Il vostro corrispondente è felice di comunicarvi che, con alle spalle quattro decenni e mezzo di carriera vissuti da venerati Maestri, gli Wire godono di ottima salute e guardano ancora avanti. Incredibile per chiunque, ma di certo non per loro.
L’istinto affonda le radici nella cultura in cui sei cresciuto e in ciò che ti accade intorno. In un certo senso, così gli Wire sono gli stessi di quarant’anni fa. (Colin Newman)
Il segreto di una carriera ad altissimi livelli che vanta innumerevoli tentativi di imitazione sta nel reinventarsi. Anche quando l’artista è l’unico a percepire la mutazione e il movimento, l’essenza dei fatidici ch-ch-ch-ch-changes si traduce in una rinascita necessaria, perché se maneggi l’arte rock devi saper filtrare la realtà circostante – la tua e quella altrui – per restituirne una visione il più possibile universale. Sempre e comunque. E quando non ci riesci più, dovresti smettere.
Venendo al punto, anche nel terzo millennio nessuno è Wire più degli Wire: fedeli a una linea che c’è anche se non si vede, se fossero un partito politico il loro motto sarebbe “cambiamento nella continuità”. Da sempre inclassificabili e sfuggenti, alle soste lungo il viale dei ricordi preferiscono affrontare curve pericolose con invidiabile disinvoltura. Anche questa si chiama saggezza d’artista e Colin Newman, Graham Lewis, Bruce Gilbert e Robert “Gotobed” Grey ne posseggono in quantità industriali.
Da bravi inglesi, però, sarebbero i primi a scatarrare su certe parole, salvo ammettere con sogghignante aplomb che un contributo all’evoluzione della musica popolare l’hanno dato eccome, e che stanno continuando a darlo senza salire sul carrozzone del revival. Non è – non sarà mai – da loro. Stiamo parlando di gente che non separa l’etica dall’estetica, né l’istinto dalla ragione. Di gente che non è ritornata perché non è mai sparita. Ma guarda, una perfetta argomentazione “alla Wire”: minimale, inconfutabile, punk come può esserlo Samuel Beckett.
In fondo, prendersi delle pause per cercare il modo più adeguato di dire altro è una forma di rispetto per il pubblico e per se stessi. È il nord magnetico di ogni capolavoro che appartiene sia all’oggi che a un’epoca precisa, di una band che in ogni tappa del proprio percorso incanala nella contemporaneità l’energia e la lezione del passato. Che proprio in ragione di ciò può dirsi uguale ma diversa.
Anche se molti girano la testa dall’altra parte e fanno finta di niente, la nostalgia conduce al coma artistico. Nel frattempo, il gusto medio si estende, chi sta fermo in realtà va indietro e, a un dato momento, tutto si gioca nel limite entro il quale ti evolvi conservando lo spirito originario. Alla faccia del “no future”, bisogna andare avanti. Di ciò gli Wire sono consapevoli al punto da aver intitolato un album Il cambiamento ci si addice. Uno slogan che spiega alla perfezione chi, geniale come pochi, è diverso da tutti. Se stesso incluso.
Non ho mai ascoltato una nostra copia che fosse vagamente convincente. (Colin Newman)
Come sottolineato a proposito dei Roxy Music, le scuole d’arte britanniche sono un’immensa fonte di talenti e gli Wire non costituiscono eccezione. All’Art College di Watford, nel ‘76 il cantate/chitarrista ventiduenne Colin Newman frequenta le lezioni di Peter Schmidt, chiacchiera per ore con Brian Eno e allestisce gli Overload assieme a George Gill e al tecnico audiovisivo e pittore Bruce Gilbert, un classe 1946 con trascorsi di blues ed elettronica d’avanguardia.
I ranghi sono completati dal bassista principiante Graham Lewis, un anno in più di Colin e laureato in Fashion Design che lavora nella moda. La sua innata curiosità si incastra con estrema precisione tra la naïveté consapevole e l’esperienza degli altri due e lo stesso Robert Gotobed, batterista autodidatta nato Grey nel ’51 e diplomato al Thames Polytechnic.
Il retroterra è eterogeneo ma non privo di elementi di contatto, pertanto la forza appartiene al collettivo. Non subito, però: si comincia con brani di Gill pieni di assoli, finché costui non viene estromesso e i ribattezzati Wire optano per fare tabula rasa. Nella primavera del ’77, al Roxy incontrano Mike Thorne, produttore della EMI intento a registrare la compilation dal vivo The Roxy, London WC2. Afferrato il valore della formazione, cattura al volo Lowdown e 12XU, ma innanzitutto tanto fa e tanto briga da spuntare un contratto con la Harvest.
Negli uffici della filiale “prog” del colosso discografico credono di aver finalmente trovato i Pink Floyd della nuova generazione. Una boutade? Nemmeno per sogno. Anche se il riferimento più centrato sono appunto i primi Roxy Music, il quartetto riesce a fondere cervello e muscoli con particolare arguzia, come dimostra l’irresistibile Mannequin, singolo novembrino che spiana la strada all’album Pink Flag, nel quale, con la regia di Mike, si estremizza l’ideale del ‘77 per renderlo sul serio rivoluzionario. Gli Wire destrutturano per ristrutturare con canzoni dirette e brevi, battiti di ciglia innervati da una tensione incorporea e un affascinante falso distacco.
