Mettiamo ordine sulla strada del polistrumentista newyorkese: tra passato, presente e un ipotetico futuro.
Bisogna essere onesti iniziando a scrivere di un’artista. Fugare ogni dubbio rispetto alla stima, alla distanza e all’obiettività verso un’espressione musicale. Perché voler scrivere di qualcuno che, al momento, non sembra propriamente sulla cresta dell’onda, senza che nulla sia successo a giustificare un approfondimento? Probabilmente, dipende da quel che rimane addosso dopo l’ascolto di un disco. Dopo cinque anni, su How Do I Talk to My Brother? mi accorgo di esserci tornato sempre più spesso in un periodo in cui un certo tipo di musica non offre particolari gioie. Ecco: essere riusciti a creare qualcosa del genere è ciò che mi ha acceso la scintilla. Ma cosa si nasconde dietro a quello che un orecchio poco attento potrebbe etichettare come mero revivalismo? Andiamo a scoprirlo insieme.
Il primo – e finora unico album – di Ben Pirani, uscito nel 2018 per Colemine, è stato una brutta bestia. Ci sono “rimasto sotto” subito, scoprendolo grazie alle parole di Carlo Babando su Blow Up:
A colpire, soprattutto, è il fatto che il Nostro pare tenerci molto a chiarire, tra interviste e cartella stampa, con quanta delicatezza sia necessario approcciarsi alla materia se la tua pelle ha il colore del latte. Il rischio, giustamente, è quello di risultare una macchietta nel migliore dei casi o un mezzo stronzo nel peggiore.
Quasi un monito, che però andava a braccetto con un disco (poco più di mezz’ora di musica per undici tracce) che ha avuto – e ha – pochi rivali nel soul degli ultimi anni, soprattutto se parliamo di artisti anagraficamente contigui con Ben. Quarantunenne all’esordio discografico solista, figlio di una cantante e di un musicista, Pirani riesce a incastonare una gemma fuori dal tempo dopo l’altra, al punto che è impossibile assegnarle a un presente o un passato, forse perché tutte talmente eccellenti da finire immediatamente nell’Olimpo dei classici.
I primi passi sono chiari, ma purtroppo poco recuperabili: riconosciamo Ben seduto dietro alle pelli degli Orange Crotch, formazione che evolverà poi negli Offyourself e nei quali, oltre a tale Ravi, si accompagna alla coppia Mike Heerboth / TJ Durkan: della band non rimane che un 7”, unica uscita di una Ioratti che presumo autogestita.
Terminata quell’esperienza, dopo dieci anni Pirani ricompare al fianco di Billy Baumann (grafico e fondatore della Delicious Design League, colletivo autore di una miriade di poster, layout e lavori per aziende anche discretamente grosse: se siete appassionati del genere fateci un giro, ma vi avverto che il rischio è di perdersi delle belle mezz’ore e qualche centone raccattando stampe fantastiche), per un EP autoprodotto di quattro tracce intestato a The Civilized Age. Qui Ben si dedica principalmente alla chitarra e possiamo immaginare su che onda psichedelica il progetto si collocasse, grazie a un live su YouTube che il 18 settembre li vede impegnati al Subterranean di Chicago in versione quartetto con Eric Colin alla batteria e Jason Berry al basso. Il suono garage è acido e spinto, affascinante la voce e ottima la presenza scenica per un progetto bello ganzo (maracas a mille, frontman super giusto). Dopo una quindicina di minuti Ben prende il microfono per un brano in cui percepiamo il suo afflato più propriamente soul ed è come epifania.
Nel 2007 – con l’amico Aret Sakalian e a nome Rare Soul Millionaires – Ben selezione Soul Smoke, compilation di 20 tracce che fanno ben intendere le intenzioni del duo. E infatti l’anno seguente – aggiunti Jason Berry e Nick Soule alla cricca – si ritrovano a fondare il Windy City Soul Club a Chicago. Mensilmente accendono la metropoli facendo ballare un discreto numero di umani (pare che si ritrovassero regolarmente in 3-400) al ritmo delle gemme più oscure del northern noul. Già: il northern soul. Nulla di più logico, sapendo di come il padre di Ben, musicista di tutto rispetto, aveva accompagnato Terry Callier nelle registrazioni di uno dei 45 giri che non possono mancare a queste serate, quella Ordinary Joe datata 1972 poi ripresa dai Nujabes. Su Spotify, curato dal fido Sakalian, si può trovare il mix del quattordicesimo anniversario della crew (fine 2022): un’ora di pura crema per le orecchie con dentro Four Tops, James Brown, Gilberto Rodriguez, Village Callers e molto altro ancora, che ci fa immaginare cosa potesse voler dire seguire il soul club in quegli anni: la comunità frizzante, colorata e trasversale e soprattutto accomunata da una scelta stilistica di genere.
