Episodio in tutti i sensi centrale di un’aurea trilogia, Solid Air è considerato all’unanimità il capolavoro di John Martyn. A mezzo secolo dalla pubblicazione rendiamo omaggio a un artista così immenso da mettere in secondo piano l’uomo problematico e scostante.
La musica è un equilibrio tra testa e cuore, ed è così che cerco di vivere.
Con un metodo le cui finalità sfuggono e che alterna gli schiaffi alle carezze, la vita prende e la vita dà. Però, a ben guardare e soprattutto sentire, dona qualcosa anche quando sta togliendo e siamo noi a non accorgercene. Per ora la chiameremo compensazione e, mentre ci riflettiamo su, lo sguardo punta la libreria e un parterre di re contraddistinto dall’intima spaccatura tra vizi e virtù.
Nel bene e nel male, quella stessa crepa separa l’artista dall’uomo. A tal proposito, vi riveliamo un segreto: per quanto ci riguarda, è il primo tra i due che entra nella storia e nel cuore, confinando in un angolo faccende non giustificabili né scusabili. Così, quando indaghiamo certe esistenze allo scopo di raccontarle e scopriamo risvolti spiacevoli, li trattiamo con i guanti. Non ci interessano i sensazionalismi o le agiografie: preferiamo comprendere cosa spinge un individuo a compiere determinate scelte, a mettere l’anima in ciò che fa e a lasciarla zampillare come fosse materia viva dai solchi di un vinile.
Venendo al punto, John Martyn è stato un talento immenso cui la vita ha elargito una voce che culla e scuote e la capacità non comune di realizzare musiche che saldano emotività e sperimentazione. Sull’altro piatto della bilancia ha gettato l’alcolismo, le donne maltrattate, un tunnel con pochissima luce in fondo. Se volete, è il dichiarato equilibrio – così intermittente da essere spesso precario – fra la testa e il cuore che John ha mantenuto fino all’ultimo con coerenza tutta sua.
Difficile perciò stabilire con certezza le cause e gli effetti e se le decisioni siano state subite o costituiscano il tentativo di colmare un vuoto. Chi ha salutato il mondo come Ian David McGeachy conosceva il valore degli affetti, ma qualcosa gli ha strappato la capacità di vedere: forse è colpa dell’infanzia spesa da figlio unico di divorziati, del continuo mettersi alla prova, di un successo che giungerà in piccola parte nel brutto mezzo del crollo. Chissà.
Sta di fatto che, prima o poi, uno come lui sarebbe caduto. Perché la sorte gli ha chiesto un blues bianco intriso di grazia e pericolo e lui, da romantico senza rimedio né speranza, l’ha accontentata. Perché il suo mestiere è stato vivere e, come ha scritto un grandissimo conoscitore della natura umana, lavorare stanca. Perché, nonostante tutto, è un lavoro che qualcuno deve fare.
Modelli e mentori servono eccome, a maggior ragione se sono prestigiosi e li tratti come dei punti di partenza. Ci arriviamo a breve, ma prima facciamo un passo indietro all’11 settembre 1948, il giorno in cui Ian nasce da madre inglese e papà scozzese, che si separano quando lui è piccolo, così che spetta al babbo e alla nonna paterna occuparsene.
L’adolescente scapigliato nutre l’ossessione per la chitarra, adora Robert Johnson e Skip James e aspira a diventare un nuovo Davy Graham. Dalle parole ai fatti, molla la scuola e bazzica la scena di Glasgow sotto l’ala protettrice di Hamish Imlach. Quando gli fanno notare che il suo nome non è granché, (ri)nasce John Martyn, condivide un capanno in Cumbria con Clive Palmer e si assicura una reputazione nel circuito folk locale. Ora di ampliare gli orizzonti a Londra ed essere adocchiato da Chris Blackwell, che accoglie alla Island il primo solista non giamaicano.
