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Una volta alla settimana compiliamo una playlist di tracce che (secondo noi) vale davvero la pena sentire, scelte tra tutte le novità in uscita.

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... Tutte le tracce che abbiamo recensito dal 2016 ad oggi. Buon ascolto.

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A volte è necessario approfondire. Per capire da dove arriva la musica di oggi, e ipotizzare dove andrà. Per scoprire classici lasciati indietro, per vedere cosa c’è dietro fenomeni popolarissimi o che nessuno ha mai calcolato più di tanto. Queste sono le storie di HVSR.

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A Tribe Called Quest: la teoria del basso

Il jazz nella lingua nativa del rap.

Quando pensi agli album che hanno fatto la storia dell’hip hop, quando pensi alla prima e migliore unione tra rap e jazz, quando pensi ad anelli di storia che si saldano tra loro, The Low End Theory è il primo nome che ti viene in mente.  

  • Artista: A Tribe Called Quest
  • Titolo: The Low End Theory
  • Anno: 1991
  • Tracklist:
    • Excursions – 3:55 (testo: Jonathan Davis / produzione: A Tribe Called Quest)
    • Buggin' Out – 3:37 (testo: Jonathan Davis, Ali Shaheed Muhammad, Malik Taylor / produzione: A Tribe Called Quest)
    • Rap Promoter – 2:13 (testo: Jonathan Davis, Ali Shaheed Muhammad / produzione: A Tribe Called Quest)
    • Butter – 3:39 (testo: Jonathan Davis, Ali Shaheed Muhammad, Malik Taylor / produzione: A Tribe Called Quest)
    • Verses from the Abstract – 3:59 (testo: Jonathan Davis / produzione: A Tribe Called Quest)
    • Show Business – 3:53 (testo: Skeff Anselm, Jonathan Davis, Lorenzo Dechalus, Joseph Kirkland, Ali Shaheed Muhammad, Derek Murphy, Malik Taylor / produzione: Skeff Anselm)
    • Vibes and Stuff – 4:18 (testo: Jonathan Davis, Malik Taylor / produzione: A Tribe Called Quest)
    • The Infamous Date Rape – 2:54 (testo: Jonathan Davis, Ali Shaheed Muhammad, Malik Taylor / produzione: A Tribe Called Quest)
    • Check the Rhime – 3:37 (testo: Jonathan Davis, Ali Shaheed Muhammad, Malik Taylor / produzione: A Tribe Called Quest)
    • Everything Is Fair – 2:58 (testo: Skeff Anselm, Jonathan Davis, Ali Shaheed Muhammad, Malik Taylor / produzione: Skeff Anselm)
    • Jazz (We've Got) – 4:10 (testo: Jonathan Davis, Ali Shaheed Muhammad, Malik Taylor / produzione: A Tribe Called Quest)
    • Skypager – 2:12 (testo: Jonathan Davis, Ali Shaheed Muhammad, Malik Taylor / produzione: A Tribe Called Quest)
    • What? – 2:29 (testo: Jonathan Davis / produzione: A Tribe Called Quest)
    • Scenario – 4:10 (testo: Jonathan Davis, Bryan Higgins, James Jackson, Trevor Smith, Ali Shaheed Muhammad, Derek Murphy, Malik Taylor / produzione: A Tribe Called Quest)
  • Formazione:
    • Ron Carter – basso
    • Ali Shaheed Muhammad – DJ
    • Phife Dawg, Q-Tip, Busta Rhymes, Charlie Brown, Diamond D, Dinco D, Lord Jamar, Sadat X – voce

Istinto

Nell’ormai lontano 1996 DJ Shadow si chiedeva perché l’hip hop “facesse schifo”, rispondendosi da solo (più precisamente: per interposto campionamento) che la colpa era da imputare ai soldi. Da allora di acqua sotto i ponti ne è passata parecchia, ma le cose non sono cambiate granché. Di certo, non per il meglio. Tuttavia, se prendiamo in considerazione ciò che una volta definivamo “underground”, è lampante che il rap sta attraversando una florida stagione creativa e, tra panorami lontani dagli stilemi e dalla nostalgia, induce a credere che abbia ancora ampi margini di sviluppo.

In questo senso lo scorso anno ha parlato chiaro il sensazionale Cheat Codes recapitato da Danger Mouse e Black Thought, eppure sotto la punta dell’iceberg si agita un sottobosco che se ne infischia di ogni regola eccetto di quelle che sta scrivendo. Guarda caso, il medesimo spirito che, rafforzato dal senso di avventura, stava alla base del rap nella sua fase di crescita. Guarda caso, l’attitudine che lo ha propulso alla conquista del classicismo e al successivo consolidamento.

