Il disco spartiacque nella carriera dei Dimmu Borgir, rivalutato nel tempo, ma sempre con alcune riserve. In ultima analisi, l’inizio della fine di un mondo come lo conoscevamo e di una band forse un po’ troppo fraintesa.
Certe volte pare quasi che l’allontanamento di uno o più componenti della formazione originale di una band produca una sorta di trauma nei fan. Come fossero figli che assistono impotenti alla sparizione improvvisa di uno dei genitori, la mamma torna e babbo non c’è più. Al suo posto, ecco un altro papà: «vedrai, sarà anche meglio di quello che c’era prima».
Questa sofferenza i metallari la subiscono da decenni. Il genere è ancora relativamente giovane. Non esiste (quasi) un solo fan e nemmeno un idolo del metallo che sia morto di vecchiaia. Molti hanno soltanto pagato il debito con una vita di eccessi, ingrediente fondamentale del loro essere il lato oscuro della figura paterna. Un tipo come Lemmy ha insegnato ai ragazzi a peccare e, soprattutto, a farlo con uno strano sorriso inquietante sul viso.
Tutto questo preambolo seccante ci serve per introdurre Puritanical Euphoric Misanthropia, disco dei Dimmu Borgir che nel 2001 segna l’ufficiale spartiacque tra la purezza degli esordi, la sana evoluzione creativa e la corruzione fasulla che oggi li rende forse la più indigesta delusione per i fanatici della fiamma nera.
Negli anni, l’album – prodotto dallo svedese Fredrik Nordström e dalla band stessa – ha riguadagnato una certa considerazione, ma secondo molti è semplicemente l’annaspante inizio della fine, con una line-up rimpolpata di VIP professionisti (Nicholas Barker, Galder, ICS Vortex) al posto dei più veraci e ultimi defezionari “storici” (Nagash, Tjodalv) e un dispiegamento di forze orchestrali a fare da cornice a un lavoro pomposo e impeccabile, che tuttavia esprime soprattutto un bisogno non scusabile di piacere al mondo.
Probabilmente la figura del blackster nordico – cattivo, sanguinario e piromane, votato al paganesimo perduto – per il pubblico dei “veri” appassionati rappresenta una specie di eroe, un ribelle puro che è nemico del mondo e della cultura dominante, in guerra contro tutto ma forte di una propria intima integrità. A questa algida seriosità, i Dimmu Borgir preferiscono pose lascive, ghiotte di peccaminosità mondana. All’Helvete (l’inferno della mitologia norrena) classico, Shagrath e soci preferirebbero di gran lunga uno sfondo più glam, tipo Playboy Mansion nella variante latex e croci rovesciate.
In effetti la concezione originale del black metal era tutto tranne che Puritanical Euphoric Misanthropia. Pochi soldi, idee molte, ma disegnate in modo spartano e rozzo. Potevano anche esserci raffinate locuzioni sinfoniche, ma obbligatoriamente sepolte sotto un missaggio da muffa cantinale.
Eppure se prendiamo i lavori precedenti dei Dimmu Borgir ci accorgiamo che non sono così distanti per contenuti e tentativi di contaminazione: hanno solo un budget molto più risicato, dove al contrario per Puritanical la band si è potuta permettere di trasformare l’intro Fear and Wonder e l’outro Perfection or Vanity – che avrebbero potuto essere i consueti tastierami gracchianti – in una versione più cupa e infida di Howard Shore (il quale – ricordiamolo – di lì a poco avrebbe realizzato la colonna sonora del trilogico Signore degli anelli di Peter Jackson).
Maggiori differenze - che non mere questioni di budget - sono altrove: il metallo di Puritanical è più vicino al thrash classico (Blessings upon the Throne of Tyranny) che alle consuete evoluzioni ritmiche da tendinite aggravata; e visivamente non c’è più nemmeno il face-paint, ma solo un accenno di cerone qui e là, giusto per ricordare l’origine cadaverina del carnevale black metal. Le foto session sono sontuose, i costumi sorprendenti, le esecuzioni davvero impeccabili e i testi mantengono sì la polemica contro il cristianesimo, ma vantano un’eleganza formale che stona con le veementi invettive da satanisti laveyani fuoricorso quali sono e continuano a essere loro malgrado i vecchi Dimmu di oggi.
