A cinquant’anni dal primo disco, il nostro omaggio al vate californiano in una raccolta impenitente di citazioni tutte da verificare: cinquanta perle di saggezza lasciate dietro di sé durante una lunghissima carriera, come le briciole di Pollicino. Cinquanta suggestioni buone per tratteggiare un’esistenza artistica incontenibile come un vulcano in eruzione della quale possiamo afferrare soltanto alcuni piccoli zampilli infuocati.
Il 6 marzo 1973 usciva Closing Time, il primo malinconico disco di Tom Waits, che quest’anno festeggia cinquant’anni tondi di carriera.
Tra album in studio, colonne sonore, live e rarità, il Nostro ha ormai all’attivo più di venti dischi di canzoni memorabili e altrettanti film, nei quali si è cimentato non solo in veste di musicista, ma anche come interprete di diversi personaggi: dall’autista alcolizzato di America oggi, al barista filosofo di Rusty il selvaggio, fino al diavolo in persona in Parnassus.
Ma Waits è anche un maestro nell’arte della conversazione, capace di piegare la realtà a suo piacimento per portarla dove vuole, adattandola al suo umore. In questo è molto simile a Bob Dylan, anzi per il Newsweek Waits «è più Dylan di Dylan stesso». Le sue capacità affabulatorie non conoscono confini reali o immaginifici. A proposito della sua nascita, per esempio, ha raccontato più volte di essere nato sul sedile posteriore di un taxi, con la barba di tre giorni e di aver dovuto prendere fin da subito delle decisioni importanti, come quella di pagare la corsa al tassista e di cercarsi un lavoro – dirà poi in seguito di essere riuscito a farsi assumere come sindacalista al reparto maternità, salvo poi essere licenziato, restando per questo parecchio disilluso dalla politica del sindacato stesso.
Per Paul Maher Jr. – che ha curato la raccolta di interviste Il fantasma del sabato sera, edita in Italia da Minimum Fax – la sua padronanza del sapere si traduce in un pozzo senza fine di esperienza da cui spilla molte citazioni, superate forse solo da quelle della Bibbia o di Benjamin Franklin. Per il Daily Telegraph è semplicemente «il più fenomenale intrattenitore sulla faccia della terra». Forse l’unico al mondo per il quale l’aggettivo “incredibile” si può usare sia in senso iperbolico che in senso letterale.
Quello che segue è allora un elenco di piccoli frammenti che contengono episodi fantasiosi, storie poco credibili, citazioni irriverenti, battute ironiche e naturalmente diverse canzoni calpestate, abbandonate ai margini dei marciapiedi.
Quello graduale. «Beh, ci sono voluti sette anni e sono passato dai beer bar ai piccoli teatri, quindi credo che si possa dire che sto uscendo dai bar… (dopo sette anni!)».
Quello economico. «Non mi preoccupo del successo finanziario. Semplicemente non ci penso. Semmai sono diventato più tranquillo, sapendo che posso dormire fino alle due di pomeriggio e star fuori la notte fino alle dieci del mattino, senza dovermi preoccupare di perdere il lavoro. Ma non sono una grande star. Non sono nemmeno uno scintillio. Sono solo una voce».
Successo di critica. «Non mi piacciono i premi. Sono solo un mucchio di fari attaccati al petto, come diceva Bob Dylan. Ho ricevuto un solo premio in vita mia, da un posto chiamato Club Tenco in Italia. Mi hanno dato una chitarra fatta di “occhio di tigre” [nel 1986, ndr]. Il Club Tenco è stato creato come alternativa al mastodontico Festival di Sanremo che si tiene ogni anno. È per commemorare la morte di un grande cantante che si chiamava Luigi Tenco e che si era sparato al cuore perché aveva perso al Festival di Sanremo. Per un certo periodo, in Italia è stato popolare che i cantanti si sparassero al cuore. Capite? Questo è il mio premio».
Successo nella vita. «Gli eroi di oggi sono i gestori delle stazioni di servizio di domani. Io sono fortunato. Sono un meccanico piuttosto bravo».
