Prima di Last Fair Deal Gone Down, i Katatonia erano giustamente sottovalutati. Dopo un capolavoro del genere lo sono rimasti, e lo sono ancora. Ma ingiustamente.
Si è detto giusto su Angry Metal Guy: Last Fair Deal Gone Down non è il miglior disco in assoluto dei Katatonia, ma il primo in cui la band mostra tutta la propria grandezza compositiva, invece di continuare a darne accenni qui e là in lavori in cui produttivamente non aveva ancora messo a fuoco il proprio suono. Nel 2001 ne parlava già con grande entusiasmo Mikael Åkerfeldt, in occasione della promozione di Blackwater Park: i Katatonia stavano mettendo a punto il proprio album decisivo e Mikael aveva ragione. Ascoltare oggi Last Fair Deal Gone Down conferma la medesima freschezza creativa, e soprattutto mantiene il nerbo di un secondo incipit discografico dal quale la band ha seguitato a realizzare lavori avvincenti e suggestivi senza calare di livello.
Last Fair Deal Gone Down può essere un buon modo di scoprire una delle band metal più sottovalutate al mondo. Soprattutto, può aiutare a recuperare un frammento pulviscolare delle tenebre che sono calate sul nuovo millennio. Il bagno sudicio in copertina può non suggerire granché, a parte un senso di vacua lordura, ma è illuminato da una luce naturale: abbiamo aperto una porta su un angolo di passato, sepolto in una casa dimenticata e lì, come in un confetto temporale rotto da denti impazienti, un amaro liquido salivare si ingorga nella gola, facendoci lacrimare gli occhi mentre il cesso della nostra intimità si contagia di muta incredulità. Lo specchio in alto è spaccato da un pugno e una schiera di spettri con la nostra faccia ci salutano, mesti e un po’ vergognosi, da quella superficie frammentata.
In questo disco i Katatonia smettono di preoccuparsi della direzione da prendere e non si identificano in un genere preciso. A differenza di ciò che succede oggi – con i gruppi nuovi che uniscono in modo pragmatico e ragionato sottogeneri mai incontratisi creando mostri di Frankenstein stilistici che non riescono neanche ad alzarsi dal lettino e correre in giro per la campagna ruggendo alle ragazzine –, i Katatonia fondono post-punk, metal, alternative e progressive senza pensarci. Perché per loro non c’è una smaliziata speranza di occupare un piccolo spazio sullo scaffale libero nel supermercato delle etichette rock/metal. I Katatonia non conoscono altro modo per descriverci la terra desolata che si sta spandendo dentro di loro. Non vogliono essere originali, ma esprimere qualcosa di genuino e soprattutto coerente.
Nel 2001 gli artisti più importanti consegnavano con un certo imbarazzo al mondo il proprio inutile lavoro, composto e ultimato durante un tempo finito, sorpassato da sconvolgimenti politici e sociali in corso. Quelle note erano parte di un reale che non c’era più, fatto di beghe contrattuali, divorzi o routine lussuose a bordo piscina. Le note di canti innocui uscivano dalle radio e ammettevano una sterile incapacità di dire qualcosa a ridosso delle torri sbriciolate in terra.
La gente ascoltava canzoni già vecchie prima che finissero e distanti dalla repentina trasformazione di quei giorni. Dal polverone affioravano cataste di morti, buffi uomini con il turbante proclamavano guerre, sangue e distruzione dalle nostre TV. Ci sentivamo soli senza l’arte a tenerci compagnia, ispirarci e offrire un appiglio di sana fantasia sopra tutto quel disastro.
Last Fair Deal Gone Down è stato tra le poche cose capaci di tener testa a quel gran casino. Dentro c’era un lento e flebile risveglio: strade spente, vuote, neve grigia che aumentava il peso sul cuore del mondo occidentale.
In quest'ora morta
Qui con te
I secondi non contano
In quest'ora morta
Quando tutto è vuoto
I minuti non valgono
Quanto tempo ci vorrà prima che ci sia
Abbastanza spazio per la speranza?
Così canta Jonas Renkse senza ruggire, ululare o gutturare. Lo fa con una voce lieve, però ferma. Quella che sembra la poesia di un liceale depresso è il modo più concreto di esprimere un mondo in polvere. Eravamo tutti in attesa di ricominciare a sperare, ma ogni giorno le cose precipitavano. Il frignante uomo più potente della terra declamava frasi bibliche e prometteva vendetta alla sua gente. Parlava anche a noi europei, come fossimo parte di quel popolo ferito, opulento, viziato e ingenuo.
