Eddy Cilìa distribuisce consigli per gli ascolti ai principianti assoluti: 10 album-simbolo per tracciare a grandi linee quello che forse è stato l’ultimo vero fenomeno di massa in termini di generi musicali.
Fu vera gloria? Per certo fu breve. Chi non acquistava riviste specializzate e dischi ne comprava pochi, e di norma dopo avere ascoltato un brano alla radio o essersi imbattuto in un video sull’onnipotente MTV, scopriva il grunge quando in prossimità del Natale 1991 un album uscito il 24 settembre irrompeva nei Top 20 di Billboard. Già disco d’oro a certificare il mezzo milione di copie volatilizzatesi da negozi non ancora virtuali, da lì a qualche ulteriore settimana il secondo Nirvana scalzava dalla vetta delle classifiche USA Dangerous di Michael Jackson, addirittura. Nevermind vanta oltre dieci milioni di copie vendute nei soli Stati Uniti, più (cifra probabilmente ampiamente sottostimata) venti nel resto del mondo. Significativamente il seguito In Utero, dato alle stampe due quasi esatti anni dopo, venderà quasi esattamente la metà, che è pur sempre un bel vendere, ma un indizio che il grande pubblico stava passando ad altro ancor prima che il 5 aprile 1994 il leader del gruppo Kurt Cobain ponesse volontariamente fine alla sua tormentata esistenza. Colta di sorpresa non meno di lui dal boom di un album che i più sfrenatamente ottimisti alla Geffen avevano azzardato che sarebbe stato di platino e ci avrebbe messo un anno (impresona, considerato che le vendite del debutto Bleach si erano contate in quarantamila esemplari) e tuttavia sveltissima a sfruttarlo, l’industria discografica cavalcherà l’onda fino al suo totale e parimenti subitaneo esaurimento. Cioè per poco. Non oltre il 1996. Ad appena cinque anni dal botto innescato da Smells Like Teen Spirit il grunge era pronto per essere consegnato alle trattazioni degli storici del rock, patrimonio ormai solo di nostalgici che, diversamente dal coevo shoegaze (una faccenda sbocciata però su questo lato dell’Atlantico e a impatto zero sul mainstream), non ha mai avuto un revival o una riverniciata. Sarà forse perché la rabbia giovane cui dava sfogo musicalmente nasceva non diremmo vecchia ma con antecedenti chiaramente individuabili. Sarà che di nichilismo ci si stanca presto da osservatori e ad assumerlo a filosofia di vita si rischia di morirne (Cobain non fu il primo né l’ultimo: l’elenco dei protagonisti di un’epopea a tinte perlopiù fosche scomparsi prematuramente impressiona).
Però non durava così poco. Il giorno zero di ciò che Bruce Pavitt – fondatore con Jonathan Poneman dell’etichetta, la Sub Pop, senza cui la scena che si andava coagulando nell’estremo Nord Ovest americano, in particolare a Seattle, non avrebbe mai trovato sbocco e rappresentazione adeguati – definì “hard rock moderno in tempo medio” può essere fatto risalire al novembre 1985, quando quei Green River, che scindendosi nell’ottobre 1987 daranno vita a Mudhoney e Mother Love Bone (dal cui scioglimento a loro volta nasceranno i Pearl Jam), debuttavano su Homestead con il mini Come On Down. Da lì a quattro mesi la raccolta su C/Z Deep Six ne offriva per prima una panoramica d’assieme affiancando loro fra gli altri i pionieri Melvins (nettamente i più sperimentali del lotto), gli effimeri Malfunkshun dello sfortunato Andrew Wood e future star come i Soundgarden. Laddove l’ultimo classico a vedere la luce prima che quello che era stato il più underground e localizzato dei sottogeneri del rock ad assurgere a un successo diffuso si facesse a seconda dei casi pantomima, farsa o tragedia era, nel luglio 1995, l’omonimo ma già terzo album degli Alice in Chains.
I primi ad affacciarsi alla ribalta saranno anche gli ultimi a (per ora) non lasciarla: nel senso che i soli due gruppi dei dieci inclusi in questa discografia a calcare ancora le scene senza mai essersene ritirati sono Mudhoney e Pearl Jam e gli uni e gli altri schierano da sempre due componenti a testa che divisero l’avventura Green River. Di quella band il cantante Mark Arm e il chitarrista Steve Turner rappresentavano l’anima punk. Fanatici di Stooges ed MC5, Count Five e Blue Cheer, fondatori di una società di mutua ammirazione con i Sonic Youth, debuttavano confezionando nell’aprile 1988 quello che fu il primo degli inni del grunge e, con Smells Like Teen Spirit dei Nirvana, il più memorabile: 2’33” contundenti e ustionanti. Pubblicato solo a 45 giri in agosto, Touch Me I’m Sick figura, con diverse altre bonus, in questa ristampa allargata del travolgente EP Superfuzz Bigmuff, uscito nell’ottobre del medesimo anno.
