A tre decenni dall’uscita di Fuzzy, album d’esordio che da subito ha mostrato la statura del classico, ripercorriamo la vicenda di chi come pochi altri ha saputo rinnovare con inventiva e passione le radici del suono americano.
Porta con sé un nome importante, Grant Lee Phillips, intriso di storia e drammi come se tentasse di suturare la ferita della guerra civile americana. Proprio perché si tratta di una scelta consapevole da parte di chi era registrato all’anagrafe di Stockton, California, come Bryan, ci piace pensare a un destino di grandezza che si è avverato. Basta intendersi sul concetto di grandezza, che per noi non si misura in copie smerciate e classifiche scalate.
Del resto, la casualità non esiste e apparteniamo tutti a un universo di connessioni: con un nome di battesimo che richiama Ferry e un “quasi alias” che accorpa Robert E. Lee e Ulysses Grant, è forse inevitabile che si lasci un segno. Così è stato, in un gioco di identità specchiate che affronta la musica del Grande Paese ispirandosi ai gruppi britannici, a loro volta partiti mischiando blues, rock’n’roll, country e soul. Il che, tra tante altre cose, equivale ad affermare che il crossover esiste dall’alba del rock e tutto il resto ne è la diretta conseguenza. Incluso il fatto che una band si giudica anche dalla disinvoltura con la quale elude categorie e definizioni.
Perché oltre a chi ricorre a canoni consolidati o alla mediocrità, esistono artisti che fuggono dalle gabbie lasciandoci a bocca aperta. Provateci, a cercare riferimenti precisi nei Grant Lee Buffalo e nel loro antefatto Shiva Burlesque: non ci riuscirete, perché ogni elemento è mescolato, filtrato e mediato in una forma e una sostanza originali.
Non c’è da stupirsi, visto che il nostro uomo possiede talento e idee, ha scelto i giusti compagni d’avventura ed è giunto lontano perché veniva da lontano. Conosce e ama il passato, Phillips, e da esso ha modellato una figura di songwriter moderno, legato tramite il proprio linguaggio a una tradizione che mantiene viva. Per questo, con le loro sfuriate possenti negli anni Novanta i Grant Lee Buffalo erano solo fino a un certo punto in controtendenza rispetto al grunge.
Il loro equilibrismo permetteva infatti di lavorare con i chiaroscuri, di piegare parole e suoni in canzoni spirituali che sprigionano fisicità e lirismo e nelle quali la leggenda diventa storia quotidiana. Ritratti di un’America tanto mitica quanto più è concreta, colme di significato e prive di zavorra, sono canzoni come se ne scrivevano una volta ma che sembrano nate oggi. Da qui all’eternità, una lode più elevata per un autore crediamo non esista.
Magnetico e indimenticabile, il primo album degli Shiva Burlesque gronda misticismo fin dalla copertina, promettendo che non ascolteremo alcunché di banale o nostalgico in una post-psichedelia più vicina alla trance losangelina che a un Paisley Underground all’epoca ormai defunto. In retrospettiva, è evidente che il gruppo ha costruito un ponte tra flash acidi e brume new wave in un incantesimo inquieto le cui origini si collocano nella seconda metà degli anni ‘80, quando il ventenne Grant Lee Phillips si trasferisce a Los Angeles.
Di giorno incatrama tetti, la sera frequenta corsi di arte e cinematografia e intanto, con l’amico, concittadino e cantante Jeffrey Clark, insegue la quadratura dei suoi eroi adolescenziali David Bowie, Alice Cooper e Johnny Cash. Quando i Tom Boys perdono drum machine e bassista, accolgono la sezione ritmica formata da James Brenner e da Joey Peters, si ribattezzano come sappiamo e, messa a punto la ricetta, nella primavera 1987 si autofinanziano una session nella rilassata Venice Beach.
Entro un anno, tra la muscolare leggiadria di Indian Summer e una Marysupermarket che attualizza i Doors, Shiva Burlesque porge la desertica visione Two Suns, i Love incupiti di Work the Rat, una The Lonesome Death of Shadow Morton che da Heaven Up Here spalanca un esotico cuore rivelatore. Se The Black Ship gioca alla pari con il miglior Julian Cope, Water Lilies appoggia il jingle-jangle su pulsazioni alla Cure, Morning impasta archi e corde in un ribollente cavalcata e Train Mystery delira come un convulso Stan Ridgway.
