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A volte è necessario approfondire. Per capire da dove arriva la musica di oggi, e ipotizzare dove andrà. Per scoprire classici lasciati indietro, per vedere cosa c’è dietro fenomeni popolarissimi o che nessuno ha mai calcolato più di tanto. Queste sono le storie di HVSR.

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Elliott Smith: storia di una cometa

La parabola di un ragazzo triste come noi.

Al di là di ogni fraintendimento sul maledettismo, Elliott Smith è stato un grandissimo songwriter. Uno che ha scritto classici immediati che, guardando con ammirazione ad altri classici, dureranno nel tempo. Ed è solo per il suo talento che va ricordato.

Ragazzo triste, come noi

Ragionando sul complesso rapporto tra l’artista e il mondo che lo circonda, per apprezzare Elliott Smith devi accettare la malinconia come un elemento indispensabile. È il chiarore che riverbera nelle sue canzoni, in quei vetri policromi con lati aguzzi e taglienti dei quali ti accorgi solo quando li tieni in mano. Di conseguenza, non possiamo che chiamare in causa la catarsi, il bagaglio emotivo, una spaccatura che non sai se esista da sempre o nasca perché qualcuno “vede” ciò che la maggioranza ignora e il gesto di svelarlo ha conseguenze tragiche. Facce della stessa moneta, probabilmente, ma dalla crepa scaturisce tanto di ciò che amiamo e, purtroppo, anche un pericolo potenzialmente fatale.

Il binomio per comodità chiamato “genio e sregolatezza” disegna infatti un’intricata dinamica di polarità che cancellano il confine tra etica ed estetica del vivere. In fondo a ogni filosofia c’è il peso che sopporti finché l’unico desiderio è porre fine alla tortura, ragion per cui mettiamo le mani avanti: la madre di tutte le decisioni si colloca al di sopra dei giudizi. Nessuno dovrebbe azzardarsi a esprimerne sulla questione più privata che esista, perché il blues lo portiamo dentro fin dal nostro primo giorno e abbiamo il dovere di esercitare empatia e umanità con chi non riesce a reggerlo.

Di Elliott serbiamo diversi ricordi: la musica che va dritta al cuore, l’espressione malinconica, un’aura da segnato che, di nuovo, sembra sorgere da pensieri che prendono forma a posteriori. Come per Kurt Cobain, Mark Linkous e Vic Chesnutt, anche nel suo caso sappiamo dire con esattezza dove eravamo nel momento in cui abbiamo appreso la notizia. E quel momento ci si è congelato nell’anima da spartiacque che accomuna tutti, ma non per morbosità: casomai, per il bisogno di trovare chi ha il coraggio di raffigurare fantasmi che appartengono a ognuno e di sentirci meno soli.

Nel gioco di dualismi risolto tramite una manciata di dischi, ha una logica che il capolavoro si intitoli Either/Or: partendo da Søren Kierkegaard, spiega che le terze soluzioni non sono contemplate, che tocca scegliere tra consegnarsi all’infinita bellezza dell’universo oppure soccombere in un mondo privo di senso. Trascinati dal dubbio svelato nell’Amleto, noi resistiamo e sopravviviamo. Altri no, però lasciano orme per le quali saranno ricordati in eterno. Alla fine, è questo che conta.   

Quando il mondo intorno va troppo in fretta.

Ballate del grande nulla

Inevitabile che il dispiacere e il rammarico circondino la figura di Elliott Smith. Ti domandi quali altre meraviglie avrebbe potuto regalarci se, immaginando le ulteriori tappe del percorso che lo ha condotto a uno stile più elaborato, che rinfresca i Sixties e i primi anni ’70 mostrando una solida calligrafia e un’allure di inquietudine che riconducono alla classicità di Ray Davies e Brian Wilson, di Lennon & McCartney e Alex Chilton.

Piovono dal medesimo olimpo, quelle canzoni splendide come cieli dopo il temporale, quando l’aria è fresca e all’orizzonte si staglia un arcobaleno. Moderne, anche, poiché incentrate sulla depressione, la dipendenza e la vulnerabilità. Sul sentirsi fuori posto tranne quando ci si racconta, così che una sensibilità che Marcy Donelson ha definito melancopop sfugge a categorie troppo rigide e confonde chi la considera soltanto triste. Elliott, invece, la offriva con un timido, onesto sussurro ed era felice di cantare ciò che – paradossalmente, ma non troppo – costituiva una protezione per l’artista e l’uomo.

