Sembra facile curare una collezione di citazioni del signor Zimmerman: dopotutto la letteratura al riguardo (canzoni, interviste, video, film) è pressoché infinita. Ma paradossalmente proprio lì sta il problema: come scegliere le più significative? C’abbiamo provato lo stesso, secondo criteri del tutto soggettivi. Per farci perdonare tanta irriverenza, abbiamo aggiunto in regalo anche una playlist con 50 tracce dentro.
Anno domini 2023 e Bob Dylan – 82 anni compiuti a maggio – va ancora in tour. Se glielo avessero detto quando, ancora fresco ventenne, cominciava a suonare in giro per il Greenwich Village, molto probabilmente non ci avrebbe creduto lui per primo. E invece eccolo qua. Come ci è arrivato, “più o meno” lo si sa, perciò non staremo a ripercorrere tutti i momenti salienti della sua vita e le svolte cruciali di una carriera che lo ha visto passare da cantautore folk di protesta simbolo del movimento per i diritti civili a Giuda Iscariota della tradizione e leggenda del play fuckin’ loud, fino a diventare – suo malgrado – un membro dell’intellighenzia occidentale insignito del premio Nobel.
A tal fine si può trovare ampia letteratura che conta a oggi più di duecento libri e migliaia di articoli pubblicati su quotidiani e riviste, senza dimenticare documentari e film tutt’ora in produzione. Per quanto riguarda questi ultimi, dopo il bellissimo I’m Not There (2007) di Todd Haynes che affidava il ruolo di Dylan a sei attori diversi, è attualmente in lavorazione un biopic più classico, in cui i panni dell’ei fu Robert Allen Zimmerman saranno vestiti dalla nuova star di Hollywood Timothée Chalamet. In merito ai documentari, invece, oltre al classico di D. A. Pennebaker Don’t Look Back (1967) vale la pena recuperare almeno i due di Scorsese, cioè No Direction Home (2005) e Rolling Thunder Revue: A Bob Dylan Story (2019).
All’interno di questo ampio corpus si può trovare davvero tutto e il contrario di tutto: dal misterioso incidente in moto all’altrettanto misteriosa conversione cristiana, passando lungo la crisi degli anni ‘80 – e del “cos’è questa merda?” di Greil Marcus – per giungere alla “rinascita” degli anni Novanta e ai numerosi riconoscimenti più recenti, tra Oscar, Pulitzer, Nobel e onorificenze pubbliche varie.
L’unico problema è che se si vuole veramente capire Bob Dylan, alla fine ci si ritrova sempre con un pugno di mosche perché Dylan è ontologicamente imprendibile: nell’esatto momento in cui ti sembra di averlo afferrato lui è già da un’altra parte (he’s not there, appunto). Qualunque tentativo di inquadrarlo o definirlo è destinato miseramente a fallire, poiché, come ha dichiarato lui stesso nel suo ultimo album citando esplicitamente Walt Whitman, si contraddice, è vasto, contiene moltitudini.
In altre parole meno nobili, la storia di Bob Dylan è lastricata di cazzate o – se preferite – di bugie, leggende, mezze verità. La maggior parte delle quali sono state messe in circolazione proprio dal diretto interessato in quella che a tutti gli effetti rappresenta un’opera di autocostruzione del mito – i più trendy diranno myth-making – che risale alla tradizione dei primi cantanti blues. Ad esempio, la sua giovane vita da vagabondo insieme ai giostrai itineranti non è mai esistita, ciò nonostante a inizio carriera era una delle sue storie preferite da raccontare.
Per questo motivo, qui di seguito abbiamo provato a raccogliere alcune sue storie in un elenco di 50 citazioni, a volte un po’ criptiche o poetiche, altre ben più concrete o volutamente provocatorie, ma in ogni caso sempre e comunque memorabili. Pur consapevoli dell’impossibilità di racchiudere in esse tutta la grandezza dylaniana, speriamo che possano essere d’aiuto se non proprio a comprenderne il mito, quanto meno ad alimentarne una fiamma che brucia da tempo immemore. Perché, come ha scritto Alessandro Carrera, «non sono 60 anni che Dylan canta. Sono secoli».
Prima di iniziare, ci concediamo un’avvertenza cortesia di Eddy Cilìa:
Dylan non è solo una maschera, ma anche uno specchio. Lo guardi e ci scorgi un pezzo del tuo universo differente da quello che ci vede chiunque altro.