Sono più di un semplice apprendistato, gli esordi del giovanotto che in London Conversation sfoggia un’educazione sentimentale di echi blues, inchini al folk e a Bob Dylan, sorprendendo con una profonda timbrica vocale, la tecnica esecutiva alla sei corde e la determinazione con la quale scansa rigidi schemi stilistici. Un anno dopo, The Tumbler si giova della produzione di Al Stewart e del flauto di Harold McNair per proporre variazioni sul tema qui spigliate e là meditative.
Passi sicuri a prescindere dalla verde età di un cantautore che, incline ad assecondare le passioni, nel 1969 sposa Beverley Kutner e instaura un sodalizio creativo che per un po’ si sposta in America. Registrati rispettivamente a Woodstock e a Londra, sia Stormbringer! che The Road to Ruin meritano interesse per un folk rock di grana fine, arrangiato con cura e disposto alla contaminazione. Mentre pensa a un nuovo album con un taglio meno ricercato, la coppia diventa famiglia, si stabilisce nella tranquilla Hastings e Martyn riprende il sentiero verso la maturità.
Periodo di armonia artistica assoluta, i suoi Settanta. L’apice è raggiunto nel 1973 con il secondo e il terzo pannello di un trittico che suggerisce paragoni con Tim Buckley (un approccio visionario, una voce eletta a strumento) e con Nick Drake (l’introversione delicata, il blues come condizione interiore) trattenendo i crismi dell’originalità. Un unicum anche sotto il profilo grafico, dove l’artefice è ritratto in mezzo alla natura e con un temporale dentro di sé, dove una mano mostra la solidità dell’aria e il buio la pone in risalto.
Una di fila all’altra, quelle copertine simboleggiano l’intrecciarsi tra spiritualità e concretezza di chi sta comunicando da un universo parallelo. Di chi asseconda un approccio in base al quale “aiutiamo” le cose ad accadere che mescola zen ed empirismo anglosassone. Di chi, infine, impiega argutamente la tecnologia: nello specifico l’Echoplex, effetto che – con un’intuizione geniale ispirata al sassofonista Pharoah Sanders – stratifica la chitarra acustica inanellando cerchi concentrici e ondate sonore.
In un mosaico di trasfigurazioni che dalla tradizione giunge altrove, ogni elemento si incastra con il vissuto e l’indole del Nostro. Incluso il fatto che, accettato controvoglia l’ordine dell’etichetta a proseguire da solo, lasci Beverley a curarsi dei figli e componga gran parte di Bless the Weather in studio, incidendolo con membri di Colosseum e Mighty Baby più Danny Thompson, contrabbassista dei Pentangle da qui in poi fedele braccio destro.
Per chi ricordava un seguace di Bert Jansch e John Renbourn, l’istintiva raffinatezza e le sonorità dense però traslucide rappresentano uno shock. La mascella cade davanti alla sensazionale folkedelia in jazz di Glistening Glyndebourne, alla cantabilità elaborata ma rotonda di Walk on the Water e Head and Heart, all’aura sudamericana di Go Easy. E non sono da meno la quieta allucinazione omonima, una stridente Let the Good Things Come, le malinconiche Just Now e Back Down the River e la rilettura di Singin’ in the Rain posta a commiato. Capolavoro di transizione? E sia.
Legando a doppio filo la sfera emotiva e il coraggio di oltrepassare i confini, John si supera nel febbraio ‘73 con l’impressionismo di Solid Air. Nella straordinaria articolazione d’insieme, il brano che battezza l’LP disegna una dedica a Drake che è parlare a se stessi in termini di presagio scagliando nel cosmo i panorami di Bryter Layter, laddove May You Never – già su singolo in versione nettamente inferiore – viene ridisegnata durante una solitaria seduta notturna.