Malgrado tanta meraviglia, le vendite sono modeste e le college radio iniziano a puntare verso le sonorità provenienti da Seattle. A sottolineare lo stretto rapporto con la scena che ha partorito band del calibro di Savage Republic e Red Temple Spirits è la raccolta di autori vari Viva Los Angeles II pubblicata dalla romana Viva Records, cui nell’inverno 1990 è offerta l’incantevole Arabesque. Nel frattempo, sono entrati in squadra il violoncellista Greg Adamson e Paul Kimble ha sostituito Brenner.
Li ascoltate in chiusura di annata su Mercury Blues, dove Grant prende gradualmente controllo di un folk rock lisergico vibrante e policromo. Spiccano il brano omonimo, Sick Friend, Cherry Orchard e Sparrow’s Song, però la solfa non cambia: la stampa apprezza, il botteghino si nega, cresce la tensione e gli Shiva Burlesque si dividono al principio del decennio in cui Phillips conquisterà il proscenio. Di nuovo, tutto ciò non accade per puro caso.
Dovendo ricorrere a un paragone illustre, per inquadrare i Grant Lee Buffalo possiamo tranquillamente chiamare in causa The Band. Pur in un contesto differente, la rivisitazione e la creazione di mitologie, un minimalismo attento al dettaglio e l’approccio verso le radici riportano sui sentieri di Big Pink, con la differenza che, grazie al distacco cronologico, i californiani posso attingere anche altrove e in particolare dal glam dei primi Seventies.
L’evoluzione dagli Shiva Burlesque è armonica per questioni stilistiche, perché in ogni fine si cela un inizio e perché le rispettive line-up in parte corrispondono, ma soprattutto perché si inserisce nel percorso intrapreso da chi, con il senno di poi, cerca il progresso guardandosi indietro sull’esempio dei Grateful Dead. Nello specifico, la bussola punta una casa di tronchi e lustrini dove Bowie, Mott The Hoople e Johnny Cash abitano fianco a fianco.
Più prosaicamente, è il garage nel quale Grant, Paul e Joey mettono su nastro le composizioni lasciate nel cassetto dall’esperienza precedente, che propongono in concerto nascosti dietro denominazioni pittoresche finché non ne scelgono una definitiva. Ottenuto un ingaggio stabile a West Hollywood, perfezionano intesa e repertorio e spediscono un demo a Bob Mould, che ha allestito un’etichetta dedicata esclusivamente ai 45 giri.
L’esordio targato Singles Only è un’ipnosi oppiacea e sognante, giocata su intrecci elettroacustici e una voce sottile e intima. Nel 1992, in piena esplosione mediatica del grunge, Fuzzy è aliena, sensazionale e persuade la Slash a mettere sotto contratto i ragazzi, che si chiudono per una settimana nei Brilliant Studios di San Francisco. Il suono caldo e “panoramico” di quella ex fonderia dell’Ottocento impreziosisce un roots rock che imbriglia in strutture eleganti l’esecuzione travolgente ma precisa, affidata alla solidità dell’asse chitarra acustica/basso/batteria.
Non sembra opera di un terzetto, l’album Fuzzy, tanto è denso però mai pesante nell’amalgama di influenze che collocano il risultato in un luogo della mente, dove il gothic è sia country che hollywoodiano e il glamour appartiene all’Inghilterra e alla metropoli in cui sogno e realtà si confondono. Logico dunque che un’aura di arcano mistero e fascino duraturo circondi l’irresistibile saltellare tagliato da un piano jazz di The Shining Hour, la Jupiter and Teardrop che cita Ziggy Stardust dipanando robusto romanticismo, una title track troppo bella per non essere recuperata e il fenomenale country girato slowcore Stars N’ Stripes.
Altrove, la dolcezza tersa di Wish You Well e quella tesa di You Just Have to Be Crazy rispondono al Neil Young perso tra i solchi di Stage Fright tratteggiato da The Hook e Soft Wolf Tread, Dixie Drug Store è soul campagnolo in viaggio verso sud sulle orme di Dr. John, America Snoring un inno battente e Grace una sferzata tribale e acidula. Ora come allora, una cifra personale si impone sopra ogni possibile rimando.
Vertice che in trent’anni ha guadagnato in termini di classicità e freschezza, Fuzzy incassa elogi ovunque e l’entusiasmo di Michael Stipe sancisce l’ingresso degli artefici tra i nomi che contano. Poco dopo, l’EP Buffalondon li fotografa dal vivo intenti a rileggere egregiamente la younghiana For the Turnstiles e ad anticipare la mossa successiva alternando rabbia e quiete.