Guarda caso…

Anche se l’hip hop è una cultura di strada che si consuma alla svelta, ha pur sempre consapevolezza delle proprie radici. Tanto più se risultano tuttora stabili e vigorose come quelle messe decenni fa dai newyorchesi A Tribe Called Quest, che nel progresso di cui sopra hanno esercitato una funzione cruciale e la cui importanza si è estesa al di fuori del genere di riferimento. Questione di grandezza ma anche di cuore, al quale com’è noto non si comanda.

Allo stesso modo non comandiamo l’istinto, che possiamo comunque cavalcare per vedere dove ci porterà. Grossomodo, è quanto che accade nella Big Apple in coda agli anni Ottanta, quando alcuni artisti che ne hanno abbastanza della rabbia e del maschilismo imperanti nel rap reagiscono proponendo testi improntati alla spiritualità, all’identità di razza e alla coscienza sociale, non di rado permeati da un taglio umoristico che ne agevola la comunicazione. Si chiamano Native Tongues – ovvero: “lingue native” – e di cose interessanti da dire ne hanno parecchie.

Percorsi del ritmo

Il collettivo nasce spontaneamente nel momento in cui De La Soul e Jungle Brothers riconoscono un idem sentire, e su quella base la macchina si mette in moto raccogliendo Queen Latifah, Monie Love e A Tribe Called Quest. Da par loro, Q-Tip – nato Jonathan Davis nel Queens – e il compagno delle superiori Ali Shaheed Muhammad (da Brooklyn, per servirvi), l’altra vecchia conoscenza Malik Taylor a.k.a. Phife Dawg e il vicino di casa Jarobi White vantano una ragione sociale cortesia dei Jungle Brothers e la lunga gavetta che sarà garanzia di durata.

NY horns.

Davis ha fatto capolino nell’88 in due tracce dell’esordio dei “mentori”, Straight out the Jungle, e un anno dopo in una Buddy che è tra i vertici di Three Feet High and Rising, della quale viene approntata una versione alternativa con l’esplicativo sottotitolo Native Tongue Decision e la presenza di Phife. Prove tecniche per il debutto su Jive (dopo che la Geffen ha respinto un demo al mittente…) con un’incalzante e funky Description of a Fool che spiana la strada all’album People’s Instinctive Travels and the Paths of Rhythm, fuori nella primavera 1990.

Boombox e via andare.

Caleidoscopico e policromo, è trainato da singoli favolosi, caratterizzati come il resto del programma da una produzione (ne è responsabile Q-Tip) ingegnosa per la naturalezza con la quale incastra rime fluide, ricercatezza ritmica e samples che esulano dalle usuali coordinate. L’eclettismo permette di passare con disinvoltura da una vena comica che fa un uso arguto dello scratching (Pubic Enemy, After Hours) a sensuali serenate in jazz condite dal sitar (Bonita Applebum), da un’irresistibile Can I Kick It?, che campiona Lou Reed e Lonnie Smith, alla latineggiante I Left My Wallet in El Segundo, dall’ilarità scattante aromatizzata R&B di Luck of Lucien alla sinuosa Footprints.

Ballare al supermercato, ballare davanti all'edicola, ballare ovunque.

A impressionare sono inoltre episodi sofisticati che poggiano su beat robusti e su sintetizzatori pescati dalla fusion degli anni Settanta, come l’atmosferica, articolata apertura di Push It Along, una stranita Rhythm (Dedicated to the Art of Moving Butts) e il cyber soul Mr. Muhammad. Notevolissimo quanto a ingegno, estro e inventiva People’s Instinctive Travels and the Paths of Rhythm. Ma, incredibile a dirsi, il meglio deve ancora arrivare.

Tutto quel jazz

Non è semplice spiegare a chi nel 1991 era troppo piccolo, o magari nemmeno era, che autunno “caldo” fu quello dell’ultimo anno che sconvolse il rock. State a sentire: il 24 settembre, ad accompagnare un Nevermind destinato a cambiare le cose in modo radicale non soltanto sotto il profilo artistico c’erano Blood Sugar Sex Magik e Badmotorfinger. Era il giorno dopo la pubblicazione di Screamadelica e, nell’imbarazzo della scelta, potevi uscire dal negozio con sotto mano una copia di The Low End Theory e la netta sensazione di trovarti nel bel mezzo di un momento epocale.

