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A volte è necessario approfondire. Per capire da dove arriva la musica di oggi, e ipotizzare dove andrà. Per scoprire classici lasciati indietro, per vedere cosa c’è dietro fenomeni popolarissimi o che nessuno ha mai calcolato più di tanto. Queste sono le storie di HVSR.

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Bill Fay, l'amico ritrovato

Canzoni da una stanza interiore.

Da visioni di un’apocalisse già tra noi a un ottimismo da moderno umanista, il tragitto di Bill Fay è stato lungo e tortuoso. Con un meritatissimo lieto fine, però, nel quale un amico che credevamo perduto torna a bussare alla nostra porta. 

Rami infiniti

Con una preveggenza da brividi, in parole tratte dal suo album di debutto che ci ricordano tanto la saggezza di Daniel Johnston, l’oggetto di questo articolo esorta l’ascoltatore a non lasciarsi andare e, senza saperlo, sta annunciando un destino che lo attende.

Non essere così nervoso / non essere così fragile / qualcuno veglia su di te / tu non fallirai.

Ma se in copertina sembra camminare sulle acque, non è un Chance il giardiniere in anticipo e men che meno un fricchettone convinto di essere Gesù. È un uomo che nel 1970 scrive canzoni in una stanza, distante dal mondo quel che basta per raccontarlo – e raccontarci – con empatia, lirismo e accuratezza.  

Ogni tanto la musica che amiamo presenta figure che modellano la malasorte. Bill Fay è una di queste: artista per il quale il termine superculto pare cucito su misura, è rimasto patrimonio di pochi fino al cambio di secolo, quando le ristampe dei suoi lavori e ammiratori divenuti valenti discepoli (David Tibet, Jim O’Rourke, Marc Almond, Jeff Tweedy) hanno portato una notorietà relativamente più ampia. Quel che davvero conta è che finalmente ci sia stata data l’opportunità di constatare il valore di un folk rock moderno persino nel nuovo millennio, durante il quale Bill ha registrato altri dischi in perfetto stile “ritorno al futuro”.

Più di cinquant'anni fa.

Tutta di elevato profilo la sua produzione, benché smilza per una lunghissima assenza dalle scene causata dall’annullamento del contratto discografico. Licenziato nei primi anni Settanta, Fay mollava lo show business sgobbando in un supermercato e facendo il giardiniere, tuttavia non smetteva di scrivere, suonare, accantonare brani e idee. Ha tenuto duro come poteva finché ci si è accorti dell’esistenza di chi – ottanta candeline il prossimo dicembre –, in maniera simile a Roy Harper e Michael Chapman, ha trasformato il folk con intelligenza, gusto progressivo per la contaminazione e un’abilità rara nel trattare i massimi sistemi.

Per questo motivo, canzoni in teoria opprimenti si aprono su bagliori di speranza che aiutano a distinguere l’alba dal tramonto. Perché l’eccentricità, qui, ha una causa e quella causa è l’amore per la gente: a nostro beneficio, questo individuo affronta dubbi, pone domande, si stupisce davanti alla bellezza della natura e agli orrori compiuti dagli umani. Rifiutando le convenzioni, suggerisce con partecipata oggettività che il senso ultimo della vita sta nel non cedere. Mai.  

Può sembrare difficile, la musica di Bill Fay. Pensate però alla perla, che nasce nel momento in cui un elemento esterno si introduce nell’ostrica e questa si difende accumulando una sostanza organica. Tutto comincia da una reazione spontanea alle avversità e serve tempo affinché il gioiello prenda forma, ma quando lo trovi è da custodire con la massima cura. Può sembrare difficile, la musica di Bill Fay, ma ve ne innamorerete perdutamente.

Più di cinquant'anni dopo: camminare sulle acque è un po' come andare in bicicletta, non ti dimentichi mai come si fa.

Canzoni da un giardino

Da cantautore “in potenza”, la scintilla arriva da sola. L’importante è assorbire il vissuto, la storia, gli ascolti, le letture e la realtà, poi qualcosa spariglia e ricompone le carte ed ecco canzoni che, come ingranaggi di un congegno più ampio, si accomodano in un retaggio per modificarlo, da riflessioni interiori che a un certo punto si svelano a chi è sulla giusta lunghezza d’onda.

Potresti riassumerla così la storia di Bill Fay, che in quel di Londra ama suonare il pianoforte e, tra il 1962 e 1965, trova consolazione a un’esperienza universitaria frustrante con lunghe, solitarie immersioni nei paesaggi del Galles. Non uno fatto per questi tempi, direbbe Brian Wilson: con tutto ciò, invece di fuggire in paradisi artificiali o in arcadie della mente, l’umanista catapultato nel Novecento impasta spiritualità, ritratti della nostra epoca e un’incrollabile fiducia nel cambiamento.

Grazie a Terry Noon un demo giunge alla Decca, dove ritengono che quell’eccentrico abbia delle potenzialità e nel ‘67 il singolo Some Good Advice / Screams in the Ears gioca con stralunati dylanismi e pop dai decadenti stridori. Ciò nonostante l’LP si fa desiderare un altro triennio, trascorso tra provini con gli Honeybus e i tentennamenti di un’etichetta che infine sistema Bill presso la filiale underground Nova.

Meglio di nulla…

Supervisionato da Peter Eden, il 33 giri omonimo porge composizioni registrate in un giorno, affiancate da un’orchestra sontuosa e nondimeno misurata che ne colora e contrappunta la matrice pianistica: la sintassi di Scott Walker trasfigura Nick Drake, Bob Dylan e Leonard Cohen in esiti pregevoli (The Sun Is Bored, We Want You to Stay, Methane River, Down to the Bridge) e addirittura ottimi (Garden Song, Narrow Way, The Room, Be Not So Fearful). Lunga la gavetta, il primo passo è sicuro.