La ricchezza. «Voglio solo continuare a cantare e a scrivere canzoni. Non mi interessa fare un milione di dollari. Cosa farei se avessi un sacco di soldi? Mi comprerei un paio di motociclette, qualche condizionatore e quattro o cinque divani».
Il denaro e la vita. «Non mi è mai interessato molto il denaro. Non l’ho mai considerato davvero importante. Potevo sempre suonare la chitarra, sai, e farmi degli amici. O almeno dei finti amici. C’è un sacco di gente che fa altre cose e riesce a trovare da mangiare e da dormire così. Un sacco di gente che fa cose solo per tirare avanti. Poi ci sono quelli che si spaventano, no? Che si sposano e si sistemano. Ma quando poi hanno tutto organizzato per bene, così da non dover dormire fuori al freddo la notte, è finita lì».
Le lettere ai fan. «Non ho tempo di leggerle tutte, ma voglio che tu scriva che rispondo alla metà di quelle che ricevo. In realtà non è vero. C’è una ragazza che lo fa per me».
Gli incontri ravvicinati. «La gente dice: “Sei chi penso che tu sia?” e tu rispondi: “Non lo so”. E loro: “Sì, sei proprio lui”. E tu: “Ok, sì, sono io”. Ma il commento successivo sarà: “Ma no!”, della serie: “Sei davvero lui? Non puoi essere lui”. La cosa può andare avanti così in eterno».
Grammy alla carriera. «L’unica cosa che ricordo di quell’episodio, visto che l’hai nominato, era che avevo la febbre, febbre a quaranta. Stavo malissimo quella sera. In più, ero profondamente disilluso dall’intero ambiente musicale e dalla gente che lo popolava. Se ben ricordo, quelli del Grammy mi contattarono mesi prima, dicendo che volevano conferirmi questo premio alla carriera. E sappiamo tutti che quelli sono premi che si ricevono da vecchi, quando non si è più niente, delle star ormai decadute. Giusto? Perciò non ero sicuro se prenderlo come un complimento o come un insulto».
Poeta? «Ognuno di noi ha una sua idea a proposito dei poeti. La parola in sé non significa molto di più che la parola “casa”. Tu chiameresti poeti tutti quelli che scrivono poesie? C’è un certo tipo di ritmo che in un certo senso è visibile. Non è necessario scrivere per essere dei poeti. Ci sono addetti ai distributori di benzina che sono dei poeti. Io non mi definisco un poeta perché non mi piace il termine. Preferisco considerarmi un trapezista».
Ricordati che devi morire. «Il mondo non ha bisogno di me. Gesù, sono solo 1.78 m [qualche centimetro in meno, in realtà – N.d.R.]. Il mondo potrebbe andare avanti benissimo anche senza di me. Non lo sai che tutti dobbiamo morire? Non importa quanto si è importanti. Pensa a Shakespeare, Napoleone, Edgar Allan Poe, per esempio. Sono tutti morti, no?».
Come si diventa un mito del rock and roll? «A me è successo fondamentalmente per disattenzione. Ho perso il mio unico vero amore. Ho cominciato a bere. D’un tratto mi sono ritrovato a giocare a carte. Poi mi sono ritrovato nella merda. Mi sono svegliato in una sala da biliardo. Un corpulento donnone messicano mi stava trascinando via dal tavolo per portarmi a Filadelfia. Mi lascia da solo in casa sua e la casa brucia. Finisco a Phoenix. Trovo un impiego come cinese. Comincio a lavorare in un negozio da quattro soldi e vado a vivere con una tredicenne. Poi arriva il donnone messicano di Filadelfia e mi brucia la casa. Mi trasferisco a Dallas. Ottengo un lavoro come figura per il “prima” negli annunci “prima e dopo” di Charles Atlas. Vado a vivere con un ragazzo delle consegne che cucina chili e hot dog favolosi. Poi arriva la tredicenne di Phoenix e mi brucia la casa. Il ragazzo delle consegne non è altrettanto gentile e le fa assaggiare il coltello. In un batter d’occhio mi ritrovo a Omaha. Da quelle parti fa così freddo che rubo biciclette e mi friggo il pesce da solo. Ho un colpo di fortuna e ottengo un lavoro come carburatore nelle gare di auto sportive del giovedì sera. Vado a vivere con un insegnante delle superiori che arrotonda facendo l’idraulico e che non è granché da vedere, ma ha costruito uno speciale frigorifero capace di trasformare la carta di giornale in soldoni. Tutto va per il meglio finché non arriva il ragazzo delle consegne che cerca di accoltellarmi. Ovviamente mi brucia la casa e io mi ritrovo per strada. Il primo che mi ha dato un passaggio mi ha chiesto se volevo diventare una star. Che potevo dirgli?».
