Alla luce dell’attuale stato dell’ispirazione e appena passati due decenni dal loro momento magico, pensando al quartetto newyorchese la domanda sorge spontanea: fu vera gloria? La nostra risposta è “sì”. Qui di seguito vi diciamo perché.
Nell’arte poche cose restano ancora certe come l’esistenza di un retaggio e/o di un canone. Intendiamo il patrimonio di memorie storicizzate che, una mutazione dietro l’altra, si è stratificato nei decenni fino a costituire un punto di riferimento e di partenza per ogni genio che desideri mettere (dis)ordine nel processo creativo.
Così è sin dai primi vagiti del rock’n’roll. Basti pensare agli scambi avvenuti attraverso l’Atlantico: pescando dalla Sun e dalla Motown, dal country e da Bob Dylan, i Beatles rivendono l’eccitante mistura beat agli americani, e costoro, punti nell’orgoglio, rispondono per le rime elettrificando il folk. Un altro esempio più vicino all’oggetto di quanto vi apprestate a leggere: il post-punk a tinte neopsichedeliche di Liverpool guardava a Doors e Television con un animo umbratile assolutamente british da potersi dire unico e fare a sua volta scuola.
Avanti veloce nel nuovo secolo, quando Internet “appiattisce” lo scorrere ciclico del tempo in una tavola orizzontale dalla quale si estrae di tutto e di più a prescindere dal contesto originale. Grossomodo due le strade apertesi da allora: la tendenza all’esercizio stilistico gradevole ma in sostanza trascurabile, oppure un atteggiamento che considera il passato come carburante e non come la zavorra che incolla al terreno. Venendo al punto, per una stagione breve e fruttuosa gli Interpol hanno percorso il primo sentiero cavalcando l’ennesimo revival new wave.
Giunti decenni dopo i fenomeni, i newyorchesi possedevano il distacco cronologico e critico utile a intersecare differenti linguaggi in una combinazione personale, e l’operazione ha retto fintantoché la scrittura si è mantenuta su alti livelli e le emozioni hanno permesso di evitare gli stilemi, la noia e i clichés. Diciamo per i primi due album, splendidi e più che bastanti a includere gli artefici in una trattazione storica del rock che si rispetti.
Per questo ci è sempre parso approssimativo considerarli un karaoke dei Joy Division. La fascinazione di Unknown Pleasures in loro rimane innegabile, tuttavia non è l’unica fonte d’ispirazione per chi ha osservato il post-punk nel complesso, riuscendo a coglierne i riverberi sul pop chitarristico indipendente degli anni ’80 e sullo shoegaze. Nel momento di massimo fulgore, da un universo composito i Nostri hanno attinto con intelligenza gli elementi che percepivano più vicini alla loro cifra espressiva. Conseguenza ne è che la lezione di Wire, Talking Heads, Psychedelic Furs e Television – una tantum, quelli dell’asciutto Adventure – ha convissuto felicemente con l’eco dei primi R.E.M., dei Chameleons e degli Smiths.
Il cerchio dei rimandi si chiude su una band che ha tra le mani delle polaroid scattate a Londra, New York e Manchester tra il 1978 e il 1980 e decide di reinterpretare i lineamenti e lo spirito di ciò che osserva. Missione compiuta con classe, inventiva e una manciata di canzoni che hanno lasciato il segno sul proprio tempo. Non è colpa degli Interpol se quest’ultimo ricorre troppo spesso a un sentire controverso che chiamiamo retromania.
Avere punti saldi nella vita serve eccome. Quanti artisti favolosi abbiamo scoperto portati in palma di mano e negli studi della BBC di Maida Vale da John Peel? Da lungimirante con gusti sopraffini, John sottolineava il valore dei ragazzi nel corso della loro prima visita in terra albionica, invitandoli a una delle sue celeberrime sessioni senza che avessero pubblicato un 33 giri. Il poker di brani che convincerà Chris Lombardi, capo della Matador che in precedenza aveva rifiutato il quartetto, sta nel CD allegato alla ristampa “deluxe” di Turn on the Bright Lights edita in occasione del decennale e mostra uno stile già ben delineato.
Poco da stupirsi, ché la formazione allestita nella Big Apple dal chitarrista Daniel Kessler (personaggio sveglio che ha precedentemente lavorato per la Domino e con un fratello maggiore collaboratore del New Musical Express) assieme al batterista Greg Drudy era in circolazione da un triennio abbondante. Studenti universitari, i ragazzi hanno approfittato dei corsi per reclutare Carlos Dengler al basso e sistemare al microfono una vecchia conoscenza di Daniel, Paul Banks.
La gavetta è quella classica del sottobosco indipendente negli anni che precedono di poco la supremazia del web: look azzeccato, esibizioni nei luoghi che fungono da incubatrice alla scena cittadina di un “rock wave” nuovo ma vecchio e presto destinato a un ampio clamore.
Le prime composizioni che affiorano su alcuni EP di apprezzabile caratura e sostituito nel 2000 Drudy con l’esperto Sam Fogarino, il nome inizia a essere chiacchierato e la visita chez Peel contribuisce a soffiare sulle braci. Dopo un’altra uscita sul piccolo formato, nel 2002 il gruppo firma con la Matador e per una quindicina di giorni si chiude in sala d’incisione con la regia di Gareth Jones e Peter Katis. Ad agosto Turn on the Bright Lights è realtà.