Questa crescita anabolica in fondo è la cosa più naturale per un gruppo di ex teenager disadattati che sentono scemare la rabbia e necessitano di un’autentica direzione che li possa far sentire realizzati. L’alternativa sarebbe stata ripetere Stormblåst ed Enthrone Darkness Triumphant all’infinito, in nome di una coerenza sospetta e stancante.
Il paragone tra Dimmu Borgir e Cradle of Filth ha accompagnato la carriera di entrambe le band per circa una quindicina di anni. I diretti interessati, però, hanno sempre ribadito – forse in modo un po’ civettuolo – che non c’è mai stata alcuna rivalità, e che soprattutto non esistevano reali somiglianze stilistiche, facendo orecchie da mercante.
Va detto che pubblico e critica li avvicinavano per la medesima sensibilità alle lusinghe del mondo, più che altro. Col tempo è diventato evidente che in fondo non potrebbero essere paragonati nemmeno in questo senso. D’accordo, abbiamo capito l’insinuazione, ma il peccato dei Borgir è peggiore rispetto a quello dei Cradle, perché sebbene questi ultimi abbiano esordito con pesanti rimandi al black metal norvegese, se ne sono staccati quasi subito, sviluppando una loro personale miscela di romanticismo velenoso, goticità spinta e ruggente triggerame.
D’altra parte i Cradle sono inglesi e quello è il retaggio culturale che li ha prodotti (la poesia cimiteriale di Grey, i film della Hammer, la cattiveria linguistica di Burgess, oltre naturalmente alla guasconeria un po’ ridicola dei Venom), mentre i Dimmu Borgir sono figli della terra che ha partorito Euronymous. Hanno attraversato incolumi un tempo di eccessi e bambinate che per molti altri coetanei hanno significato galera e morgue. Si sono fatti il mazzo con dischi oggi considerati classici indiscutibili e, pur non spargendo sensazionalismi e bravate, hanno mostrato (fino a un certo punto) una malvagità austera e credibilissima confermata da lavori onesti e progressivi. Quindi il loro cambiamento è stato vissuto in modo molto più gravoso e dolente dai fanatici delle chiese in cenere.
Considerazioni moralistiche e psicologiche a parte, Puritanical Euphoric Misanthropia ha dimostrato di reggere bene il tempo e anzi, di crescere, guadagnandosi una posizione di rilievo nella storia del metal, aumentando la posta del barocchismo disagiato black metal e conducendolo tra le griffe dell’alta classifica.
Soprattutto gli va riconosciuta una genuina atmosfera decadente, una visionaria misantropia che – soprattutto nella scandalosa Puritania e nell’enfasi peccaminosa di Hybrid Stigmata – conducono per mano il pubblico dei figli spauriti e incazzati verso le sterminate praterie degli esperimenti nucleari, le desolate distese di ossa dei genocidi programmati e le montagne di sofferenza che l’uomo ha inflitto a se stesso, ispirato da un Dio misericordioso e benevolo.
Ciò che alla fine dell’ascolto ci rimane è un poco rassicurante arrivederci a futura disgrazia, in cui un’élite satanica e disumanista realizzerà un attentato terroristico su scala mondiale, innescando spirali di dolore e di violenza definitivi.
Puritanical è uscito il 19 marzo 2001. Pochi mesi dopo il primo dei due aerei di linea si è conficcato nel cuore di New York, e davanti a un simile orrore, le accorate accuse dei cantautori contro il sistema, la violenza minimale e un po’ brufolosa del nu metal sono diventati uno sgomentato fruscio sulla polvere e le macerie. Solo il ritmo marziale di Puritania e la voce gracchiante del mefistofele Shagrath potevano commentare un simile orrore.