In quei giorni, infatti, anche l’hip hop è al limitare di un’evoluzione che è riduttivo definire fulgida. Eppure, nel biennio abbondante che separa l’imporsi dei De La Soul da The Low End Theory alcune cose sono cambiate: nelle fila dei nostri eroi Jarobi ha dato forfait e Phife, scopertosi affetto dal diabete, ha meditato di mollare il colpo, ma per fortuna ha cambiato idea grazie all’opera di convincimento dell’amico Jonathan. Intanto, dopo l’aureo triennio ‘86-‘89, il rap inizia a mettere progressivamente da parte giradischi e campionatori pur seguitando a lanciarsi in ardite sperimentazioni, prima fra tutte il connubio con il jazz.

Nel contesto, il trio di New York si riallaccia alla tradizione con un atteggiamento positivamente iconoclasta. Azzardando un po’ (ma in fondo nemmeno tanto…) è merito del loro influentissimo secondo album (en passant: adorato da Madlib e 9th Wonder come da Nas e Kendrick Lamar) e di altri personaggi chiave come Gang Starr e Roots se siamo circondati da un jazz contaminato e felicemente attuale. Mentre nel mondo i muri crollano a ripetizione, The Low End Theory assesta una spallata all’ingessato mondo dei jazzisti e contemporaneamente costruisce sulle macerie che ha attorno, schivando la fastidiosa sensazione di posticcio che caratterizzerà altri esperimenti di analoga natura.

Jazz ne abbiamo?

Nessuna finzione, qui: non da parte di chi, nella fusione tra due anelli della storia della black e della popular music, sta compiendo un pionieristico passo avanti perché sa come mescolare tra loro i linguaggi e le fonti. E sa che bisogna insistere, finché non è più possibile (né tanto meno necessario) distinguere tra batterie campionate e suonate, tra la voce lontana ma sempre presente dei samples e la presenza in carne e ossa del maestro Ron Carter.

Dopo aver costruito un singolo sulla linea di contrabbasso più celebre del rock, ora lo strumento è nelle mani di uno dei più fidati scudieri di Miles Davis: dichiarazione d’intenti chiarissima e segno evidente che il jazz, diventato l’elemento principale della ricetta, si trasforma da mezzo in messaggio.

Versi concreti

Il che equivale ad affermare che passato, presente e futuro vivono nello stesso attimo e che quello stesso attimo rappresenta uno dei vertici assoluti dell’hip hop. L’improvvisazione è il tratto comune che costruisce un solido ponte dove viaggiano le seduzioni melodiche e l’interazione tra Q-Tip e Dawg, nondimeno è su “low” ed “end” che va posto l’accento. Sulle frequenze basse che restituiscono il calore e le pastosità di un disco con infiniti tentativi di imitazione e poggiato su un minimalismo curato nei dettagli.

Lo stesso vale per una scaletta dalla rara unità d’insieme: Excursions spiega l’aria che tira con un rotondo groove, tagliato in orizzontale da un intreccio di fiati e voci fino al contrappunto dell’ombrosa Buggin’ Out, laddove Rap Promoter e Everything Is Fair modernizzano il funk urbano e Vibes and Stuff è rallentata, meditativa. Se in Verses from the Abstract il talento supremo di Carter si salda a scintillanti venature soul, la pregiata stoffa di Butter, Show Business e The Infamous Date Rape possiede classe e slancio, Jazz (We’ve Got) avrebbe fatto la sua figura nei solchi di Blue Lines, What? è guizzante e Skypager complessa con stile.

Rime ne abbiamo?

La somma restituisce un capolavoro dall’ottimo riscontro critico e di vendite, anche in virtù di singoli fortunati come la perentoria Check the Rhime e una trascinante Scenario dove compaiono i Leaders of the New School della futura stella Busta Rhymes. Sistemata la pietra miliare, da qui in poi non si va assolutamente in discesa. Anzi, gli A Tribe Called Quest riusciranno a variare gli schemi in una discografia smilza ed esente da pecche, scandita tra periodiche separazioni e rimpatriate gestite con la dignità degli autentici grandi.

Trova Busta.

La dice lunga che l’ultimo capitolo della saga, We Got It From Here… Thank You 4 Your Service, coincida nel 2016 con la dipartita di Phife Dawg, disegnando un cerchio chiuso nel quale ci si guarda indietro e allo specchio con profonda maturità. Da veri grandi, per l’appunto. E allora, signore e signori, potere alla parola, ma soprattutto al basso!

A Tribe Called Quest Ali Shaheed Muhammad De La Soul 

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