Profeta? No, grazie. «Non ho mai voluto essere un poeta o un salvatore. Elvis, forse. Potevo immaginarmi di diventare lui. Ma un profeta, no».
Magari un matematico. «Sono una sorta di cantante matematico. Uso le parole come altri usano i numeri. Non penso di potermi definire meglio».
Segni zodiacali. «Sono un Gemelli, che la dice lunga. Vivo sempre agli estremi. Non riesco mai a trovare un equilibrio. Oscillo da una parte all’altra, senza vie di mezzo. Sono felice e poi triste, su e giù, dentro e fuori, sopra e sotto. Su fino al cielo e giù nelle profondità della terra».
Come Niccolò Fabi? «Le altre cose in cui credo sono logiche. La lunghezza dei capelli: meno capelli in testa, più capelli dentro la testa e viceversa. Taglio a spazzola uguale tutti i capelli ammassati intorno al cervello. Mi lascio crescere i capelli per essere più saggio e libero di pensare».
Il destino. «È la sensazione di sapere qualcosa di se stessi che nessun altro sa: che l’immagine di quello che si vuole fare che si ha nella propria testa diventerà realtà. È una cosa che è meglio non condividere con altri, perché è una percezione fragile e, se la si sbandiera pubblicamente, qualcuno finirà per annientarla. Perciò è meglio tenersela dentro».
Boomer prima di te. «Non sento alcun obbligo di stare al passo con i tempi. Non starò qui a lungo, in ogni caso. Supponiamo che mi metta al passo con questi tempi, poi mi toccherebbe mettermi al passo con gli anni Novanta. Gesù, e chi ce la fa a stare al passo con tutti questi tempi?».
Duluth. «Non esiste un altro posto come Duluth. Non è una destinazione turistica, ma forse dovrebbe esserlo. Dipende dalla stagione, però. Ce ne sono solo due: umido e freddo. Mi piace come le colline sembrano rotolare fin dentro il lago e come il vento soffia attorno ai silos del grano. Anche gli scali ferroviari paiono non finire mai. È tutta architettura industriale vecchio stile, ecco cos’è. Dalla cima della collina, la si vede per chilometri e chilometri, prima di arrivarci. Roba da non credere ai propri occhi. Se riesci a uscirne vivo ti danno una medaglia».
Quell’enorme casa in California. «Avevo comprato quella casa con un acro di terra vicino a Malibu. Mia moglie l’ha guardata e ha detto: “Non è male, ma serve un’altra stanza”. Abbiamo fatto venire degli architetti che subito hanno cominciato: “Ah, sì, Bob Dylan, certo. Faremo qualcosa di davvero spettacolare qui”. Un giorno sono andato a vedere come procedevano i lavori e avevano abbattuto l’intero edificio! Gli ho chiesto: “Dov’è finita la casa?” e hanno detto che avevano dovuto demolirla per rifare l’intera struttura in modo da aggiungere una stanza al piano di sopra. Una cosa tira l’altra, per cui mi sono detto: a questo punto aggiungiamocene più di una. Poi sono arrivati gli artigiani. Chiedevamo: “Ehi, hai voglia di lavorare a questo posto?”. E loro si occupavano del legno, delle piastrelle e cose del genere. Insomma, alla fine l’hanno costruita. Ma poi hanno chiuso la scuola della zona, per cui i ragazzi se ne sono andati e se ne è andata anche Sara. E io mi sono ritrovato con questo posto gigante. Alla fine, non ho neanche mai fatto mettere niente sul pavimento del salotto. È solo cemento».
Frank Sinatra. «Era un tipo buffo. Una sera ce ne stavamo fuori, sulla sua veranda, quando mi fa: “Io e te, amico, abbiamo gli occhi azzurri, veniamo da lassù”, indicando le stelle. “Questi altri pezzenti sono di quaggiù”. Ricordo di aver pensato che forse aveva ragione».