Successo con le donne. «Non ho mai incontrato qualcuno che abbia un album di Tom Waits e che ce l’abbia fatta con una ragazza. Io li avevo tutti, e questo non mi è stato d’aiuto».
Niente portafogli. «Non portare mai il portafoglio con te sul palco. Porta sfortuna. Non si dovrebbe suonare il pianoforte con dei quattrini in tasca. Suonate come se aveste bisogno di soldi».
Aprire per Frank Zappa. «Nei miei primi tour dovevo aprire per Frank Zappa: uscivo e mi tiravano addosso lattine di birra, la gente mi sputava addosso. Mi sono sempre sentito come un termometro rettale che misurava la temperatura del pubblico per Frank».
Aprire per Frank Zappa #2. «Mi fa venire ancora gli incubi. Frank mi appare in sogno e mi chiede: com’è la folla? Faccio incubi dove il piano prende fuoco, le gambe si staccano, il pubblico si avventa su di me con le torce e poi mi trascina via per prendermi a bastonate… insomma, penso che sia stata una bella esperienza!».
Suonare in Giappone. «Una volta ho suonato in Giappone, in un tempio abbandonato. Il tetto era stato strappato. Pensavano che sarebbe stato un posto fresco per un concerto, ma c’erano trenta gradi sotto zero. Ricordo solo che il mio sassofonista ha fatto un fuoco con dei bastoncini e ha tenuto la sua tromba sulla fiamma per riscaldarla prima di iniziare».
La vocazione. «Ho deciso di fare il cantautore professionista perché fondamentalmente sono pigro, irresponsabile, impaziente, disorganizzato, un pessimo pianificatore. E poi mi piace dormire fino a tardi».
Versatilità e prolificità. «Beh, sai: bisogna essere sempre attivi. Dopo tutto nessun cane è mai riuscito a pisciare su una macchina in corsa».
La necessità del caos. «Io ho bisogno di un posto che sia incasinato, così posso osservare il caos: è come un dizionario visivo».
Questa non è musica, è rumore. «La musica è un rumore di lusso. Non è nient’altro che suoni selvaggi che sono stati civilizzati in firme di tempo e melodie. È sicuramente il più costoso di tutti i rumori».
La black music. «L’unica cosa veramente vitale in questo paese, che si evolve costantemente e lavora molto duramente, l’unica vera musica americana è la musica nera americana. È infusa di qualcosa di così importante. Per esempio, mia figlia ascolta il rap ed è una musica che è come i graffiti o le poesie in carcere, è come un mattone che attraversa la finestra. È potente ed essenziale».
La black music #2. «Quello che trovo fantastico del rap è che la maggior parte di questi artisti sono ragazzi che sono stati bocciati in inglese e che hanno a malapena superato la scuola, se non proprio. E usano le parole per vivere. Se fossi un insegnante di inglese mi sentirei bocciato al posto loro».
La disco music. «La disco music è come un brutto raffreddore che non se ne va: la cosa migliore da fare è ignorarla».
Il punk rock. «Il punk rock si basa più sulla posa, sulla politica e sull’atteggiamento, e sull’essere il più iconoclasta possibile. C’era una band, i NOFX, che veniva suonata alla radio e loro erano furiosi. Hanno detto: “Faremo venire qui i nostri avvocati, togliete quel disco dalla programmazione!”. E l’hanno fatto, l’hanno tolto».
L’esperienza come attore. «Devi truccarti in macchina e rimanere sobrio. C’è veramente un gran lavoro da fare per cercare di essere naturali: è come cercare di fermare un proiettile con i denti».
La creazione di immagini. «Ho sempre più coraggio a inserire illusioni ottiche nelle canzoni dato che sono diventato più consapevole delle capacità che la musica ha di creare immagini mentali. Comincio con un input visivo e poi, in qualche modo, ne faccio la colonna sonora. Questo mi dà idee in continuazione».