All’origine dei quali c’è Steven Paul Smith, nato nell’estate 1969 in Nebraska e, causa divorzio quasi immediato dei genitori, venuto su nel Texas con la madre e la musica a tenergli compagnia. Folgorato giovanissimo dal White Album, maneggia quattordicenne chitarra e pianoforte e trasloca a Portland, in Oregon, per stare con il babbo. Più tardi si laurea in Filosofia e Scienze politiche nel Massachusetts, tornando a nordovest assieme a Neil Gust per allestire gli Heatmiser con il bassista Brandt Peterson (poi rilevato da Sam Coomes) e il batterista Tony Lash.

Non esattamente l'Elliot che siamo abituati a ricordare.

Mentre Dead Air e Cop and Speeder si barcamenano tra stereotipi grunge e alt rock, la fidanzata di Smith propone uno spartano demo alla Cavity Search, piccolo marchio cittadino che lo stampa così com’è. Non fa nulla se quasi metà scaletta è priva di titoli: nel ’94, Roman Candle va controcorrente con un dolente indie folk che fa rumore sottovoce nella tesissima title track, nelle circolari No Name #1 e No Name #3, in una ruvida Last Call e nelle schiarite di Condor Ave.

Biglietto da visita interessante, Roman Candle serve da lasciapassare per la Kill Rock Stars e un secondo LP omonimo da interpretare come il vero esordio. La penna scorre nitida e si aggiungono piccoli tocchi strumentali confermando il minimalismo che ha indotto a parlare di un Pink Moon della Generazione X. Con i dovuti distinguo, scopri delle affinità nelle melodie stranite (Southern Belle, Single File, Satellite, Alphabet Town) e in un porsi accorato però pure trattenuto (Christian Brothers, Coming Up Roses).

Un po' Richard Ashcroft.

Aggiungete le sensazionali Needle in the Hay e The Biggest Lie, una traslucida Clementine, la lennoniana The White Lady Loves You More e capirete come mai gli Heatmiser vengano messi in disparte nonostante l’accordo con la Virgin. Nel ‘96 Mic City Sons (più che discreto e generoso di avvisaglie dell’immediato futuro) sancisce lo scioglimento e il ragazzo ha tutto il tempo e l’agio per concentrarsi sulla propria carriera. Di entrambi saprà fare ottimo uso. 

Più genio che ribelle

Il destino nasconde buche, svolte pericolose e talvolta un tratto di strada lastricato con mattoni dorati. Un quarto di secolo fa, la maturazione di una nuova tipologia di songwriter pop pare inarrestabile e, puntualmente, spetta al terzo album segnarne l’apice: nel febbraio 1997 Either/Or mostra un’armonia assoluta e un ispessirsi degli arrangiamenti cui corrisponde un ineguagliato standard compositivo.

Fatto un passo avanti in termini di ambizione con il duo produttivo Tom Rothrock/Rob Schnapf e gestendo l’esecuzione in autarchia, il nostro eroe scrive la sua pagina più fulgida. Stanno in questi solchi alcuni dei migliori apocrifi Big Star di sempre (Ballad of Big Nothing, Rose Parade, Speed Trials), favolose congetture su un John Lennon del dopo punk (Pictures of Me, Angeles, Cupid’s Trick), gemme cristalline à la Fab Four (Alameda, Punch and Judy) e indimenticabili spigoli acustici (No Name No. 5, Between the Bars, 2:45 A.M., Say Yes). Ognuna è un esempio di perfezione rara, del genere che non stanca e avvince per sempre.

Live in un negozio di fumetti.

Perfezione notata anche da Gus Van Sant, il quale chiede qualche brano per Good Will Hunting ed è accontentato con estratti dal catalogo più l’inedita elegia Miss Misery. È la svolta: Elliott ottiene una nomination agli Oscar, non vince ma si presenta da Conan O’Brien e, accompagnato dall’orchestra e un palese disagio, agli Academy Awards edizione ‘98. La DreamWorks fiuta il talento e, benché diffidente verso una celebrità improvvisa che ha mietuto vittime, chi sta comunque flirtando con il lato selvaggio decide di cogliere l’occasione. Il budget più ampio serve per colorare la tela, lucidare le superfici a vantaggio dell’introspezione, rinforzare e contrappuntare la delicatezza ombrosa di XO.