Elvis. «Non ho mai incontrato Elvis perché non ho voluto. Era il periodo dei suoi film degli anni Sessanta, quando continuava a girarne e sfornarne uno dopo l’altro. In quel periodo era caduto un po’ in disgrazia. Non tornò in auge fino a, cosa sarà stato, il 1968? So che i Beatles sono stati a trovarlo e che lui non ha fatto altro che prenderli in giro. Lo so perché George [Harrison] mi ha descritto la scena. E anche Derek [Taylor], uno di quelli che lavoravano per lui. Elvis era un vero re americano. La sua faccia è addirittura sulla Statua della Libertà. E come ho detto, insomma, non voglio dire che fosse caduto in ridicolo, ma quasi. Vedi, ormai era fuori dalla scena musicale e nessuno comprava più i suoi dischi. Nessuno tra i giovani voleva ascoltarlo o essere come lui. Per quanto ne so, nessuno è neppure andato a vedere i suoi film. Non ci pensava più nessuno. Per due o tre volte, quando eravamo a Hollywood, ha mandato gente della mafia di Memphis a prenderci per portarci da lui. Ma non è andato nessuno. Sarebbe stato pietoso. Non so se avrei voluto vedere Elvis in quelle condizioni. Volevo vedere l’Elvis potente, quasi mistico, che era precipitato da una stella cadente sul suolo americano. L’Elvis che sprizzava vitalità. L’Elvis che ci aveva ispirato, facendoci credere nelle mille possibilità della vita. Ma quell’Elvis non c’era più, se ne era andato».
Allen Ginsberg. «Mi piace Ginsberg perché ha inventato una lingua tutta sua. E perché l’ha messa su carta (cosa che nessuno aveva fatto prima). Indubbiamente, esiste una lingua ginsberghiana. Credo che nessuno la usi perché non è mai stata davvero capita. Ma è una lingua potente, sicura. Una lingua di jukebox all’idrogeno, fattorie isolate e notti da nonno. Il modo in cui combina le parole tra loro. Il modo in cui usa il lessico inglese, parole affilate che sembrano traspirare mentre le leggi».
Jack Kerouac. «Sulla strada va veloce come un treno merci. È movimento, parole e forti istinti che prendono vita, come in un viaggio in treno. Kerouac si muove così rapidamente con le parole. Senza alcuna ambiguità. Uno stile davvero emblematico del suo tempo. Bastava attaccarsi al treno, saltar su e lasciarsi trasportare, aggrappandosi con tutte le proprie forze. Penso sia quello ad avermi colpito, più che i temi di cui scriveva. È stato il suo stile di scrittura ad avere su di noi un’influenza tanto potente. Ho provato a leggere altri suoi libri, in seguito, ma non ho mai più percepito quel movimento».
Blind Willie McTell. «Era un cantante blues che non perdeva un colpo. I suoi pezzi mi hanno sempre fatto pensare ai treni, ma è perché sono una mia ossessione, i treni. E il suo stile canoro, il suo sound, sembravano adattarsi alla perfezione a quelle sonorità solitarie. Quella sua specie di ragtime su una chitarra a dodici corde faceva sembrare tutto… gli dava un tono più alto. Credo si possa dire che era il Van Gogh del country blues».
Mick Jagger vs Ray Charles. «Adoro Mick Jagger. Insomma, ci conosciamo da tanto tempo e gli auguro tutto il meglio. Ma vederlo saltare da una parte all’altra come fa lui – chissenefrega a che età, da Altamont allo stadio RFK – non serve a niente, amico. È comunque più figo essere Ray Charles, che se ne sta al piano senza andare da nessuna parte eppure riesce a comunicare. Trasmette ritmo, trasmette anima. Niente a che vedere con il saltare in giro. Perché mai dovrebbe? Lo show business proprio non lo capisco. Io non vado a vedere uno che salta di qua e di là».
Umm Kulthum. «Le parole devono esserci, certo. Ma… sapete, c’era questa cantante egiziana, Umm Kulthum. Ne avete sentito parlare? È una delle mie cantanti preferite di sempre, anche se non capisco una parola di quello che dice! Canta una canzone, a volte anche per quaranta minuti, e ripete la stessa frase mille volte, ma in modo diverso ogni volta. Non credo ci siano cantanti occidentali in grado di fare lo stesso… a parte me, forse! Ma su un altro livello, capite che intendo?».
