Torniamo all’album più controverso della storia di Dave Mustaine: il definitivo salto verso le vette delle classifiche della sua band, punito dall’indifferenza del pubblico di Woodstock ‘99 e accusato dai puristi di tradimento definitivo. Ma era davvero così brutto, Risk?
Incalzato da Luca Signorelli su un Metal Hammer del 1999, Dave Mustaine assicurava che il titolo Risk non voleva riferirsi al contenuto del disco, ma nasceva da una frase di Lars Ulrich, il quale aveva bonariamente rimproverato l’ex comprimario negli early Metallica affinché non corresse troppi rischi, almeno creativamente, con la sua musica. Da qui il piglio un tantino più spericolato del leader dei Megadeth nella realizzazione di quello che sarebbe divenuto il lavoro più discusso (deludente e meno venduto) della sua storia di compositore rock e metal.
Ovviamente Dave, con un’attitudine manageriale piuttosto insolita, su quello stesso numero di Metal Hammer sosteneva di non considerare l’album un rischio dal punto di vista dei consensi: secondo lui la band godeva di un seguito molto fedele, in grado di capire e incorporare i cambiamenti e le deviazioni stilistiche segnate dai tempi di Killing Is My Business (1985) fino a Crypting Writing (1997).
Eppure, oggi lo sappiamo con certezza, per quel pubblico Risk sarebbe stato troppo. Lo stesso Mustaine ha ammesso dopo vent’anni di aver commesso un errore piazzando il nome “Megadeth” su un disco come questo. Se ci fosse stato un altro moniker – magari MD.45, il progetto di Dave nato e morto nel 1996 – di certo avrebbe venduto molto di più. Parole sue, eh, e un’argomentazione difficile da dimostrare: però è interessante sentirgli dire una cosa del genere. I Paradise Lost, per esempio, – gruppo che negli anni ‘90 di, ehm, risks se ne è presi molti più di lui in almeno quattro lavori controversi al clou del successo – oggi preferisce infatti non apporre il celebre brand su un album che torna alle sonorità di One Second e Host e che, invece, viene spacciato come opera di qualcuno che è stato ridefinito come una costola a parte, denominata per l’appunto Host.
Non si sa che tipo di riscontro economico possa aver avuto una mossa del genere, tenendo presente che ormai i dischi non si vendono più e l’apprezzamento si misura in like e download (soprattutto illegali), ma è il segno dei tempi. Le band stanno suddividendo la propria creatività in comparti stagni, senza più correre alcun risk. Persino Mustaine ha compreso e accettato – dalla rinascita inaspettata dei Megadeth con lo stesso disco che avrebbe dovuto rappresentarne il dimesso congedo (The System Has Failed, 2004) – che è meglio mantenere la rotta consolidata evitando deviazioni avventurose. Ci ha provato un momento con Super Collider (2013), però ha scoperto che non era davvero il caso di mollare il thrash e l’old school per non si sa cosa.
Un peccato, perché paradossalmente il Mustaine di Risk è stato l’ultimo a tentare sul serio di spingere in avanti – onestamente – il proprio discorso creativo, magari nutrendosi anche di stimoli moralmente (e metallaramente) poco accettabili come la grana e l’ampliamento dell’audience a categorie improbabili: per esempio, nelle sue speranze, Breadline, un brano sui senzatetto, avrebbe voluto parlare al cuore delle ragazze adolescenti, non si sa bene perché.
Comunque, poco importano le finalità: grazie anche all’aiuto di un super produttore estraneo al metal – quel Dan Lee Huff, specializzato in AOR e mainestream spudoratissimo –, Dave stava realizzando un disco che nutriva la propria stessa curiosità di uomo e di artista e – senza volerlo, probabilmente – anche quella del pubblico.
Il fatto è che è importante chiedersi come possa reagire la gente quando si scrive una canzone, e ancora più lo è non conoscere in anticipo la risposta. È un buon indizio che fa sperare di trovare sorprese inaspettate. Al contrario, un artista dovrebbe fermarsi a riflettere se crede già di sapere cosa accadrà tra la propria canzone e il pubblico. Per due ragioni: 1) molto probabilmente, non si verificherà ciò che lui si aspetta, 2) un brano telefonato che vada anche bene in classifica sarebbe la definitiva perdita della sua anima. Magari esagero, ma la vedo così.