Le mie prospettive sono diventate meno promettenti
Trovo difficile credere in qualsiasi cosa
Sembra che abbia perso il mio mondo e così ho perso la mia fede
E non posso tornare dove sono stato
Il segreto di una simile profezia è la ciclicità interiore che ci fa morire e rinascere di continuo. Ciò che la storia mostra in modo plateale, nei secoli, dentro tutti noi avviene continuamente. Ora, in questo momento, il vicino che vi fissa sperso mentre la metropolitana fugge come un topo lungo il budello dell’inferno sotterraneo sta in realtà contando i morti desideri tra le macerie delle proprie certezze. Di questo cantano e suonano i Katatonia in The Future of Speech, così come nella maestosità cinica di Passing Bird, che traccia il confine tra chi è incastrato nella depressione più nera e chi trae un piacere egotico nei proprio dolori interiori.
Non è tutta pena quella che piange, non è tutta luce quella che scaccia l’oscurità. La differenza è sempre ciò che la luce mostra.
Un cesso abbandonato e impolverato non ci salverà dall’oscurità che abbiamo dentro. Se la luce illumina in quel cesso il volto di un bambino tenuto legato tra calcinacci e lacrime, allora quella luce potrebbe schiuderci i portoni di tutti i campi di sterminio e, dando luce a ciò che resta in piedi di quell’orrore, restituirlo alla vita. Cosa c’è dentro di noi? Un cesso abbandonato e vuoto e basta, o per l’appunto anche un bimbo in catene che muore ogni secondo e attende che qualcuno lo salvi, dato che è stato ormai mollato per sempre dai propri carcerieri insensibili e vigliacchi?
Chi si prenderà cura del bambino? La bianca infermiera che non ha tempo per parlare e giusto un minuto per offrirgli il dolce veleno dell’inconsapevolezza? Così pretende il mondo di salvarci? Sweet Nurse demolisce in un quadretto ironico e un po’ buffo l’intero sistema di riprogrammazione che il sistema offre a tutte le menti difettose. La depressione non è un sintomo di un mondo che chiede un prezzo troppo alto per poterci sopravvivere, ma il solo problema da risolvere prima di continuare a essere macellati tra gli ingranaggi della ruota. Ruota che gira solo per chi è condannato a farla girare, come il giovane Conan di Milius.
Sono molte le band europee che, proprio a cavallo del vecchio e nuovo secolo, hanno seguito un impulso suicidario e rinunciato alla veemenza delle chitarre distorte, alle urla e alla violenza dei ritmi da caccia tribale, per avviare un discorso più profondo e intimistico. Parte del pubblico di riferimento non capirà e rifiuterà quella specie di resa ruffiana al mainstream. Oggi quel momento di quiete oscura e dimessa rivela una sensibilità veggente che aveva condotto quei gruppi a stendere una coperta funebre morbida e calda sul pavimento sul quale tutti ci stavamo schiantando. Last Fair Deal Gone Down non ha un titolo iconico e facile da ricordare. Forse anche per questo non ha fatto presa nel circuito metallaro in cui è stato lasciato ruzzolare da una Peaceville che oggi lo considera il miglior album del proprio catalogo.
Le canzoni non lasciano mai che la battaglia tra luce e buio si concluda. We Must Bury You comincia come una hit pop malinconica alla Foo Fighters, poi cala in un pozzo di cerchi concentrici di rimpianto e penose promesse cimiteriali. Teargas anticipa di un biennio la bruma esistenziale degli A Perfect Circle di Thirteenth Step. I Traspire sposa le litanie di Lennon/McCartney in una coltre di chitarre avantgarde e post-black. E per quanto riguarda Clean Today, i Katatonia non possono subire accuse di inseguire qualche tendenza da modernariato rock, e anche se in fondo lo fanno chi se ne frega: è come criticare il ramo un po’ troppo levigato che ci viene teso in soccorso. Ci aggrappiamo e veniamo fuori dalla melma famelica grazie a versi come «E quando mi fermo a respirare / Vedo milioni come me».
Ma Last Fair Deal Gone Down evita le facili consolazioni. Dentro ha sia gli appigli giusti se si vuol continuare a salire e ad arrampicarsi lungo la propria esistenza scoscesa, sia le scorciatoie per resettare tutto e lanciarsi nel vuoto, affidando la propria anima all’abisso di qualche altra dimensione. Don’t Tell a Soul conclude il disco con la possibilità che dietro il muro della morte possa finalmente esserci qualcosa di bello per noi e una solitudine amica, senza persone che feriscono o deludono. E magari durerebbe per sempre.
Katatonia Last Fair Deal Gone Down 11 settembre Mikael Akerfeldt Jonas Renske
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