei Nostri costella tutta la pellicola (in buona compagnia: Mott the Hoople, Sonic Youth, Belle and Sebastian, Cat Power, Velvet Underground) proprio su indicazioni dell’attrice principale che, interrogata dal regista su che tipo di musica dovesse ascoltare il personaggio, non aveva avuto nessun dubbio nel segnalare i Moldy Peaches come prima scelta. Interpretata dalla coppia di attori nel film, la loro Anyone Else But You potrebbe essere presa come buon esempio del progetto: chitarrina, quelle voci, romanticismo onesto, un porsi completamente fuori dai trend, sempre e comunque canticchiabili.
Esempio che varrebbe comunque per quasi tutte le 19 canzoni contenute nel loro primo e unico album. Appiccicose, irresistibili, sboccate. Provate alla prossima riunione di famiglia ad approcciarvi a zii e parentado con l’irresistibile cantilena di Steak for Chicken: potrebbe svoltarvi il cenone e magari mettere un po’ di salsa piccante sulle ali cadenti del povero tacchino.
Mardi Gras came and went
All my money has been spent
How an I gonna pay the rent?
Sitting on your face / Sitting on my ass
Who mistook the steak for chicken?
Who am I gonna stick my dick in?
We’re not those kids
Sitting on the couch
Sono fatti così I Moldy Peaches, in grado di prendere parti di Daniel Johnston e di Fugs, edulcorarle facendole diventare pop, romantiche, calde come sotterrate dalla coperta di Linus, ma allo stesso tempo, improvvisamente, anche di alzarsi e urlare giocando come i Beastie Boys, facendo letteralmente quel cazzo vogliono.
Di norma acustici, batteria minimale, chitarra suonata al minimo sindacale, qualche tocco di pianoforte o di tastiera, due voci che si rincorrono. Voci che, tra un respiro e l’altro, si fermano per lasciare spazio ai sorrisi dei due. Si percepisce il costante divertimento della coppia nel raccontare storie e mondi, reali o inventati di sana pianta. Qualsiasi scusa è buona per buttare tutto in caciara o incattivirsi fino a sembrare i villain di un film della Troma (ascoltatevi What Went Wrong ad esempio).
Poi, d’un tratto, com’erano iniziati, i Moldy Peaches si lasciano, dopo aver rilasciato un solo disco (e milioni di stralci su nastri di infimo ordine) e una raccolta, entrambi sulla benemerita Rough Trade. Diventano parte dell’immaginario di New York, ma il lascito è in quel momento propedeutico alle esperienze soliste dei due e non risulta essere traumatico per la fanbase. In quegli anni, comunque, la Grande Mela sembra avere altro a cui pensare e inizia a splendere di germogli che spaziano dal pop pianistico alla crudezza psichedelica passando per il rock’n’roll da copertina: Regina Spektor, Oneida, Liars, Strokes e, a latere, la scena anti-folk gravitante intorno al Sidewalk Café con Lach, Jeffrey Lewis, Ray Brown, Nicole Atkins. Grande fermento insomma, che vede i Nostri costretti a spiccare il volo in altro modo.
Ripartendo da solisti, Kimya incide album autoprodotti in cui coglie splendide gemme in un mare di adorabile approssimazione (I’m Sorry that Sometimes I’m Mean, My Cute Fiend Sweet Princess, Knock-Knock Who?), poi arriva alla corte di Calvin Johnson e della K Records con Hidden Vagenda e Remember That I Love You, fino ad incidere Alphabutt, uno dei pochi album di musica per bambini che nella mia collezione riuscirei ad avvicinare al disco dei Barbapapà e a Johnny Bassotto. Gli ingredienti? Giocosità, faccia tosta, divertimento, il saper recuperare il proprio “io” di bambina divertendosi un mondo e godendosi la maternità di Panda Delilah Spencer. A seguire ecco Hokey Fright con Aesop Rock per la Rhymesayers: mondi che si incontrano (tutto ha inizio con Aesop che le scrive una lettera da fan), per un esperimento di slackened hip hop che purtroppo non ha conosciuto repliche, pur se acutizzando il legame tra chitarra acustica e rap che si era intravisto anche nei Moldy Peaches. Il livello è parecchio alto, sagace, groovy e accogliente: Ian Matthias Bavitz sciorina rime come se non ci fosse un domani nello stile più gonfio che gli riesca mentre Kimya polleggia giocosa, creando un incontro fra lessici e ritmi in cui ci si cala in un mondo a cartoni animati a tarda ora.