Questa l’atmosfera in cui si muove Mighty Joe Moon, che a pochi mesi dal suicidio di Kurt Cobain espande la tavolozza strumentale e allarga il bacino d’utenza, trainato dal singolo – e dal relativo video, girato da Anton Corbijn – Mockingbirds, gioiello aggiunto all’ultimo istante che conduce il Bowie di Memory of a Free Festival nelle pieghe del White Album. Non vale meno quanto la accompagna, eseguito da un trio affiatato che ha trascorso centinaia di giorni on the road, e libera le vampate di elettricità che circondano la melodia di Lone Star Song e irrompono nelle articolate Demon Called Deception e Lady Godiva and Me.
La dinamica tra una speranzosa ricerca di serenità e il ritratto di un’apocalisse contemporanea in metafore e immagini vivide che contraddistingue l’intero disco è frutto di un momento preciso e di circostanze particolari. In tour, Phillips ha osservato attentamente l’America e le sue infinite identità e ora si guarda attorno, oscillando lungo un falsetto amaramente virile a metà tra John Lennon e Bryan Ferry e un baritono scuro come il ventre di una miniera.
Cantando miti, leggende e tragedie, nella sua wasteland il personale sfuma nel politico, il massacro di Waco si intreccia al terremoto che nel gennaio 1994 devasta L.A., le riflessioni sui massimi sistemi sfociano in poesia ruvida ma elegiaca. Da lì giungono la struggente meditazione in punta di plettro It’s the Life e la circolarità risoluta di Drag e Side by Side, l’impetuoso Robbie Robertson post-punk di Sing Along e una Last Days of Tecumseh figlia della Anthology of American Folk Music. Sommate all’ombrosa e onirica traccia omonima, a una tristallegra Honey Don’t Think, alla cupa immensità di Happiness e alla pacatezza solenne di Rock of Ages, danno un secondo capolavoro.
L’unico difetto imputabile a Mighty Joe Moon è che, nonostante le tournée di supporto a R.E.M. e Cranberries, non spicca il balzo commerciale definitivo. In sostanza, i tre sono troppo raffinati anche per una platea che, pur premiando Green Day e Pearl Jam, non nota le sottigliezze di chi comincia a risentire della fatica. Mentre cerca di tirare fiato, Phillips si impone una disciplina giornaliera e la cotta per Pet Sounds fa sì che il pianoforte acquisisca spazio in fase compositiva. Onesti con se stessi e con i fan, nel “difficile” terzo album i Grant Lee Buffalo attenuano il tiro, optano per arrangiamenti un po’ più ricchi e sviluppano Copperopolis in studio.
A dispetto di una penna a tratti scolorita, si apprezza lo scostarsi da un filone a rischio di manierismo: dalla sua foschia crepuscolare, infatti, emergono episodi pregevoli come gli Waterboys in abiti yankee di Homespun e Arousing Thunder, le distese The Bridge e Better for Us, il groove R&B di Bethlehem Steel, l’aeriforme Hyperion and Sunset e un’incantata The Only Way Down.
Sfortunatamente, ogni ipotesi di sviluppo si arena di fronte allo sbriciolarsi del rapporto tra il capobanda e un braccio destro che, oltre a occuparsi di basso e tastiere, ha anche curato la produzione degli album. Quando Paul Kimble getta la spugna, i superstiti lo rimpiazzano ma l’alchimia e l’equilibrio sono svaniti e Jubilee tira a lucido brani di gran lunga inferiori agli standard abituali e al materiale scritto per il film Velvet Goldmine di Todd Haynes. In un’aria di normalità fuori posto, i tempi stanno cambiando e la disillusione ha la meglio. Alla fine degli anni Novanta sullo schermo appare il “The End”.
Defilati gli altri ed esclusa la breve reunion del 2011, da allora Grant pubblica discreti lavori solisti, sale sul palcoscenico sorridente e consapevole che la gente vuole e avrà quelle canzoni e, sfoggiando una certa autoironia, ha partecipato alla deliziosa serie televisiva The Gilmore Girls nei panni del menestrello di paese. Lungo e strano il viaggio attraverso l’America dalla provincia reale di Stockton a quella immaginaria di Stars Hollow, ma del tutto coerente per un cantastorie con sangue indiano nelle vene. Uno che, camminando sulla corda tesa tra modernità e tradizione, ha avverato un destino di grandezza.