Al baccanale che sfuma in lisergica distensione di I’d Rather Be the Devil (ovvero Devil Got My Woman di Skip James) rispondono la bucolica Over the Hill e un’estatica Don’t Want to Know, alla tenue Go Down Easy replica la frenesia funk Dreams by the Sea, all’umorale The Man in the Station un The Easy Blues che nel finale stempera toni altrimenti rauchi.
Si sorride, apprendendo che nel 1999 la rivista britannica Q ha incluso Solid Air nei migliori album chillout di sempre: in particolare, stupisce che sia sfuggito un respiro che, in cerca di requie, si/ci rammenta come ogni cosa abbia un rovescio che le permette di esistere. A ogni modo, la pietra miliare è confermata nel volgere di pochi mesi da Inside Out con un canto libero che sfocia in flusso di coscienza, con la etnodelia da manuale di Eibhli Ghail Chiuin Ni Chearbhail, Ain’t No Saint e Look In, con l’astratta title track e la compiutezza di Fine Lines, Make No Mistake e So Much in Love with You.
Tutto splendido, se non ci fossero un carattere imprevedibile e troppe bottiglie svuotate. Aggiungete la tragica dipartita dell’amico Nick Drake e capirete perché un cocciuto scozzese sconcerti le platee folk insistendo sul lato sperimentale e proponga ballate al pubblico di estrazione rock. Eppure, quando vuole, il bastian contrario risolve le innate polarità con esiti ragguardevoli come Sunday’s Child, 33 giri relativamente più sereno anche se attacca la spina alla chitarra.
Smagliante la forma durante la successiva tournée in compagnia di Thompson e di un percussionista di area improv, si immortala un concerto da favola per farne un disco. Incassato lo scetticismo della Island, Martyn si arrangia da punk ante litteram che stampa diecimila copie di Live at Leeds smerciandole in un lampo. Ma di tutto ciò, a un destino segnato, importa poco o nulla.
A metà decennio John è esausto. I tour, la vita sregolata, il fardello che porta in spalla spingono al suolo un Icaro che nel corso della picchiata riesce comunque a centrare qualche bersaglio. Intanto nel 1976 si concede una vacanza in Giamaica, conosce Lee “Scratch” Perry e il viaggio influenza One World, inciso presso un lago del Berkshire aggiungendo coloriture particolari alla favolosa Small Hours (una dilatata rifrazione chitarristica ambientale che – annota Rob Young – Felt e Durutti Column devono aver memorizzato) e a una manciata di reggae mutanti zuppi di soul.
Bisogna attendere il 1980 per il seguito. Dallo sfascio della relazione con Beverley, Grace and Danger cola un folk rock urbano venato di blackness che, sotto l’apparenza morbida e rilassata, svela un’autobiografia così esplicita da spingere Blackwell a ritardarne la pubblicazione. Poco prima, John ha fatto comunella con Phil Collins, anch’egli impantanato in un matrimonio a rotoli e in illusori conforti alcolici che non gli impediscono di sedersi alla batteria e agevolare il trasloco di Martyn alla WEA.
Beffardamente, a un fulmineo assaggio di popolarità corrispondono il nadir creativo, un rimbalzare tra marchi discografici che non risolve nulla e, più di ogni altra cosa, il calvario passato lottando contro l’alcolismo e una salute che peggiora progressivamente. L’ultimo sussulto risale al 1998, quando il nostro uomo pesca dal repertorio altrui i blues modernisti di The Church with One Bell recapitando un bel preludio al nuovo millennio, trascorso dignitosamente tra concerti, dischi, celebrazioni e scavi d’archivio.
Nemmeno una gamba amputata ferma chi infine paga il conto nel gennaio 2009. Due anni dopo, il postumo Heaven and Earth riassume nel titolo l’ingarbugliato bandolo di contraddizioni che ha rappresentato la debolezza e la forza di un artista responsabile di pagine magnifiche. Ecco: anche se non era un santo, John Martyn andrebbe celebrato ogni giorno per quanto di sublime la sua testa e il suo cuore ci hanno regalato. Amabili resti, non per modo di dire.
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