Ecco: Risk era ancora ricco di quella genuina curiosità che deve aver fatto grosso il respiro di MegaDave il giorno dell’uscita nei negozi e che poi avrà offerto una cura ricostituente ai suoi vecchi demoni, in ripresa dopo i felici e rinfrancanti ultimi dieci anni di successi in termini creativi, economici e di disintossicazioni.
Analizzato con il senno di poi, Risk è un album che – anche a distanza di anni – risulta buono e persino genuino. Sicuramente lo è rispetto a episodi pre-pensionistici come Dystopia e The Sick, the Dying… and the Dead! Ed è evidente che il pubblico della band – all’epoca i fan nati dai precedenti scatti evolutivi e giunti al 1999 – non avrebbe potuto capirlo e apprezzarlo.
Eppure è un lavoro in cui non mancano, senza dubbio, delle grandi canzoni. Basti pensare a Prince of Darkness e la conclusione in due parti intitolata Time (Time: The Beginning – Time: The End), ma non poteva bastare.
C’erano anche brani eccellenti che non c’entravano nulla con il marchio di fabbrica del gruppo (la succitata Breadline) e altri non brutti ma che i fan non avrebbero mai voluto sentire dalla band di Peace Sells… But Who’s Buying? e Countdown to Extinction: in particolare Wanderlust, una mistura tra il Bon Jovi cowboy e i Fleetwood Mac del periodo Rumors, e una Insomnia che, da pasticcio riskiosamente posto in apertura, fonde i Nine Inch Nails di Broken e Connection degli Elastica accelerata.
Bisogna comunque riconoscere che, rispetto a tutto quello che Dave ha realizzato dal 2007 in poi – compresi i cosiddetti capitoli della rinascita thrash United Abominations ed Endgame –, è un lavoro con molte sfaccettature e con il pregio di non svelarsi subito per intero. Occorrono numerosi ascolti, cosa ormai desueta per un disco metal “nuovo”, prima di capire fino in fondo cosa si stia davvero sentendo. Risk cresce dentro e non proprio nell’intestino, come qualche “purista” potrebbe affrettarsi a far notare. Dubito, tuttavia, che i puristi siano giunti fino qui con la lettura: per loro Risk è un disco sbagliato e non amano ricordare che fa parte della discografia dei Megadeth.
Di sicuro l’album pecca in qualcosa. Per esempio Crush ‘em, marchettone ignobile per il mondo del wrestling (di cui Mustaine è sempre stato un grande ammiratore), ma che, contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, più che a uno sport violento, con quel suo incedere da dancefloor potrebbe far pensare alla ginnastica artistica. Con tutto il rispetto per lo sport, non certo per la canzone, s’intende.
Va infine sottolineato che realizzare un album così nel 1999 era un rischio in ogni caso molto ben calcolato: teniamo infatti presente che, negli Stati Uniti, il rock duro aveva sì ripreso da un po’ le prime posizioni in classifica con il polpettame nu metal dei Limp Bizkit e la sua versione più adulta proposta dai Deftones, ma i nomi che stavano determinando le nuove tendenze erano Creed, NIN, Bush e Offspring. Di conseguenza, il vero errore dei Megadeth al massimo è stato cercare di costruire un ponte verso un mondo musicale che nemmeno i Metallica avevano osato tentare di lottizzare con le proprie forze, limitandosi a farlo usando pezzi altrui (vedi Turn the Page di Bob Seger e Whiskey in the Jar dei Thin Lizzy che, rimasticati con i suoni plastic-boom di Bob Rock nel disco tributo ai padri Garage Inc., sono stati l’approdo definitivo della band al mainstream più caramelloso).
Ma questo è un altro discorso. Tornando a noi, semplicemente Risk non ha funzionato e probabilmente c’erano delle valide ragioni. Ma oggi, che avete di nuovo i vostri vecchi Megadeth thrash alle soglie della pensione e a disposizione un oceano di metal classico sfornato in vinili digitali ogni anno, potete anche vincere la stizza di vent’anni fa e farvi un giro su questo album di fine millennio, apprezzandone magari i momenti positivi. Ce ne sono eccome, fidatevi.
↦ Leggi anche:
Megadeth: We'll Be Back
Midnight: Szex Witchery