Nel marzo 1990 Andrew Wood, cantante dei Mother Love Bone, muore di overdose e il gruppo si scioglie prima ancora che esca l’album d’esordio. A elaborare il lutto Stone Gossard e Jeff Ament provvedono ponendo mano al progetto Pearl Jam e contemporaneamente assemblando un tributo all’amico scomparso. Sono con loro Chris Cornell e Matt Cameron, voce e batteria dei Soundgarden, e in una traccia uno sconosciuto Eddie Vedder. Mattatore è in ogni caso Cornell, che firma gli spartiti di sei pezzi su dieci e tutti i testi. Qui alcune delle interpretazioni più convincenti della sua lunga carriera. Temple of the Dog è distillato (il grunge inventò poco o nulla) di hard blues britannico fra ’60 e ’70. Predominano aromi zeppeliniani, emergono memorie di Free, in qualche frangente persino i Traffic fanno capolino. Il disco più rétro di questa sporca decina risulta, riascoltato, uno di quelli invecchiati meglio.
I Pearl Jam del chitarrista Stone Gossard e del bassista Jeff Ament (il lettore avrà inteso: l’anima hard dei Green River), ma soprattutto del carismatico cantante Eddie Vedder, nell’esaltante percorso che da Vs. (1993) li porterà a No Code (1996) per tramite di Vitalogy (1994), surclasseranno l’album con cui debuttavano il 27 agosto ’91. Nondimeno in questa lista compaiono con Ten per due ragioni: perché rendendoli strafamosi (dati della Recording Industry Association of America: ha impiegato due decenni ma ha finito per superare – e ormai di tanto – le vendite di Nevermind) garantiva loro una totale libertà artistica, di cui faranno ottimo uso; perché al canone di un non-genere quale fu il grunge contribuiva tratteggiandone praticamente da solo il lato più melodico e maggiormente legato a un ideale di classic rock. Non è tutto oro ciò che contiene ma (a oggi immancabili nelle scalette dei concerti) il solenne mid-tempo Alive e l’epica e maliosa Jeremy restano negli annali.
Non si scappa: senza Kurt Cobain il grunge non avrebbe avuto un decimo della popolarità conquistata fra il ’92 e il ’95. I Soundgarden sarebbero assurti lo stess allo stardom e come loro Pearl Jam, Smashing Pumpkins, Alice in Chains, ma per il resto un sound composto in parti variabili a seconda degli interpreti da punk, hard e metal, con più occasionali deviazioni e/o reminiscenze new wave e noise, sarebbe rimasto un fenomeno per poche decine di migliaia di estimatori, mica milioni. Altrettanto innegabile: mai sentita da allora una canzone capace di definire un’era e marchiare una generazione come Smells Like Teen Spirit. Fra i cultori c’è chi gli preferisce il successivo e ben più abrasivo (a tal punto che i discografici lo ritennero impubblicabile nella forma originale e imposero un rimescolamento della scaletta e un remissaggio dei soli due brani giudicati adatti a uscire come singoli), testamentario In Utero, ma se esiste un disco capace di riassumere in sé tutto ciò che fu – musicalmente, attitudinalmente – il grunge, eccolo.
La copertina più tenera e stilosa dell’intero catalogo Sub Pop: distesa al centro di una coperta purpurea una giovane donna di colore in vesti adamitiche tiene in braccio una bimba bianca di pochi mesi, anch’ella nuda. Il contenuto è di bellezza pari al contenitore: dodici brani memorabili e fra essi un paio di classici. Uno è Turn on the Water, modello di ballata elettrica con pochi eguali nell’ambito (forse solamente Come as You Are dei Nirvana, con la quale condivide andatura e lirismo esasperato). L’altro è Let Me Lie to You, fra soul e grunge con una sventagliata di prosopopea U2. Colpisce di Congregation, oltre che la qualità complessiva, un eclettismo di cui si possono eleggere a paradigma una fulminante cover da Jesus Christ Superstar, The Temple, e Tonight: un tuffo dove il country è più blues. Passati alla Elektra, gli Afghan Whigs si confermeranno a livelli altissimi con Gentlemen e Black Love (1993 e 1996), insinuando quasi unici soul e funk in un contesto se no bianchissimo.
Indiscutibilmente il capolavoro della banda Corgan, è questo l’album in cui le promesse profferite dal debutto Gish vengono mantenute. È qui che l’unione fra l’assalto all’arma bianca dell’hard e le melodie frizzanti del pop raggiunge la perfezione. Dopo agli Smashing Pumpkins non resterà che provare a cambiare: aggiungendo colori alla tavolozza nel doppio (due ore!) Mellon Collie and the Infinite Sadness, opera pregevole ma che patisce l’eccesso di ambizione; compiendo una svolta netta ma incerta negli esiti in Adore, tanta elettronica, poche chitarre e nessun brano indimenticabile e nondimeno un discone a confronto di successivi obbrobri. Mai più da Billy Corgan abbiamo ascoltato canzoni capaci di sintetizzarne la poetica meglio della prima, terza e sesta di Siamese Dream. Se Cherub Rock e Today restano esempi mirabili di come sia possibile annullare la dozzinalità dell’heavy metal con l’antidoto di melodie beatlesiane, Disarm disegna un modello di ballata suadente e un filo retorica rimasto ineguagliato.