Altra avventura? Beh, ci sarebbe la Chicago Stone Lightning Band, progetto blues che, oltre al Nostro, comprende Nick Myers (ex Vee Dee, che hanno furoreggiato anche sull’italica Goodbye Boozy Records) alla chitarra, Gabe McDonough (già con Füxa e Piano Magic) al basso e John Dugan (lo ritroviamo nei Chisel, insieme a Ted Leo e membro degli Exit Verse con Geoff Farina e Pete Croke) alla batteria. Insieme incidono un disco omonimo nel 2012 per la Downtown Records e basta prendersi un paio di minuti per vedere una loro esibizione in occasione delle Summer Sessions al Logan Square Monument per percepirne la forza. My Love Is a Good Look (brano che è compreso nel disco) è uno stomp che si distingue per la potenza animale immediata, senza mandarlo a dire.
L’album non da nessun segno di tregua né di stanchezza, inanellando torbido blues e boogie, incartato in una splendida copertina che, se la vista non mi inganna, sembra opera proprio di quella DDL che abbiamo citato poco sopra. Il suono è sporco, si incaponisce su giri semplici e a effetto, risultando concreto e nutriente, ma dimostrando di non perdere efficacia anche quando si abbassano i volumi e ci ritroviamo seduti in un campo, come nell’acustica e toccante Dogpatch Blues o nella finale Dance on My Grave.
Nel 2015 poi, insieme a Ben Carey (uno degli uomini dietro alla Cherries Records), si inventa i Determiner per un singolo in cui i due brani, Time Size’s e Determiner, sono strumentali vividi e profondi fatti di percorsi acquatici di fiati e chitarre. Insieme i due portano avanti anche un altro progetto musicale, Benjamin, che in cinque anni di collaborazione dà alla luce tre 7” (dei quali il primo su cassetta) e un album, uscito proprio per Cherries, titolato Arriving. Non certo coincidenze, per due persone con il medesimo nome di battesimo, storie simili, medesime passioni e senso di equilibrio, eleganza e groove. E in effetti il disco, ad ascoltarlo oggi, suona scintillante e lucido come allora. C’è un’idea di funk secca e misurata, ornata da un corollario di scivolerie soul: la pista è illuminata a dovere e i passi escono dal nostro corpo senza sforzarsi troppo. Le due voci si impastano al meglio, trasportandosi in una sorta di galassia spaziale della black music.
A questo punto Ben – anzi Benjamin – inizia a recapitare diversi 7” che andranno a compattarsi sul citato album d’esordio del quale si occuperà l’onorata Colemine Records. Qui finiscono infatti le uscite come Benjamin & the Right Direction del 2016 (Light of My Life e Dreamin’s for Free) e come Benjamin & the Dreamdancers dell’anno seguente (Not One More Tear e That’s What you Mean to Me). Leroi Conroy a.k.a. Terry Cole, il padrone della Colemine, figura nei crediti in qualità di direttore artistico.
In un’intervista rilasciata a The Tardigrade Times Pirani spiega di come lavorare con la Colemine sia stata un’esperienza di libertà, con la possibilità di sperimentare, proporre, modificare rapportandosi con persone fiduciose e in grado di dargli giusto quel che gli serviva per completare il lavoro.
Alla Colemine è stato fantastico, fin dall'inizio. Mi hanno dato tutto quello di cui avevo bisogno, a partire da aiuto e attenzione. In poche parole, hanno fatto sì che riuscissi a fare quello che dovevo e volevo fare.
Forse è questo che rende un lavoro come How Do I Talk to My Brother? così pieno e completo.
Di sicuro da allora qualcosa è cambiato. Ben ha messo un punto a capo per riprendere dopo due anni, siamo ormai nel 2020, con un’altra ridda di 7” sempre divisi tra Colemine e Palmetto. That’s the Ways It Goes, trattenuta, romantica e invernale, sorretta da un basso sornione e dall’unione di più voci. La B-side Dreamin’s for Free è invece la versione più estesa del brano contenuto nell’album. Nel 2021 More than a Memory è maggiormente tormentata e bizzosa, e nel 2022 la rivisitazione di Modern Scene dei Ghost Funk Orchestra risulta notturna, baciata da una voce femminile e da splendide linee chitarristiche, mentre, altrove, l’orchestra diretta da Seth Applebaum dà profondità e un bizzarro spessore al singalong Can’t Get Out Yout Own Way.
Chiude quanto abbiamo attualmente, sotto il piano musicale, il 7” condiviso con gli Evolfo, band psichedelica di Brooklyn. I due progetti interpretano, riarrangiandoli, ognuno un brano dell’altro, uscendone freschi e rinfrancati. Ben muovendosi egregiamente su una coltre ambient jazz free e percussiva, loro nascondendo il brano piraniano dietro strati di tendine colorate aggiungendo bolle.
La sensazione è che un secondo disco non rappresenti l’attuale priorità di Ben Pirani, ma la sicurezza è che tutto quanto sta facendo ne allargherà gli orizzonti e accrescerà la profondità di artista. Dovesse arrivare il momento in cui vorrà registrarlo, sarà di sicuro un album con la “A” maiuscola, proprio come l’esordio. Noi, intanto, segniamo ogni traccia e ogni seme che il nostro uomo lascia, continuando a seguirlo a distanza.
Still diggin’, still singing.