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Una volta alla settimana compiliamo una playlist di tracce che (secondo noi) vale davvero la pena sentire, scelte tra tutte le novità in uscita.

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... Tutte le tracce che abbiamo recensito dal 2016 ad oggi. Buon ascolto.

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A volte è necessario approfondire. Per capire da dove arriva la musica di oggi, e ipotizzare dove andrà. Per scoprire classici lasciati indietro, per vedere cosa c’è dietro fenomeni popolarissimi o che nessuno ha mai calcolato più di tanto. Queste sono le storie di HVSR.

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Gli Alice in Chains e il potere del cane a tre zampe

Perché riteniamo che questo sia l'ultimo classico del grunge. Ma non solo.

Dietro alle tragedie e al sensazionalismo, la vicenda degli Alice in Chains racconta di una band che ha voluto fortissimamente diventare famosa seguendo le proprie regole. Una band che ha coronato un sogno per certi versi molto simile a un incubo.

  • Artista: Alice in Chains
  • Titolo: Alice in Chains
  • Anno: 1995
  • Tracklist:
    • Grind – 4:44 (testo e musica: Jerry Cantrell)
    • Brush Away – 3:22 (testo: Layne Staley / musica: Jerry Cantrell, Mike Inez, Sean Kinney)
    • Sludge Factory – 7:12 (testo: Layne Staley / musica: Jerry Cantrell, Sean Kinney)
    • Heaven Beside You – 5:27 (testo e musica: Jerry Cantrell)
    • Head Creeps – 6:28 (testo e musica: Layne Staley)
    • Again – 4:05 (testo: Layne Staley / musica: Jerry Cantrell)
    • Shame in You – 5:35 (testo: Layne Staley / musica: Jerry Cantrell, Mike Inez, Sean Kinney)
    • God Arm – 4:08 (testo: Layne Staley / musica: Jerry Cantrell, Mike Inez, Sean Kinney)
    • So Close – 2:45 (testo: Layne Staley / musica: Jerry Cantrell, Sean Kinney)
    • Nothin' Song – 5:40 (testo: Layne Staley / musica: Jerry Cantrell, Sean Kinney)
    • Frogs – 8:18 (testo: Layne Staley / musica: Jerry Cantrell, Mike Inez, Sean Kinney)
    • Over Now – 7:03 (testo: Jerry Cantrell / musica: Jerry Cantrell, Sean Kinney)
  • Formazione:
    • Layne Staley – voce, cori, chitarra ritmica
    • Jerry Cantrell – chitarra solista, cori, voce
    • Mike Inez – basso
    • Sean Kinney – batteria

Maledetti, vi amiamo

Considerando l’argomento e i protagonisti, ci pare opportuno mettere le mani avanti: la fregatura che qualcuno chiama “maledettismo” non esiste, e vorremmo veder crollare definitivamente i rimasugli di un malinteso spirito “romantico” che ne sta a monte. Una volta grattata via la retorica, l’artista è un individuo che galleggia nel quotidiano come chiunque altro, con il fondamentale valore aggiunto che, nel frattempo, tiene una cronistoria del viaggio. Se tra una salita, una discesa e una pietra al collo travestita da salvagente tocca il fondo, non lo si può – né lo si deve – biasimare. Perché se un destino esiste, siamo tutti segnati. E per quanto riguarda certe scelte di vita, ognuno dia un nome al veleno che preferisce.

Non c’è insomma nulla di poetico o di cool nella disperazione, e siamo davvero stanchi di chi recita da maudit con le disgrazie altrui. A noi interessa raccontare la persona senza remore né sensazionalismi per capirne meglio le opere, poiché l’essere umano cammina un passo indietro al songwriter, al poeta, al pittore che vivono dentro di lui. Se ogni tanto accelera, è per affiancarsi e suggerirgli qualcosa. Dopo di che si sfila e torna al suo posto, aspettando che gli sguardi si rincontrino.

Nessuno mi può giudicare, nemmeno tu.

In un incrocio di tormenti che non diventano estasi trovi ciò che, nell’esatto mezzo degli anni Novanta, permette a un disco di essere l’ultimo classico del sottogenere che – da underground collocato in una precisa area geografica – si è tramutato alla svelta in fenomeno mondiale e, infine, in una mezza buffonata. Sempre lì hanno origine la navigazione in mari tempestosi di un vascello che rientra in porto per l’ultima volta e la tristezza che coglie quando i rapporti si sgretolano e il mondo sembra crollarti attorno e addosso.