La creazione di personaggi. «In qualche modo, recitare e lavorare nei film mi ha aiutato in termini di capacità di scrivere, registrare e interpretare diversi personaggi nelle canzoni senza sentirmi compromesso nella mia personalità o altro. Posso essere diverse cose in studio e separarmi dal brano stesso. Prima mi sentivo come se la canzone fosse me e io dovessi essere nella canzone. Sto cercando di allontanarmi da questa sensazione e di lasciare che i pezzi abbiano la loro anatomia, il loro itinerario, i loro abiti».
C’è sempre un bar aperto. «Quando sei in giro per locali, è difficile stare lontano dai bar nel pomeriggio. Hai tempo da ammazzare prima dello spettacolo. Poi si sta in giro per il club tutta la notte e si sta svegli fino all’alba, quindi si frequentano le caffetterie. Smette di essere qualcosa che fai, diventa qualcosa che sei».
Il romanticismo nella bottiglia. «Quando mia moglie ha sentito Town With No Cheer per la prima volta ha detto: “Oh cavolo, devi averla amata molto”. Allora ho detto: “Aspetta un attimo. Questa non è una canzone d’amore. Parla di un ragazzo che non riesce a bere!”».
Smetto quando voglio. «Ora bevo solo quando sono con qualcuno e quando sono da solo [ride; N.d.R.]. No, in realtà sto cercando di smettere di bere, ma ogni volta che smetto mi rende così nervoso che devo bere qualcosa».
Smetto quando voglio, #2. «Oh certo, è inevitabile, sai? Quando inizi, è un uomo che prende un drink. Quando finisci, è un drink che prende un uomo. Mantenere l’equilibrio in quel periodo è stato difficile. A vent’anni pensavo di essere invincibile, di essere fatto di gomma. Si pattina sul filo del rasoio e si flirta sempre con quello. Ora sono sobrio da nove anni: la cosa migliore che abbia mai fatto, a parte sposarmi. È stato difficile smettere? No, la parte difficile è stata prima di smettere. Questa è la parte facile».
Smetto quando voglio, #3. «Quando si beve e ci si droga non si è mai del tutto sicuri se gli spiriti che si muovono in noi sono quelli della bottiglia o i propri. E, a un certo punto, si ha paura della risposta. Questa è una delle cose più grandi che impedisce alle persone di disintossicarsi: hanno paura di scoprire che è stato il liquore a parlare per tutto il tempo».
Smetto quando voglio, #4. «Ho smesso [di fumare, ndr]. Sono come tutti gli altri, ho smesso centinaia di volte. È un compagno e un amico. Alla fine fumi qualsiasi cosa. Prendevo un pacchetto di sigarette, scavavo una buca in giardino, ci pisciavo sopra e le seppellivo. Le tiravo fuori un’ora dopo e le asciugavo nel forno e le fumavo. Ecco quanto ero messo male».
Onde, autobus e lattine. «Su Shore Leave ho cercato di aggiungere alcuni effetti sonori musicali con l’aiuto di un trombone basso per dare la sensazione di un autobus che passa, e di metal aunglong per il suono di lattine al vento, o di riso sulla grancassa per dare l’impressione delle onde che colpiscono la riva. Solo per catturare lo stato d’animo, più che altro, di un marine in marcia: cammina per le strade bagnate di Hong Kong e sente la mancanza della moglie a casa».
Giocattoli. «Ehi, sapete, gli strumenti per bambini: alcuni suonano meglio della roba per adulti. Ho comprato una batteria per 49 dollari ed è stato incredibile il sound che ne abbiamo ricavato. È una batteria giocattolo: grancassa, 2 tom, blocchetti di legno, piatto sizzle ed è il massimo. Ho pensato che fosse semplicemente eccezionale. Avrei pagato di più, ma non l’hanno accettato. Volevano solo 49 dollari. Ho detto: “Lasciate che ve ne dia 100 per questa cosa, così mi sento meglio”».