Mattone dopo mattone, Adam si trasforma in un folk singer di grande respiro, un cantautore che gioca con il pop classico colorandolo e portandolo con sé dagli anni ‘70 al musical, al rock’n’roll più scollacciato: undici i dischi da solista in vent’anni per un personaggio sfaccettato e mai deludente dal fascino blasé e la capacità di attirarci all’interno delle sue storie.
Se nei i primi tre lavori – Garfield, Friends of Mine e Gemstones – il collegamento con la band madre è ancora molto chiaro e i ritmi sono scanzonati e confidenziali, con Jacket Full of Danger inizia a fare suo il gioco: calca sull’interpretazione, quasi a incarnare il ruolo di un crooner azzimato ed esperto, risultando credibile anche grazie alla cura degli arrangiamenti e alla bravura dei musicisti che lo accompagnano. Poi l’incontro con Binki Shapiro per un album di coppia, classico come quelli del passato. Un divertimento e una strenna per chi ama la classicità più elegante e la messa in pratica dei canoni del pop orchestrale più adorabile.
A questo punto, che fare, quindi, se non la propria versione cinematografica di Aladdin? Non vorrei spoilerare troppo su quello che ritengo essere un calembour drogato e amabile, ma di sicuro è un ulteriore segnale della lateralità del personaggio e del suo pensare fuori dagli schemi (basta dare un’occhiata alla scelta degli attori: Devendra Banhart, Macaulay Culkin, Natasha Lyonne, Har Mar Superstar, Zoë Kravitz e Francesco Clemente). Fondali di cartapesta, effetti speciali spettacolari, trama e recitazione accorate ed emozionanti in un mondo conteso tra fantasia, virtualità e dinamiche di classe.
Ma, allora, perché stiamo parlando dei Moldy Peaches nel 2023, visto che quanto abbiamo citato è materiale ed esperienza con più di qualche anno sulle spalle?
In primis, per una reunion avvenuta in occasione dell’uscita di Meet Me in the Bathroom, documentario sulla scena newyorkese dei primi 2000 che, oltre a loro, include LCD Soundsystem, Strokes, Interpol, Yeah Yeah Yeahs, Rapture e TV on the Radio.
Poi, per tre date europee alla Roundhouse di Londra il 29 maggio e al Primavera Festival di Barcellona e Madrid, il 2 e il 9 giugno. Per l’occasione i Moldy Peaches torneranno sul palco con una band di sei elementi, che dovrebbero essere, oltre a Kimya e Adam, Steven Mertens, Toby Goodshank, Strictly Beats e Jack Dishel. Non vogliamo essere troppo ottimisti, ma possiamo prevedere che saranno momenti festosi a dir poco: potenzialmente un macello. Anche se la vera domanda avrà risposta solo allora: riusciranno i nostri eroi, dopo tanti anni, a ricostruire la chimica necessaria a mantenere in vita canzoni collegate da fili tanto esili?
Di norma sono un fermo detrattore delle reunion, che per mia esperienza si risolvono in jukebox o vere e proprie baracconate. Però, ecco, non so come spiegarvelo: i Moldy Peaches sono stati talmente fulminanti e storti che difficilmente, anche stavolta, riusciranno a essere qualcosa di diverso dalla loro essenza. Invito chi riuscisse a non perderseli dal vivo, mentre gli altri recuperino i dischi e li ascoltino nel peggiore degli stereo, magari su un lettore CD saltellante. Seguendo l’antico adagio “less is more” vi accorgerete di quanto candore, amore e bellezza vi possano rovesciare addosso Kimya Dawson e Adam Green. Se poi tutto dovesse rivelarsi una strampalata fregatura, non fatevi problemi. Alzate i tacchi, tornate in camera Downloading Porn with Davo, scoprite Who’s Got the Crack, lasciatevi andare a Lazy Confessions elaborando What Went Wrong e poi via, sul Greyhound Bus, che tanto si sa: NYC’s Like a Graveyard.