Di conseguenza, quando ci chiedono quale sia il capolavoro degli Alice in Chains, rispondiamo che è il testamento di un’ora – omonimo, non a caso – che raffigura in copertina un cane con tre gambe. In quelle condizioni un animale riesce a camminare, deve solo volerlo e trovare un equilibrio per rispondere a ciò che la sorte gli riserva. Shakespeare insegna che il problema sta nelle decisioni prese o subite e nel tragitto che determinano: questo spiega in parte una musica popolata da ombre e fantasmi da prima che qualcuno ci rimettesse la pelle, come da un copione a proposito del quale abbiamo sperato fino in fondo che le ultime pagine venissero strappate e gettate nel cestino.

Tuttavia, proprio per una questione di scelte individuali forse non poteva darsi un finale diverso. Uomo talentuoso e brillante, Layne Staley ha lasciato in dote canzoni di candore e onestà che fanno rabbrividire. Canzoni che, tra svariate altre cose, gettano le maschere e i filtri per affrontare la sgradevolezza a viso aperto: spetta all’ascoltatore accettarle, oppure girarsi dall’altra parte ignorando un aspetto della realtà. Di questo vivono Dirt e Alice in Chains, dischi profondamente autentici che non fanno sconti a nessuno, che ti prendono per il collo e non ti mollano più. Finché, a un certo punto, nello specchio scorgi un cane con tre gambe che ha appena scoperto come stare in equilibrio.

Una questione di equilibrio.

Metallo sibilante

Nel contesto del grunge gli Alice in Chains sono descritti come i più legati al metal, in ragione delle componenti garage, indie e (post-) punk che brillano per assenza. Eppure il loro “hard moderno in tempo medio” possiede comunque originalità, poiché trasfigura il blues in chiave hardelica, concependolo come una condizione dello spirito e come uno scandaglio per plumbei baratri.

Materia da primi della classe, a partire da un cantante immediatamente riconoscibile in grado di spingersi oltre i ricalchi di Ozzy Osbourne e Robert Plant. Viene da pensare che, in sua assenza, gli Alice in Chains sarebbero stati fedeli a schemi consolidati e non ce ne voglia lo zoccolo duro dei fan, parte prima: se i ragazzi diventano stelle al primo e non granché esaltante colpo, vanno ricordati per una maturazione che raggiunge l’apice nell’istante in cui abbandona ciò che ormai è stereotipo. Tuttavia abbiamo corso e, per cogliere in pieno la bellezza di un terzo album sul serio difficile, bisogna raccontare la storia dal principio.

E – liberi di non crederci – il principio è tinto di glam.

Seattle, medi anni Ottanta. Layne Staley è un diciottenne figlio di divorziati – al pari dello sradicamento, una condizione dagli effetti sovente nefasti comune a molti artisti di area grunge – che viene su con hard e metal, però adorando Stooges, Prince e David Bowie. Gli Sleze lo impegnano da quando ha mollato la batteria per il microfono e nell’86 si ribattezzano Alice N’ Chains calcando i palchi cittadini rileggendo Slayer e Armored Saint. Un annetto e in città si rivede Jerry Cantrell, chitarrista dal retroterra hard che apprezza Rush, Fleetwood Mac e il country: privo di un tetto sulla testa, trasloca da Layne e, quando mesi dopo traffica con una sezione ritmica (Mike Starr al basso, più il batterista Sean Kinney) ma non ha un cantante, la scelta ricade sull’amico.

Detto, fatto. Un demo di quelli che ora sono Alice in Chains atterra sul tavolo del management dei Soundgarden e da lì negli uffici della Columbia. Firmato il contratto, nell’89 la banda è al lavoro con David Jerden (già in regia con i Jane’s Addiction) e nel 1990 la title track dell’EP promozionale We Die Young spiana la strada a Facelift. Contribuiscono al clamore il video di Man in the Box in rotazione su MTV e un linguaggio che, sebbene un po’ traballante, mette in comunicazione i mondi “alt” e “hard” tramite brani tortuosi che si allontanano dalla tradizione trattenendo un’obliqua cantabilità.

Chiamatela "man-shaped box".

Ciò nonostante, invece di martellare il ferro rovente, il quartetto si misura con l’elettroacustica tristezza dell’EP Sap, che nel febbraio ‘92 espone melodie perversamente efficaci e climi meditabondi a malapena intuibili nell’esordio. Il suono del Nord-ovest frattanto è decollato e nella colonna sonora del film Singles di Cameron Crowe la formazione appare con la minacciosa possanza di Would? Significativo progresso in termini di ricercatezza, le sue spire catturano inesorabilmente e idem Dirt, tetro concept “implicito” che in parte ruota attorno alla tossicodipendenza.