Mellotron. «Amo moltissimo quel mellotron. Ne ho usato uno proprio ieri. Il suo proprietario lo custodisce a costo della vita perché è un uccello esotico, è un dinosauro completo, e ogni volta che lo si suona diminuisce. Invecchia e alla fine morirà, il che lo rende più umano: stai lavorando con un musicista molto vecchio, gli restano solo un paio di sessioni. Questo aumenta l’emozione».
Conundrum. «È uno strumento costruito per me da un mio vicino di casa che è uno scultore e un saldatore. È solo una croce di ferro con un sacco di metallo che pende da essa. Suona come la porta di una prigione che si chiude dietro di te».
Va bene anche uno sgabello. «Tutto è uno strumento potenziale, dipende da come lo si usa. Ricordo che stavo registrando Swordfishtrombones e qualcuno ha preso uno sgabello – uno sgabello di metallo – e ha cominciato a trascinarlo sul pavimento dello studio per spostarlo. E io ho detto: “È davvero emozionante. Fatelo ancora, abbondantemente, con attenzione e ripetutamente, per favore”. Sembrava il rumore dei freni di un autobus di una grande città».
Le meraviglie della spazzatura. «Mi piacciono le cose che non erano destinate a essere strumenti e che vengono usate come tali. Cose che non sono mai state suonate prima. Quindi sono sempre alla ricerca di queste cose: cose che sono state fuori in un campo da qualche parte, o che si trovano nella spazzatura. Le prendo e le porto a casa».
Andate al cesso. «Se non ti piace il suono della batteria, colpisci il leggio, la sedia o il muro. Oppure metti il microfono in bagno e sbatti la tavoletta del water. Questa è più vecchia della terra, sapete. Se la stanza è giusta, si può ottenere un grande suono da qualsiasi cosa».
La notte. «La notte è musica. Non riuscivo a dormire sulla Ventitreesima a New York, era una jam session di musica da traffico. Puoi sentire una melodia, un’orgia di clacson, vetri infranti: c’è tutta quella sostanza che se ne sta lì a implorare di essere usata ed è lì, a portata di mano».
Il diavolo (e l’acqua santa). «Non sai che non c’è nessun diavolo? È solo Dio quando è ubriaco».
L’aldilà. «Non so cosa ci sia là fuori o lassù. Forse c’è un piccolo ufficio. Come quando ti rimuovono la macchina a New York: devi andare giù al molo 74, e sono le 4 di mattina, e c’è uno schermo di plexiglass. Sarà spesso più di dieci centimetri, con dei fori di proiettile e una vecchia con un paio di occhiali bifocali, seduta davanti a una macchina da scrivere. La puoi vedere: è là la tua macchina, incatenata a centinaia di altre auto. Dev’essere una cosa simile. Dopo che sei morto, voglio dire: la gente pensa che tutto sarà semplice, ma fatemi il piacere… sarà un incubo organizzato.»
La morte. «Questo è il bello dello show business. È l’unico business in cui puoi avere una carriera quando sei morto».
La lapide più bella. «Il mio epitaffio preferito è quello sulla lapide dell’ipocondriaco del paese: “Te l’avevo detto che ero malato!”».
Verità o finzione? «Alla maggior parte delle persone non importa se stai dicendo la verità o se stai raccontando una bugia, purché li diverta. Lo si scopre molto velocemente. Si può dire a qualcuno che si lavorava al circo, o in un mattatoio, o all’ippodromo, o che si guidava un camioncino dei gelati. Non ha molta importanza per nessuno. Tutti vendono la loro storia. Inventata o vera, non fa differenza.»
Viva la tecnologia. «Il mio computer è sul fondo della piscina nel cortile, insieme al mio televisore».