Il folk rock. «Non credo neanche di averlo mai detto ad alta voce. Ha un suono duro, gutturale. Un’aria ridicola, quasi di scherno. Sembra un modo di sminuire quello che è realmente, cioè musica straordinaria, meravigliosa».
Folk vs folk rock. «Per quanto riguarda la questione folk e folk rock, non importa quali stupidi nomi si inventa la gente per la musica. Potrebbe chiamarsi musica arsenica o persino musica Fedra. Non credo che un termine come “folk rock” abbia niente a che vedere con quello che è realmente. E “musica folk” è un’espressione che non posso usare. La musica folk è un mucchio di grassoni. Ho bisogno di pensare a tutto questo come a musica tradizionale. La musica tradizionale è basata sugli esagrammi. Viene dalle leggende, dalla Bibbia, dalle pestilenze e parla di verdure e di morte. Nessuno può uccidere la musica tradizionale».
Il blues. «Quello che ha reso i veri cantanti blues davvero grandi è stata la loro capacità di presentare i loro problemi, ma allo stesso tempo di chiamarsene fuori, di poterli guardare dall’esterno. Così facendo, riuscivano a superarli. La cosa deprimente, oggi, è che molti giovani cantanti cercano di andare a fondo nel blues, dimenticandosi che chi li ha preceduti lo usava per risalire a galla».
Il rock’n’roll. «Per me non esiste un vero e proprio rock’n’roll. E, se ci pensi, tutto ciò che in realtà non esiste è destinato a diventare un fenomeno internazionale. Ma poi cosa vuol dire “rock and roll”? Vuol dire i Beatles o John Lee Hooker, Bobby Vinton, il figlio di Jerry Lewis? E invece Lawrence Welk? Anche lui dovrà pur suonare qualche pezzo rock and roll. Mi stai dicendo che sono tutti uguali? Che Ricky Nelson è come Otis Redding? Mick Jagger come Ma Rainey? Comunque, la definizione giusta non è “fenomeno internazionale”, ma “incubo genitoriale”».
Quadri e musei. «I quadri famosi non dovrebbero stare nei musei. Sei mai stata in un museo? I musei sono dei cimiteri. I quadri dovrebbero stare sulle pareti dei ristoranti, nei negozi da pochi dollari, nelle stazioni di servizio, nei bagni degli uomini. I quadri famosi dovrebbero stare dove stanno le persone. Invece succede solo con la radio e i dischi: è lì che si concentra la gente. Vedere un quadro famoso è quasi impossibile. Paghi mezzo milione per appendertene uno in casa e farlo vedere agli ospiti. Quella non è arte. È una vergogna, un crimine. La musica è l’unica cosa davvero in linea con quello che succede. Non è un libro, non è su un palco. Tutta quest’arte di cui si fa tanto parlare in realtà non esiste. Rimane sugli scaffali. Non rende nessuno più felice. Pensa solo a come si sentirebbero le persone se potessero vedere un Picasso nella loro tavola calda preferita. Non è la bomba che deve sparire, sai: sono i musei».
L’arte nei bagni. «L’arte, se davvero esiste qualcosa che sia degno di questo nome, è nei bagni: lo sanno tutti. Andare a una di quelle mostre dove danno latte e ciambelle gratis e c’è una band rock che suona è solo questione di status. Sia chiaro, non ho intenzione di essere denigratorio, è solo che passo un sacco di tempo in bagno».
I poeti. «I poeti non guidano auto. I poeti non vanno al supermercato. I poeti non buttano la spazzatura. I poeti non fanno parte delle associazioni genitori-insegnanti. I poeti, sai, non vanno a fare picchetti fuori dal Better Housing Bureau e cose del genere. I poeti non parlano nemmeno al telefono. I poeti non scambiano mai una parola con nessuno. I poeti ascoltano tantissimo e… in genere sanno perché sono poeti! Sì, ci sono… come si può dire? Il mondo non ha bisogno di altri poeti, ha già Shakespeare. C’è già abbastanza di tutto. Nomina quello che vuoi, ce n’è già abbastanza. Si è anche esagerato con l’elettricità, forse, da quello che dicono. Qualcuno ha detto che le lampadine sono state un’esagerazione. I poeti hanno dei terreni. Si comportano da galantuomini. E seguono il loro codice da galantuomini. E muoiono senza un soldo. O affogano nei laghi. I poeti in genere finiscono molto male».
