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A volte è necessario approfondire. Per capire da dove arriva la musica di oggi, e ipotizzare dove andrà. Per scoprire classici lasciati indietro, per vedere cosa c’è dietro fenomeni popolarissimi o che nessuno ha mai calcolato più di tanto. Queste sono le storie di HVSR.

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Gli Aztec Camera e l’impossibile leggerezza dell'essere adulti

Quarant'anni di High Land, Hard Rain.

Dicono che a un’arte lunga corrisponda una breve vita artistica. Vale eccome per Roddy Frame, talento che non è mai riuscito a spingersi oltre un bagliore da Mozart dell’indie pop. Quattro decenni dopo, la sua luce è ancora vivissima.

  • Artista: Aztec Camera
  • Titolo: High Land, Hard Rain
  • Anno: 1983
  • Tracklist:
    • Oblivious – 3:09 (musica e testo: Roddy Frame)
    • The Boy Wonders – 3:13 (musica e testo: Roddy Frame)
    • Walk Out to Winter – 3:23 (musica e testo: Roddy Frame)
    • The Bugle Sounds Again – 2:56 (musica e testo: Roddy Frame)
    • We Could Send Letters – 5:43 (musica e testo: Roddy Frame)
    • Pillar to Post – 3:59 (musica e testo: Roddy Frame)
    • Release – 3:41 (musica e testo: Roddy Frame)
    • Lost Outside the Tunnel – 3:40 (musica e testo: Roddy Frame)
    • Back on Board – 4:50 (musica e testo: Roddy Frame)
    • Down the Dip – 2:10 (musica e testo: Roddy Frame)
  • Formazione:
    • Roddy Frame – voce, chitarra, armonica
    • Bernie Clarke – pianoforte, organo
    • Campbell Owens – basso
    • Dave Ruffy – batteria, percussioni

Stay gold, Roddy boy

Chissà come si sente Roddy Frame a indossare i panni dell’ex enfant prodige. Ci domandiamo se ogni tanto pensa ai ruggenti anni Ottanta quando guarda dalla finestra sul calar della sera. Se, immerso nel quieto ronzio del tempo che passa, dietro al volto che un po’ ricorda John Cusack in Alta fedeltà ragiona sui gruppetti odierni che dimentichiamo in un batter di ciglia. Magari non gliene importa niente e preferisce tirare dritto per la strada che ha scelto. Chissà.

In retrospettiva pare evidente che, a un certo punto, Roddy ha deciso di imitare il Bartleby melvilliano, con la differenza sostanziale che, dopo il suo «preferirei di no», mica si è lasciato morire in un angolo buio. Ha preteso una pausa e l’ha trascorsa ascoltando dischi, fumando canne, leggendo libri, viaggiando. Aveva vent’anni, un capolavoro in bacheca e troppa pressione addosso. Voi, nei suoi panni, cosa avreste fatto? Ecco: siccome siamo tutti punk con il no future degli altri, invece di dargli addosso bisognerebbe applaudirlo per il coraggio che ha mostrato.

Pensateci un momento: è il 1984, hai il talento e le carte in regola per diventare una stella, ma sparisci dalla circolazione. Quando torni, il mondo ha pigiato il fast forward, la tua musica è cambiata e la magia svanita. Tuttavia, sarai ricordato per il lampo da Mozart del guitar pop che hai cristallizzato in High Land, Hard Rain, un debutto magnifico che quest’anno entra negli “anta” sulle ali di un’invidiabile freschezza. Più che sufficiente per gli annali e per il cuore, prova ne sia che dal degnissimo successore Knife, tra lavori appannati e altri discreti, Roddy ha nascosto le rare zampate in un guscio di serenità domestica e basso profilo.  

John Cusack appena uscito dal barbiere degli Spandau Ballet.

Lontano dal giro dell’amarcord un tanto al chilo di chi rivende antiche glorie, oggi centellina album e concerti con riservatezza, fin quasi a istillare il dubbio che (ispirato dall’amico, collega e conterraneo Edwyn Collins) potrebbe in qualsiasi momento scuotersi dal confortevole torpore e calare sul tavolo l’asso della maturità. Così, di punto in bianco, per la gioia dei fan e di chi avverte la necessità di canzoni dal respiro universale e il fascino duraturo.