La Grande Mela. «Devi essere un po’ sbalestrato. Se non ti adegui, New York ti spezza, perché è lei stessa a essere sbalestrata. Non è rotonda, è piuttosto un girotondo, e tutte le volte che ti fermi è sempre in un posto diverso. Così se cerchi di procedere per linee rette ti stronca. Ma poi ti imbatti in un tassista rumeno che in auto manda a tutto volume musica rumena. Ha una foto di Malcolm X sul cruscotto, in testa porta un berretto della Budweiser e indossa le scarpe spaiate – una da tennis e una Oxford. E ti parla di un locale del Queens. È pazzesco, è eccitante, ti dà assuefazione… richiede un allenamento speciale».
La Grande Mela, #2 «New York è come un’arma: vivi con tutte queste contraddizioni ed è intensa, a volte insopportabile. È un luogo in cui pensi che dovresti fare di più per quello che vedi intorno a te, un luogo in cui l’urgenza di fare una foto al barbone fuori dal tuo appartamento diventa più importante della sua stessa urgenza di ottenere una crosta o un posto per dormire».
Kathleen Brennan. «Mia moglie è stata fantastica. Ho imparato molto da lei. È irlandese cattolica. Ha tutta la foresta oscura che vive dentro di lei. Mi spinge in zone in cui non andrei, e direi che molte delle cose che sto cercando di fare ora le ha incoraggiate proprio lei».
Kathleen Brennan, #2. «Non ho solo sposato una bella donna, ho sposato una collezione di dischi».
Kathleen Brennan, #3. «Io scrivo soprattutto a partire dal mondo, dalle notizie e da ciò che vedo realmente dal bancone, o che sento. Lei è più impressionista: sogna come Hieronymus Bosch. Quindi insieme è come se uno lava e l’altro asciuga: funziona».
Crescere e invecchiare. «Tutto quello che puoi fare è ascoltare le cose che ti interessano e cercare di trovare un posto per te stesso. Non voglio sembrare troppo serio, ma è come quando si sta insieme a persone per molto tempo e si parla solo di cose che si conoscono. Questa deve essere una cosa molto triste del diventare vecchi: tutti i tuoi amici muoiono e ti ritrovi a parlare con un ragazzo che dice “sì, sì, sì” mentre tu pensi “sì, ma lui non lo sa davvero”».
Scrivere canzoni. «Le canzoni hanno davvero strani effetti sulle persone e – a volte, si sa – possono anche salvarti la vita. Alcune sono come piccole infermiere, altre sono in grado di uccidere, certe muoiono schiacciate sul parabrezza e altre non se ne andrebbero mai via di casa: le colpisci, ma non se ne vanno. Altre ancora invece non vedono l’ora di levare le tende, e non saranno mai scritte. Sono piccole bastarde ingrate. Esiste un solo vero motivo per continuare a scrivere canzoni. È come ha detto Miles Davis: perché sei stanco delle vecchie».
Scrivere canzoni, #2. «I bambini non sanno nulla di musica eppure inventano canzoni e le cantano tutto il giorno. Chi può dire che le mie melodie siano migliori delle loro?».
Scrivere canzoni, #3. «C’è un modo di incorporare la musica nella nostra vita che ha un significato: canzoni per festeggiare, canzoni per insegnare cose ai bambini, canzoni di culto, canzoni per far crescere il giardino, canzoni per tenere lontano il diavolo, canzoni per far innamorare una ragazza di te. I miei figli cantano canzoni inventate da loro che io ascolto e conosco a memoria, e queste canzoni sono diventate parte della nostra vita familiare. Bisogna mantenere viva la musica nella propria vita, altrimenti la musica diventa una cosa isolata, solo una pillola da prendere».
Scrivere canzoni, #4. «Ho sempre amato le canzoni d’avventura, le murder ballads, le canzoni sui naufragi e sui terribili atti di depravazione e di eroismo. Racconti erotici di seduzioni, canzoni di romanticismo, coraggio selvaggio e mistero. Tutti, prima o poi, hanno provato a vivere dentro una canzone. Canzoni in cui si muore per amore. Canzoni di persone in fuga. Canzoni di navi fantasma o di rapine in banca. Io ho sempre voluto vivere dentro le canzoni e non tornare mai più».