Renaldo e Clara, il suo unico film. «È tutto sul subconscio contro l’alter ego. Qualcosa che vorrebbe diventare qualcos’altro. Non sappiamo se sia possibile o se alla fine ci riesca. Il film non fornisce una risposta. Ma niente dà mai delle risposte… Guerra e pace non fornisce risposte».
Scrivere canzoni. «Le canzoni sono già lì, prima che arrivi. È come se io mi limitassi a prenderle e annotarle con una matita, ma sono già lì prima che io arrivi. Non saprei come altro dirlo».
Rubare canzoni. «Emmett Till. Ah, la melodia l’ho rubata a Len Chandler. Un tipo simpatico, Un cantante folk. Quando suona usa un sacco di accordi strani e cerca sempre di convincermi a usarli anche io, è sempre lì che prova a insegnarmeli. Un giorno mi ha suonato questa e mi ha chiesto: “Non sono male questi accordi, no?”. Io gli ho risposto: “Decisamente no” e gli ho rubato tutto il pezzo».
Canzoni d’amore. «Io non ho intenzione di lasciare che l’amore influenzi le mie canzoni. Non più di quanto non abbia influenzato quelle di Chuck Berry, Woody Guthrie o Hank Williams. Quelle di Hank Williams non sono canzoni d’amore. Definirle canzoni d’amore è un disonore. Sono brani da Albero della Vita. Non c’è amore sull’Albero della Vita. L’amore è sull’Albero della Conoscenza, sull’Albero del Bene e del Male. Insomma, nella musica popolare ci sono un sacco di canzoni sull’amore. Ma chi ne ha bisogno? Tu no, io nemmeno».
Canzoni sul niente e sul nulla. «Le mie vecchie canzoni, per essere generosi, non parlavano di niente. Le più nuove parlano dello stesso niente, ma come se fosse qualcosa di più grande, chiamato magari il Nulla».
Musica matematica. «Lonnie [Johnson, cantante blues e jazz] si stava esibendo a Folk City e io l’ho trovato fantastico. Suonava meglio di chiunque altro e cantava meravigliosamente. Una sera mi fece vedere qualcosa alla chitarra che all’epoca non aveva alcun senso per me: un modo di suonare matematicamente diverso da qualsiasi altro. Uno dei tanti modi in cui lui era in grado di usare uno strumento. Poteva suonare in maniera molto intricata, se voleva. Ma mi mostrò questa formula matematica che funzionava in ogni punto della scala. All’epoca non significò nulla per me, per cui non arrivai a svilupparla, se non molti, molti anni più tardi. Quella è forse l’unica cosa profonda che qualcuno mi abbia mai insegnato alla chitarra e che io sia poi riuscito a riprendere nelle mie canzoni».
Musica registrata male e Napster. «A tutti noi piacciono i dischi che si ascoltano sul grammofono, ma siamo sinceri, quei giorni ormai sono an-da-ti. Si fa quel che si può, si cerca di frenare la tecnologia in ogni modo possibile, ma non conosco nessuno che sia riuscito a registrare un album con un sound decente negli ultimi vent’anni, sul serio. I dischi moderni, quando li ascolti, sono terrificanti, col suono spalmato dappertutto. Non c’è definizione, nemmeno nella parte vocale, nulla, tutto è… statico. Anche i miei pezzi probabilmente erano dieci volte meglio in studio, quando li abbiamo registrati. I CD sono insignificanti, privi di qualunque levatura. Ricordo quando quel tizio di Napster se ne è uscito dicendo: “Tutti potranno ascoltare musica gratis” e io ho pensato “E perché no? Tanto non vale niente comunque”».
Collaborare con Daniel Lanois. «Lanois si esalta facilmente per le cose in cui crede. Arriva persino a fracassare chitarre. A me non è mai importato, sempre che non fosse una delle mie».
Dylan produce Dylan (sotto lo pseudonimo di Jack Frost). «È meglio che mi occupi io della produzione. Si risparmia un sacco di tempo. Un sacco di discorsi. Un sacco di comunicazioni, hai presente? È più facile se lo faccio io. Se sono io a mettere in pratica le mie idee, invece di farlo fare ad altri. In fondo, conosco il mio stile musicale meglio di chiunque altro».