Le conoscete e le amate, canzoni così: profumano di gioia e uggia, di mezze stagioni e di futuri immaginari. Alcune sono custodite in solchi che possono far sobbalzare dall’emozione i teenager e gli uomini che ancora parlano con l’adolescente che abita in loro. Senza nostalgia, però, e tenendo in tasca le istantanee di folk metropolitano scattate dai Velvet Underground, gli arazzi latini dei Love e uno splendore che acceca senza che tu te ne accorga.

Infine ci viene il dubbio che un pensierino sullo stato contemporaneo del pop Frame se lo conceda eccome, giungendo alla nostra stessa conclusione: cioè che non è colpa del Maestro se gli alunni sono mediocri. Dunque, per chi in quegli anni importanti era piccino o addirittura non era, gli Aztec Camera potrebbero rappresentare una rivelazione. Per tutti gli altri, restano una finestra aperta su un’epoca meravigliosa. Sul dolce domani che abbiamo alle spalle e che ci spinge ad andare avanti, giorno dopo giorno. 

Roddy Frame che fa un pensierino sullo stato del pop odierno.

Cartoline da Glasgow

Innovativo anche nel presentarsi al mondo, Roddy Frame. Con modalità in largo anticipo su quella che si sarebbe trasformata in moda, gli Aztec Camera hanno sempre funzionato da “paravento” per un songwriter che nasce alla fine del gennaio 1964 in quel di East Kilbride. A una quindicina di chilometri da Glasgow, il ragazzo cresce con Al Green, Beatles, Stones, Bowie e più tardi va in fissa con i Dr. Feelgood e l’efficace approccio minimalista di Wilko Johnson.

Del punk raccoglie la sterzata stilistica, lo spirito intraprendente, il messaggio liberatorio ed è interessandosi ai gusti di Mark Perry degli Alternative TV che scopre Frank Zappa ma soprattutto i Love, che si aggiungono alla folgorazione per Neil Young, i Byrds e la sei corde espressionista di John McGeoch. Benché composito, è un puzzle in cui ogni tessera si incastra con naturalezza grazie all’entusiasmo, alla limpidezza della visione e all’ampiezza di orizzonti.

Anche per questo il sedicenne autodidatta (la prima chitarra imbracciata in età da asilo) possiede perizia strumentale e doti compositive tali da mollare gli studi e girare i pub, dapprima con i Neutral Blue e successivamente con la ragione sociale che sappiamo in compagnia del bassista Campbell Owens e del batterista Dave Mulholland. Nel 1980 partecipano a una compilation pubblicata su nastro da un’etichetta locale, Alan Horne li nota e spalanca le porte della Postcard, varata nello stesso anno per diffondere il “suono della giovane Scozia”.

«Avevamo mandato il nostro primo demo praticamente a tutti, meno che alla Postcard».

In testa Alan ha l’impero Motown, ma senza saperlo sta plasmando un’antesignana di Creation e Sarah che fa scuola nell’immediato con un proto-indie pop a base di folk rock, soul e new wave. Ricetta della quale gli Smiths vanno prendendo nota tra i chiaroscuri e le nevrosi che sono appannaggio rispettivamente di Orange Juice e Josef K, pertanto spetta a Roddy e soci dispiegare il versante più solare della faccenda con il prezioso artigianato a 45 giri della slanciata Just Like Gold e di una più introversa Mattress of Wire.  

A dispetto dell’entusiasmo della stampa e di John Peel, la formazione soffre gli avvicendamenti alla batteria e in particolare il volenteroso dilettantismo di Horne, il quale deve chiudere bottega per questioni finanziarie. Gli Orange Juice passano alla Polydor, i Josef K si sciolgono e gli ultimi arrivati in scuderia firmano per la Rough Trade dopo un trasferimento a Londra. La mossa si rivelerà vincente.

Terre alte, dura pioggia

Mentre l’Italia festeggia la vittoria ai mondiali, gli Aztec Camera provano e riprovano con i nuovi innesti Dave Ruffy a tamburi e piatti e Bernie Clarke alle tastiere il materiale poi inciso con la supervisione di John Brand e dello stesso Clarke. Utilizzando una chitarra diversa per ogni brano e saldando all’insieme gli intrecci complessi ma cristallini di Wes Montgomery e Django Reinhardt, si stendono le pennellate che mancavano a High Land, Hard Rain, a un cantar d’amore sospeso tra surrealismo e concretezza e avvolto in nubi dolceamare.   