Il secondo album vende a carrettate cogliendo l’attimo con una sofferta autobiografia e la sei corde proteiforme di Cantrell, assai ispirato anche sotto il profilo compositivo. In ambienti qui ipnotici e là oppressivi, la citata Would?, una mesmerica Them Bones, gli echi stoogesiani di Rain When I Die, il ruvido crepuscolarismo di Down in a Hole e Rooster ed episodi disturbanti come il brano omonimo e Angry Chair valgono il prezzo del biglietto. Dietro le quinte, però, la situazione è sempre più tesa.

Jesus Christ senza posa.

Il paradiso (non è) accanto a te

Una bestia difficile da domare, il successo. Occorrono nervi saldi, un pizzico di cinismo e tanta chiarezza di visione. Doti che nei primi mesi del 1993 latitano in casa di Alice mentre Starr viene rimpiazzato da Mike Inez per questioni di droga. Una maledizione per chi tratta l’argomento con franchezza, dato che circolano voci (autentiche) circa uno Staley schiavo dell’eroina. Il che non impedisce di partecipare al Lollapalooza e, allorché Jerry prende il timone, di mettere mano a Jar of Flies, altro EP che nel gennaio ‘94 conduce un pugno di cupe meditazioni alla prima piazza di Billboard.

Abbassato il volume ma non l’intensità, si ipotizzano i R.E.M. alle prese con un gotico americano malato nel quale l’umanità si salda ad armonie serpeggianti, costruendo un ponte sul capo d’opera che viene rafforzato dai Mad Season, lussuoso “dopolavoro” del cantante con Mike McCready, Barrett Martin, John Saunders e la partecipazione di Mark Lanegan. Oasi di sollievo per un individuo che – la band principale in momentaneo stallo – prova inutilmente a ripulirsi, Above sistema un paletto fondamentale, spiegando che il grunge temprato metal è un ricordo.

Ripulirsi con l'ennesima botta di allegria, ci mancherebbe.

La maturità espressiva è raggiunta dopo una lavorazione che definire “complicata” è puro eufemismo. Come spesso accade con i grandi dischi, Alice in Chains si svela poco alla volta con disinvoltura calibrata: un ascolto dopo l’altro, cogli tutta l’attenzione per le tessiture e le atmosfere, il taglio confessionale dei testi, i mantra torpidi e torbidi, una scrittura attenta alle sfumature, certe tinte strumentali pastose. Evocativo, profondo, prodigo di tenebrose emozioni, l’album noto anche come “Tripod” (cioè treppiede) disegna un affresco inquieto e seducente.

Vecchi e treppiedi tra inferno e paradiso.

Con meticolosa articolazione dell’insieme, il poker di apertura sistema le coordinate dell’intera opera nell’umore velenoso e nel riff marmoreo trafitto da un ritornello scintillante di Grind, nel blues torrido però pure glaciale Brush Away, in una Sludge Factory tagliente e stralunata e nell’uggioso folk rock Heaven Beside You. Non valgono meno l’ossianico, ansiogeno tumulto Head Creeps, una Again gonfia di sarcasmo (eloquenti i coretti e quella chitarra solista sopra le righe…) verso il grunge più formalistico, la psichedelica muscolare di Shame in You, una God Am da Black Sabbath frammentati e storditi, i Mudhoney convulsamente hard di So Close.

Quando Joker da piccolo voleva essere Cappuccetto Rosso.

In coda, Nothin’ Song disegna un’allucinata voragine, Frogs danza in un gioco di chiaroscuri e il commiato Over Now impone un rock sudista geneticamente modificato. Alice in Chains termina su un cerchio che rovescia il proprio inizio, srotolando progressivamente un sipario color pece. Il segno della fine inesorabile è che dalla vetta e dall’ennesimo numero uno si precipiti presto e male: dopo un vibrante Unplugged negli studi di MTV, il tour di supporto ai Kiss va subito a rotoli causa overdose di Staley a Kansas City.

Più "over" di così…

Il frontman di un gruppo che non esiste più sparisce dalla circolazione, dopo la morte dell’ex fidanzata sprofonda in se stesso e il 5 aprile di ventuno anni fa lo ritrovano esangue nel suo appartamento. Non ce ne voglia lo zoccolo duro dei fan, parte seconda: preferiamo tagliare corto sugli attuali Alice in Chains con alla voce William DuVall, che tirano a campare perché chi faceva la differenza non c’è più. Eri umano, Layne. Troppo umano per un mondo così freddo e crudele. 

Alice in Chains Jerry Cantrell Layne Staley 

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