Crasi di Led Zeppelin e Black Sabbath, tuttavia con la consapevolezza che il rock è stato poi ridefinito da punk e new wave, i Soundgarden sono fra i primissimi – l’EP su Sub Pop Screaming Life data 1987, il debutto in lungo su SST Ultramega OK è dell’anno dopo – a farsi largo nella nascente scena grunge e a delinearne i contorni. Indicati come i più probabili candidati al grande successo fra i gruppi di Seattle, li frena una sfavorevole congiuntura temporale: secondo lavoro su A&M dopo lo strepitoso Louder than Love, l’appena meno persuasivo Badmotorfinger viene pubblicato un paio di settimane dopo Nevermind e vende sì tanto, ma una frazione di quello. Pazienza e duro lavoro alla lunga però pagano: il monumentale in ogni senso – settanta minuti senza una caduta capaci di spaziare fra l’hard più greve e la psichedelia più astrusa e con un sensazionale apice nel pop all’acido lisergico di Black Hole Sun – Superunknown esordisce (310.000 copie polverizzate in una settimana) al numero uno nelle classifiche USA. Sarà sestuplo platino.
Discretamente atteso in forza di un paio di bei singoli, lo spigoloso Pretty on the Inside subisce il paradossale destino, essendo uscito una settimana prima di Nevermind, di venirne eclissato. Per ben più disgraziata coincidenza Live through This vede la luce una settimana dopo il suicidio di Cobain. Mentre la sua immagine già iconica campeggia sulle prime pagine di quotidiani e settimanali, quella della vedova Courtney Love è improvvidamente su quelle di molti mensili, chiusi in tipografia prima del fatale evento. Inevitabile che le analisi dei recensori partano da un titolo a posteriori profetico e si concentrino su testi che anticipano con disturbante preveggenza la tragedia a venire. Non si sottolineano abbastanza, come meriterebbe, lo scarto qualitativo rispetto al predecessore, la forbitezza delle melodie, l’immediatezza dei ritornelli, il convincente inserimento di chitarre acustiche in un tessuto sonoro assai più variegato. Pochi notano e annotano che la voce non sa più soltanto urlare ma anche blandire e sedurre. Commuovere.
Poiché la sezione ritmica ha ascendenze illustri – il bassista Hiro Yamamoto arriva dai Soundgarden, il batterista Mark Pickerel dagli Screaming Trees –, è soprattutto su di essa che si concentra l’attenzione quando i Truly si formano nel 1990. Ci va tempo (anche perché il brillante EP del ’91 Heart and Lungs resta troppo a lungo l’unico articolo in catalogo) ad accorgersi che il fulcro del gruppo è in realtà il cantante, chitarrista e tastierista Robert Roth. Quando infine si palesa, l’esordio adulto dei Truly ha in compenso dimensioni imponenti: 71’43”. Provvede a non farli pesare uno sviluppo avvincente a dispetto del suo essere un concept. Infinitamente più di una storia fumosa, a catturare è la varietà degli schemi, il suo districarsi fra escursioni pianistiche, incursioni di archi e fiati e riff hard, deflagrazioni stoogesiane e blues aciduli, psichedelia e new wave, in un continuo alternarsi di atmosfere che tuttavia non nuoce alla tenuta d’assieme. Arrivando in ritardo in stazione il treno è stato però perso. Non ripasserà.
I più tradizionalmente metal del lotto. Quelli che dal punk non prendevano niente, ma proprio niente. Quelli che di restare un fenomeno underground non volevano saperne, l’obiettivo era diventare delle rockstar e lo centravano subito e in pieno, primi a portare a casa un disco d’oro (con gli anni è diventato triplo platino) con il debutto Facelift (agosto 1990). Sulle orme dell’immediato predecessore, il corposo EP ad amplificatori spenti Jar of Flies, anche l’omonimo terzo album “vero” del quartetto entrava nelle classifiche USA direttamente al numero uno e questo mentre le voci di relazioni interpersonali a un irrecuperabile minimo diventavano sempre più insistenti. Lo scioglimento sopraggiungerà di fatto una volta espletata la a quel punto formalità di un MTV Unplugged registrato il 10 aprile e pubblicato il 30 luglio dell’anno dopo. All’opposto di Cobain, il cantante Layne Staley opterà per un suicidio lento, un buco via l’altro. Morirà anche lui un 5 aprile, del 2002.
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