Riverniciato il retro dei 7” griffati Postcard We Could Send Letters (arguzia di strofe cupe contrapposte allo squillare di ritornello e bridge, scritta da un Roddy quindicenne!) e Lost Outside the Tunnel (leggiadra, tesa memoria di Da Capo), il Nostro aggiunge Oblivious, un irresistibile funk folk tropicale trafitto da un assolo di acustica che si arrampica in cima alla chart indipendente dei singoli, la tenera e dylaniana Down the Dip, il romantico folk rock con anima Back on Board, il guizzante tracimare emotivo Walk Out to Winter.

Tarocchi per tutti!

Non contento, sfuma le tinte pastello in toni crepuscolari (The Bugle Sounds Again), si affida a una grazia al contempo trascinante e frenetica (Pillar to Post), immagina i Go-Betweens alle prese con la bossanova (Release) e ritrova dietro la luna il senno perduto di Arthur Lee (The Boy Wonders). Ogni canzone è un gioiello senza tempo, lucente e sfavillante.

E solo chitarra e voce come suonerebbero? Così.

In madrepatria l’LP centra la ventiduesima piazza nella classifica generalista e a luglio la Sire, legata al colosso WEA, lo stampa oltreoceano. Elvis Costello si unisce al coro di elogi e invita la band a fare da lussuosa spalla per il tour statunitense di Punch the Clock. Qui iniziano le magagne: gli Aztec Camera proseguono tenendo concerti da soli, perdono elementi e Rough Trade non ha i mezzi per capitalizzare il successo. Frame cede alla corte della Warner e, messo da parte un tesoretto di canzoni, sostituisce Clarke con il chitarrista Malcolm Ross, manda a memoria Infidels ed esige Mark Knopfler per curare la regia di Knife.

Evitando qualsiasi concessione al rock di taglio classico, nell’84 arrangiamenti ricchi e tuttavia equilibrati sottolineano l’immediatezza di Head Is Happy (Heart’s Insane), la riflessiva complessità di un’atmosferica title track, le frizzanti Just Like the USAStill on Fire All I Need Is Everything, la confessionale The Birth of the True e gli acquerelli Backdoor to Heaven e Backwards and Forwards. Tempo di un altro tour che lascia sul campo Owens e di un EP con l’eccellente rilettura alla Velvet di Jump dei Van Halen, dopo di che qualcosa si spezza definitivamente.

Perdersi fuori dal tunnel

Tutto è arrivato troppo presto, il giovanotto ha dovuto imparare a crescere in fretta e furia e ha urgente bisogno di tirare il freno di emergenza. Sente di dover saltare giù da un treno che immaginava diverso e diretto verso altri luoghi, perché questo non va per niente bene: la velocità è eccessiva, il percorso accidentato e non si riesce a osservare il panorama. Fuor di metafora, Roddy vuole vivere e che l’industria discografica si adegui, per favore.

Di lui non si avranno più notizie fino al 1987, quando si riaffaccia sulle scene con il laccato e vacuo soul pop di Love, inciso in America con un manipolo di turnisti nel tentativo di affrancarsi in maniera netta dal recente passato. Vende bene, eppure artisticamente è un fiasco che lascia basiti e occorre un triennio per recuperare un po’ di forma e sostanza con Stray, che offre discreti spunti e il duetto con Mick Jones in Good Morning Britain. Il medesimo lasso di tempo lo separa dalla deludente e sfocata sperimentazione elettronica confezionata con Ryūichi Sakamoto in Dreamland.

Green screen portami via.

Gli Aztec Camera vengono archiviati una volta per tutte a metà anni Novanta, all’altezza di un Frestonia elegante nelle fogge e fiacco sotto il profilo compositivo. Da allora, come se si fosse liberato di un peso, l’uomo ha apposto nome e cognome in calce ad alcune opere più convincenti nelle quali spicca il raccolto e acustico Surf, risalente all’ormai lontano 2002. Intendiamoci: nulla che possa avvicinarsi a quella bellezza in grado di mandare al tappeto chiunque, primo fra tutti il cavallo di razza che ne è responsabile e che ha finito per incarnare un celebre verso di Edgar Lee Masters.

Ebbene sì: con buona pace di Bob Dylan e del suo fatidico «younger than that now», per qualcuno il genio è saggezza e gioventù. Specie per chi ancora oggi fa i conti con canzoni che esortano ad abbracciare il mondo e a desiderare la pioggia sotto il sole. Testimonianze sublimi di come talvolta sia impossibile diventare grandi quando Grande lo sei già.

Mai guardarsi indietro. O forse sì?

Aztec Camera Roddy Frame 

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