I concerti nelle grandi arene. «Non sopporto suonare nelle arene, ma lo faccio lo stesso. Però so che non è lì che la musica dovrebbe stare. Non dovrebbe essere ascoltata in uno stadio calcistico, non è: “Ehi, come andiamo stasera, Cleveland?”. A nessuno gliene frega niente di come va a Cleveland, stasera».
Il Neverending Tour. «I critici dovrebbero sapere che niente è per sempre, perciò ricorrere a un’espressione come quella dice più su chi la usa, neanche fosse chissà che di importante. Non si è mai sentito di Oral Roberts e Billy Graham che iniziavano un giro di prediche senza fine. Qualcuno ha mai chiamato Henry Ford un produttore di auto senza fine? Rupert Murdoch è forse un magnate dei media senza fine? E Donald Trump? Qualcuno dice mai che ha come missione costruire edifici senza fine?».
Canzoni irriconoscibili. «Molte delle mie canzoni ormai sono state riarrangiate al punto che io per primo ne ho perso il filo. La struttura resta quella, almeno fino a un certo punto. Ma le dinamiche della canzone possono cambiare da una sera all’altra, a causa delle procedure matematiche che usiamo per determinarle. Per quanto ne so, non c’è nessun altro che suoni così».
Interpretare le canzoni. «Ho sentito dire che “Dylan non è mai stato sincero come quando ha scritto Blood on the Tracks”, ma in realtà non si tratta tanto di sincerità, quanto di percezione. O quando dicono che Sara è stata scritta “per la moglie Sara”, non è detto che sia così solo perché il nome di mia moglie era Sara. E poi, era la vera Sara o la Sara del sogno? Ancora oggi non ne sono sicuro».
Abbasso le cover! «La parola “cover” ormai si è fatta strada nel gergo musicale. Negli anni Cinquanta o Sessanta nessuno avrebbe capito a cosa ci si riferiva. È un po’ sminuente, come termine. In fondo cosa vuol dire “coprire” qualcosa? Significa nasconderlo. Non ho mai capito perché si dica così. Le mie dovrebbero essere solo un mucchio di cover? Sarà, se lo dici tu».
Scrivere canzoni #2. «Ci sono così tanti modi per affrontare un argomento in una canzone. Uno è dar vita a oggetti inanimati. Johnny Cash è molto bravo in questo. C’è un suo verso che fa: “A freighter said / She’s been here, but she’s gone, boy / She’s gone”. È geniale: “Un mercantile dice: lei era qui, [ma se ne è andata, ragazzo, è andata]”. Quella sì che è arte. Fare una cosa del genere, in una canzone, la ribalta completamente».
Scrivere canzoni vs scrivere libri. «Sono abituato a scrivere canzoni, e le canzoni… non le si può riempire di simbolismi e metafore. Quando si scrive un libro come questo [la sua autobiografia Chronicles: Volume 1] bisogna dire la verità, senza lasciare spazio ad altre interpretazioni. Non dimentichiamo che mentre si scrive non si vive. Come lo chiamano? Splendido isolamento. Io non lo trovo poi così splendido».
Tangled Up in Blue e If You See Her, Say Hello (da Blood on the Tracks). «È come se fossero dei quadri, quelle canzoni, o almeno sembravano esserlo, o sembrava che ci provassero, che volessero esserlo. Ma sono canzoni, quindi devono pur essere qualcosa, no? È difficile da spiegare, ma sono come un pittore avrebbe dipinto una canzone per comporla, più che come un cantautore l’avrebbe scritta per scriverla. Ogni pezzo porta con sé una serie di nuove intuizioni. Dipingere è fantastico. Vedere qualcosa, riuscire a vederlo con gli occhi, imprimerselo nella mente e poi trasmetterlo alle mani per poterlo trasferire da un punto all’altro e poi goderne».
Mr. Jones (Ballad of a Thin Man). «È una persona reale. L’ho visto entrare in una stanza, una sera, e mi ha fatto pensare a un cammello. Dopodiché si è messo gli occhi in tasca. Ho chiesto a un tizio chi fosse e mi ha risposto: “Quello è Mr. Jones”. Allora gli ho chiesto: “E non fa altro che mettersi gli occhi in tasca?”. E lui mi ha risposto: “Mette il naso per terra”. C’è dentro tutto, è una storia vera».