Lungo una scaletta perfetta sotto il profilo dell’intensità, della durata e della produzione, undici canzoni vantano l’ineffabile scintilla che, da riferimenti riconoscibili, conduce a uno stile che non soccombe sotto il peso delle ambizioni e non cade nella trappola del comodo passatismo. Pur se ritrosi e in apparenza algidi, i brani “arrivano” al cuore ma non te ne rendi conto che in capo a svariati passaggi, per la semplice ragione che prima si premurano di scatenare nel nerd nascosto in ognuno di noi un gioco del tipo “trova il modello”.
Un gioco che quelle stesse canzoni attraversate da allusioni e non da citazioni smaccate smontano poco alla volta con disinvoltura. In Turn on the Bright Lights, infatti, non manca nulla di ciò che un ascoltatore più o meno smaliziato può attendersi: new wave chitarristica, spleen metropolitano, orientamento arty, romanticismo virile che riflette su ferite e debolezze. E poi: il basso a scandire melodie, sei corde che graffiano e intessono, ritmi squadrati, un cantato incupito come il cielo della Grande Mela dopo l’undici settembre.
Il manuale del post-punk, a farla breve, nel quale però uno scarto o un dettaglio evitano il rischio della copia conforme. Lenta e ipnotica, Untitled dipana un muscolare shoegaze, Obstacle 1 e la (quasi) gemella Obstacle 2 maneggiano i nervi tesi dei Talking Heads e di Tom Verlaine, però pensando agli Echo & the Bunnymen e ai Sonic Youth incamminati verso la maturità, mentre il sentito tributo NYC avvolge i R.E.M. di Monster tra rifrazioni dream pop e PDA immagina un Mark E. Smith in vena di linearità nelle fila degli Psychedelic Furs.
A una Say Hello to the Angels che strapazza e rinvigorisce The Queen Is Dead ribatte la sospesa riflessione Hands Away, l’iridescente inno Stella Was a Diver and She Was Always Down collega i panorami di Crocodiles e Heaven up Here e Roland spedisce Thurston Moore e Lee Ranaldo a rivedere la propria educazione sentimentale. Se The New incastona la malinconia in strutture articolate gettando nel calderone un crescendo alla Pixies e schegge vocali di marca P.I.L., il commiato Leif Erikson innalza ponti tra Unknown Pleasures e Closer con il beneplacito dei giovani U2.
In ogni episodio domina un carattere che si confronta a testa alta con genitori di nobilissimo rango, così che la bellezza di Turn on the Bright Lights e delle sue atmosfere ombrose (ciò nonostante, lontanissime dai luoghi comuni e da un gotico senza causa) spinge la critica ad applaudire e a presagire un futuro “importante”. Previsioni azzeccate in pieno, almeno sul breve periodo.
Il pubblico apprezza eccome, trasformando Turn on the Bright Lights in un proverbiale slow seller che soggiorna svariati mesi nella classifica indie di Billboard e (ancora non) ha finito con il vendere più di un milione di copie. Il problema, a un certo punto, è che l’agenda da autentici stakanovisti comincia a pesare e gli Interpol scivolano lungo una china discendente.
D’accordo, è un film cui abbiamo assistito svariate volte e tutto ciò non pregiudica né ridimensiona quanto di buono è stato proposto, però spiace lo stesso dover riferire di talenti sperperati nel farsi il verso, suscitando sbadigli e palesando una penna priva di inchiostro. Difficile stabilire con certezza i motivi della débâcle: la spinta propulsiva esauritasi alla svelta, i logoranti tour, le dimissioni del fondamentale Dengler che hanno danneggiato un equilibrio per così dire “democratico” possono essere chiamati al banco degli imputati con pari responsabilità.
Fatto sta che la next thing diventa big e nel frattempo scoppia senza evolversi in modo credibile a eccezione dell’eccellente Antics, che nel 2004 mantiene inalterato lo standard compositivo, smussa qualche spigolo e attenua il malessere centrando un successo commerciale a lungo mantenuto. Poco di veramente significativo che valga la pena riferire da lì in poi: l’interminabile sequela di concerti in giro per il globo, progetti paralleli/solistici dallo scarso peso, un breve soggiorno in area major con relativo rientro alla Matador e dischi dove purtroppo le luci diventano sempre più fioche fino a spegnersi.
Si parte nel 2007 con un più che discreto Our Love to Admire, che aggiunge alla tavolozza le tastiere inseguendo nuove ed elaborate coloriture, ma nel volgere di un triennio le crepe si allargano in un album omonimo riuscito solo a metà. Poco meno di dieci anni or sono El Pintor abbozzava il timido tentativo di risalita, affossato in tempi più recenti – nonostante la presenza di pezzi da novanta come Dave Fridmann, Flood e Alan Moulder – da Marauder e The Other Side of Make-Believe.
Segnalandosi come i chiodi definitivi piantati nella bara dell’ispirazione e della freschezza, quei dischi cancellano ogni residua speranza di ripresa e rendono impietoso il confronto con Turn on the Bright Lights e Antics. Nondimeno, possiamo consolarci fingendo che non siamo mai esistiti e che gli Interpol si siano sciolti all’apice, da campioni imbattuti. Come la luce, il tempo è una risorsa preziosa e perciò va speso nel migliore dei modi.
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