Apocalisse contemporanea

Nonostante il favore della stampa, le radio ignorano materiale che la Nova non sa come promuovere. Ne derivano vendite esigue e tuttavia ai piani alti ci vogliono riprovare. Nel frattempo Fay ha colto un’epifania leggendo il Libro di Daniele e l’Apocalisse, che in inglese si chiama significativamente “Libro della Rivelazione”. Nel pieno del riflusso che schiaccia la controcultura, pensa che la resa dei conti abbia già avuto inizio, però controbilancia il pessimismo con le teorie del filosofo gesuita Pierre Teilhard de Chardin, in base alle quali la realtà si muove verso la pace e l’armonia.

In questa dicotomia è rispecchiata la dinamica interiore che il Nostro si porta appresso e che manifesta apertamente nel secondo LP. Stanno anche in ciò la forza e il fascino di Time of the Last Persecution, capolavoro insieme ragionato e istintuale dove, a dispetto del ritratto in copertina, non c’è un pazzo che blatera come a Speakers’ Corner. In sua vece, lo scrupoloso autore che nel 1971 coproduce, asciuga gli arrangiamenti e, cogliendo tutto o quasi al primo colpo, concede briglia sciolta alla chitarra del fantasioso Ray Russell.

Charles Manso… ah no.

Un gioiello dietro l’altro, sfilano ballate umbratili (la mesta e latineggiante Don’t Let My Marigolds Die, la splendida Laughing Man, una I Hear You Calling dalle venature country, la scarna Tell It Like It Is) e folk rock metropolitani dotati di spiccata personalità (il Dylan girato soul di Omega Day, la sferzante title track, una Plan D che trasporta Blonde on Blonde nei Seventies, l’attualissima Pictures of Adolf Again).

L’esatta mediazione dei due universi è raggiunta in Come a Day, che parte lieta tra tasti e fiati sfociando in dissennato free rock, nelle impennate di ‘Til the Christ Come Back, nella nervosa solennità di Release Is in the Eye, in una sofferta Let All the Other Teddies Know.

A fronte del visionario splendore e di una splendida complessità, si capisce perché la Decca dia il benservito e gli album spariscano dal catalogo. Prima di varcare di nuovo la porta di uno studio di registrazione, Bill Fay attenderà decenni. Ne varrà la pena, nonostante tutto.

In pace con se stessi

Anche se attualmente dicono che sia in crisi, il CD ha contribuito in larga misura alla ridefinizione della storia, poiché la reperibilità di opere dimenticate ha permesso di allargare la prospettiva su nomi di culto e sulla loro influenza. La nostra vicenda non fa eccezione: nel ’98 Bill Fay e Time of the Last Persecution escono in digitale – accadrà anche nel 2001 e 2007 – soffiando via la polvere da chi incassa elogi e incarica Tibet di saccheggiargli con competenza gli archivi (caldamente consigliato Tomorrow Tomorrow and Tomorrow, con inediti à la Canterbury risalenti al triennio ’79-’81).

Qualche annetto ancora e Joshua Henry, produttore americano che ha scoperto Fay tra i vinili del babbo, persuade il suo idolo a tornare. Nel 2012, Bill appare pacificato pur se lontano dalla benevolenza senile, siccome spetta comunque all’amore per il prossimo e per la “vita che è gente” impreziosire Life Is People, un balsamo per l’anima che custodisce i suoni senza tempo di There Is A Valley, Be at Peace with Yourself e Cosmic Concerto (Life Is People), il caratteristico classicismo di Big Painter, The Never Ending Happening e The Coast No Man Can Tell e la sublime appropriazione di Jesus, Etc. degli Wilco.

«The never ending happening / Of what 's to be and what has been / Just to be a part of it / Is astonishing to me» – hai detto poco…

Con un sorriso, l’artefice rientra nel proprio alveo di riservatezza e nel volgere di un biennio replica con Who Is the Sender?. Medesimi toni, arrangiamenti un poco più ricchi e menzione d’obbligo per il valzer tra soul bianco e Chiesa War Machine, per l’accorata delicatezza di Underneath the Sun e The Geese Are Flying Westward, per il crescendo di tensione How Little e l’omonimo cantautorato cameristico.

Nei primi mesi del 2020 Countless Branches celebra il mezzo secolo dall’esordio rievocando lo scatto di copertina nelle foto promozionali e, più simbolicamente, con un titolo (“rami infiniti”) che ci piace pensare alluda a una tradizione che muta restando se stessa. La scaletta proviene dal taccuino degli appunti, ma le parole e le melodie sono di fresca ispirazione e, ancora sfuggente dopo tutti questi anni, il londinese sarebbe da applaudire anche solo per la caparbietà.

Le sonorità improntate allo stretto necessario aiutano a “entrare” nell’afflizione morbida di Salt of the Earth, in un Your Little Face che veste Will Oldham con le stoffe del tardo Cohen, negli inni sommessi Filled with Wonder Once Again e Love Will Remain, in una One Life da giovane Tom Waits e nell’intimismo laconico di I Will Remain Here. Commossi ed emozionati, non possiamo far altro che applaudire e convincerci che da sempre Bill Fay offre pura poesia. La differenza, adesso, è che confessa di aver vissuto con la compassione e l’umanità delle quali è capace e che un angolo di mondo ascolta la sua voce. La voce di un amico ritrovato, non per modo di dire.  

Su, Billy! L'ottimismo è il sale della vita!

Bill Fay 

↦ Leggi anche:
Bill Fay: Salt of the Earth

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