London Calling, i Clash. «Il punk rock è la musica della rabbia e della frustrazione, ma i Clash sono diversi. La loro è la musica della disperazione. Erano un gruppo disperato. Dovevano rischiare il tutto per tutto. E avevano pochissimo tempo. Molte delle loro canzoni sono eccessive, prolisse, stracolme di buone intenzioni. Ma questa no. Questa probabilmente rappresenta i Clash al loro meglio e dove il loro messaggio è più significativo e più tormentato. I Clash sono sempre stati il gruppo che si immaginavano di essere. London Calling: un testo teatrale con lo stesso titolo è stato rappresentato a Londra nel 1923, un musical fatto di scenette sdolcinate. Ma quell’espressione non è mai morta. Negli anni Quaranta, “London calling” poteva prendere solo un significato sinistro. Londra chiama, mandate cibo, vestiti, aeroplani, tutto quello che potete. Ma d’altra parte quella chiamata era immediata, soprattutto per gli americani. Non sarebbe lo stesso se fosse “Roma chiama” o “Parigi chiama” o “Copenaghen chiama” o Buenos Aires, Sydney o anche Mosca. Sono tutte chiamate che si possono trasferire a qualcuno che dice: “Prendo nota, richiameremo”. Ma non se chiama Londra».
Volare e Domenico Modugno. «Volare troppo in alto è pericoloso, una mossa sbagliata conduce a un’altra, e la successiva di solito è peggiore di quella precedente. Giurare fedeltà troppo presto può condurre al disastro, ma una volta che si va, si va. Questa è una canzone che si avvicina, sfreccia, continua per la sua strada, procede a piena velocità, si schianta nel sole, rimbalza sulle stelle, esala in una nuvola di fumo come un sogno impossibile e va a esplodere dritta nel Paese delle Meraviglie. È singolare e sta sospesa a mezz’aria. Ti sei fatto un’idea, è Utopia, ed è dipinta di blu. Pittura a olio, cosmetici e cerone, affreschi con il blu stampato sopra, e tu che canti come un canarino. Vedi tutto rosa, cammini sul vento, e allo spazio non c’è fine. Sei come i gemelli Bobbsey, due menti che pensano in una, e la cosa è fantastica e meravigliosa. Ti senti eccitato, non ti sei mai divertito tanto, è come se ognuno avesse ricevuto una scarica di energia, dai, viviamocela almeno un po’. Un solo saltello e saremo al settimo cielo. Sei lì che sfrecci via, manovri e improvvisi come un aviatore, nello specchio dei tuoi desideri e con addosso un senso di meraviglia. In volo, passi attraverso il velo, leggero come una piuma, indugiando un poco su rigonfiamenti vaporosi, via dalla pazza folla, dagli esperti, dai giudici e dalle conventicole, tutte quelle organizzazioni, tutto quello che vuole aggrapparsi ai tuoi piedi e riportarti giù a terra. Sali sempre più in alto intorno al globo, attraverso il labirinto. Non c’è da stupirsi che il tuo cuore felice voglia cantare melodie in tutte le tonalità e in ogni vibrazione dei sensi. Ragtime, bebop, opere e sinfonie. Il suono dei violini ti ronza nella testa ed è tutto intonato al tuo sé mercuriale. Fai acrobazie aeree tra le dimensioni, sei sull’orlo dell’universo, nelle luci scintillanti del gran millennio, e l’unica direzione è verso l’alto. Sei abbastanza sicuro di essere diventato una specie di mutazione biologica, non sei più un semplice mortale. Potresti fare a pezzi il tuo corpo e spargere ovunque i brandelli, dare un colpo d’ala, salire più in alto e fuori da ogni controllo, dove tutto diventa una macchia sfocata, niente lassù che non sia la tua immaginazione. Svolazzi, veleggi, non c’è niente che non puoi scoprire, anche le cose più nascoste. Più a fondo vai, più riesci a capire. Cerchi di parlare a te stesso, ma dopo le prime, poche parole la conversazione è finita. Passi rombando come una cometa, sei in fuga verso le stelle. Sarai magari pazzo, ma non sei un imbecille».