Insegna Phil Spector che uno dei segreti del pop è nascondere argomenti spinosi in meccanismi infallibili e appassionati. Tali sono l’autoesplicativa Waltz #2 (XO), la vibrante Pitseleh, una I Didn’t Understand sublime e devota a Brian Wilson, gli arazzi e le armonie vocali di Tomorrow Tomorrow e Waltz #1. Lo stesso dicasi per gioielli indecisi tra Revolver e Odessey and Oracle (Baby Britain, Independence Day, Bled White, Oh Well, OK) ed episodi che flettono i muscoli con classe (Sweet Adeline, Bottle Up and Explode!, Everybody Cares, Everybody Understands). In madrepatria XO sfiora la centesima posizione, si affaccia nei Top 50 in Australia e Svezia e una rilettura della beatlesiana Because appare in American Beauty.

Suono tutto io.

Il decennio al tramonto, Figure 8 insiste su un pop rock ricercato e liricamente spiazzante e sulla personalità ormai riconoscibile nella sinuosa Son of Sam, in una Everything Means Nothing to Me da Kinks alle prese con Abbey Road, nella meditativa Everything Reminds Me of Her. Tra brillanti omaggi a Chilton (L.A., Wouldn’t Mama Be Proud) e George Harrison (Happiness, Can’t Make a Sound), piacciono una Stupidity Tries degna del Lennon solista, una In the Lost and Found sottratta a Pet Sounds, l’acquerello Easy Way Out e la spigliata Somebody That I Used to Know. Ragguardevole il riscontro commerciale, sembra che nulla possa fermare l’ascesa. E invece.

Dalla cantina alla collina

Invece qualcosa si spezza definitivamente. Ogni acrobata sa che la caduta è un rischio quotidiano, perciò può soltanto sperare di avere una rete che lo protegga: le cose vanno diversamente per la stella che, inghiottita da un buco nero, in un confuso biennio saluta la DreamWorks, accantona materiale con svariati produttori e infine si affida a David McConnell. Nel frattempo in un sinistro presagio, Needle in the Hay, commenta una scena di tentato suicidio in The Royal Tenenbaums. Siccome nulla accade per caso, Smith non completerà il sesto album: il 21 ottobre di vent’anni fa lo rinvengono in casa con nel petto due ferite da arma da taglio. Dissolvenza.

Presagio è dir poco.

Quasi un anno dopo, la Anti- pubblica From a Basement on the Hill in un clima polemico, nel quale gli eredi si sono rivolti a Schnapf e all’ex compagna Joanna Bolme per confezionare qualcosa di compiuto dai nastri a disposizione e McConnell obietta che il risultato non corrisponde ai desideri dell’artefice. Se in genere i lavori postumi recapitano inutilità o scempi, qui siamo viceversa davanti a un’apprezzabile eccezione fatta di Beach Boys inaciditi (Coast to Coast, A Passing Feeling), ricami accurati (Let’s Get Lost, Twilight, The Last Hour), crocevia tra Big Star, Beatles e Zombies (Pretty (Ugly Before), A Fond Farewell, Memory Lane) e power pop contemporaneo (Don’t Go Down e Strung Out Again).

La qualità di un’operazione che accede ai Top 20 evita ogni accusa di vile commercio e lo stesso dicasi per New Moon, raccolta di inediti risalenti al periodo ’94-’97 pubblicata nel 2007 dalla Kill Rock Stars. Approfondendo il lato spontaneo e raccolto, tira le lancette indietro a un’asciuttezza di voce e chitarra e alla tristallegria che permea ritratti dell’artista da giovane, il quale suo malgrado non diventerà anziano ma ha appena capito di valere. Illuminante la prima stesura di Miss Misery, dove il ritornello sfocia in una ricerca di speranza e tratteggia un momento di profonda intensità che racconta il cantautore americano meglio di ogni disquisizione – e fors’anche del documentario Heaven Adores You.

Una magra consolazione.

Ecco. Quando torni su dischi che conosci a memoria trovandoli davvero senza tempo, pensi a una cometa che ha solcato il firmamento e che ancora sfreccia intorno al nostro pianeta. Sai che è sbagliato eleggerla a martire di un “maledettismo” che in troppi ritengono connaturato al rock, quando invece deriva da una fraintesa concezione di romanticismo. Il romanticismo autentico, qui, sta nella familiarità rivelatoria delle canzoni, in un tormento soffocato a stento che avvicina l’autore ad Alex Chilton. Anche se il finale è duro da mandar giù, il cerchio (im)perfetto si chiude sulla cover di Thirteen. Adesso, Elliott, possiamo abbracciare il tuo ricordo com’è giusto che sia.

Elliott Smith Mark Linkous Vic Chesnutt Nick Drake 

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