Un po’ come se i Ramones fossero cresciuti a Neu! e Syd Barrett, a Roxy e T. Rex, ventuno brani scorrono in trentasei minuti. Eppure la matematica è un’opinione, poiché il peso artistico risulta inversamente proporzionale e, rimosso il superfluo, lo spazio di manovra è ampissimo. Non manca nulla: dissonanza, impatto, coesione, sarcasmo. Tuttavia, se il punk punta a eliminare artifici e fronzoli, il primo 33 giri degli Wire compie la medesima operazione sul corpo del punk. Prima ancora che diventi ortodossia, si proietta già oltre e scava nel suo midollo.
Perfezionando l’estetica del frammento e la poetica dell’inaspettato, trova la scintilla del crescendo alienato ma flessuoso di Reuters e dei Kraftwerk liofilizzati con le chitarre di Three Girl Rhumba, del post garage insieme epidermico e razionale di Start to Move, 106 Beats That, Fragile, Surgeon’s Girl e Feeling Called Love, degli affondi a elevato tasso di memorabilità Ex Lion Tamer, Mr Suit e Champs.
In una misurata impaginazione, i punk pop che schizzano come biglie sul pavimento (Field Day for the Sundays, Brazil, It’s So Obvious, Straight Line) scoprono un contrappunto negli anticipi di futuro della title track, di una storta Strange, delle citate Lowdown (funk rallentato che inventa i Fugazi) e del proto-hardcore 12XU che finirà dritto nel repertorio dei Minor Threat. Il tipo di disco che fai una volta sola, Pink Flag. Infatti si volta pagina immediatamente.
Se hai delle idee, nell’arte c’è sempre spazio per aggiungere qualcosa di tuo al già detto e tramutarlo in una cosa diversa. (Colin Newman)
La primavera seguente il gruppo parte da Strange sulla base di precisi fattori: una risoluta vocazione al cambiamento, la necessità sul serio trattata da “madre dell’inventiva”, un primo LP che, contrariamente alla norma, non è frutto di anni trascorsi a limare il suono sul palco. Ultimo ma non meno importante, Mike Thorne: oltre a occuparsi delle tastiere (che comparivano anche in Pink Flag, distorte fino all’irriconoscibile) e di supervisionare un’effettistica allo stato dell’arte, esce dal tradizionale ruolo del produttore per collocarsi in una posizione allo stesso tempo esterna e partecipata.
Non finisce qui. La grandezza e la longevità degli Wire stanno anche in un intreccio di idee e tematiche così stretto da garantire angolazioni sempre inedite. Insieme al lavoro minuzioso e innovativo su tessiture e atmosfere, la multidimensionalità è tra i punti di forza di Chairs Missing, che nel settembre 1978 aiuta il “quartetto più uno” a salutare il punk e porre le fondamenta del dopo. Si attinge l’ispirazione dal rock prefissato kraut e art, dall’Eno del pop bislacco e dell’ambient, nondimeno il carattere è unico come la spontanea complessità e la ricerca armonico/melodica.
L’espressionismo teatrale e gli angoli smussati di Practice Makes Perfect spalancano lo spiazzante universo in cui si agitano la cascata cristallina e il refrain acid pop di French Film Blurred, la new wave cameristica Used To, una Outdoor Miner malinconica e orecchiabile, l’esagitata e circolare Another the Letter. Se I Am the Fly è indecisa tra Kafka e Lynch, le slanciate Men 2nd, Sand in My Joints, From the Nursery e Too Late ricollegano le nuove fogge all’esordio e la ricerca tocca altre vette nella rassegnata angoscia di Marooned, nel gotico in paranoia di Being Sucked in Again, nell’onda che in Heartbeat cresce e sfuma imitando il battito cardiaco, in una Mercy splendidamente indecisa tra minaccia e distensione. Formidabile, a farla breve.
In estate una visita in America ha sparso semi preziosi e nel marzo ‘79 gli Wire chiudono un cerchio fungendo da spalla ai Roxy Music. Nelle date europee presentano numerosi inediti destinati a confluire sul terzo album, da molti reputato il loro capo d’opera assoluto. Non chiedeteci di scegliere, tuttavia sappiate che in 154 sonorità, metodi e concetti giungono a inarrivabile compiutezza e perfetta orchestrazione.
La teoria di un “astrattismo concreto” nel quale sperimentazione fa rima con canzone diventa prassi grazie al Bryan Ferry oscuro di I Should Have Known Better, alla disturbata leggiadria di 40 Versions, a efficaci ipotesi di motorik sotto sedativi come Two People in a Room, Single K.O., On Returning e Once Is Enough. Se The 15th, Blessed State e Map Ref. 41°N 93°W vivono di una cantabilità slanciata e sferica, The Other Window e Indirect Enquiries spargono vetriolo sul Bowie berlinese, A Touching Display è un’agile mini suite cosmico-urbana e A Mutual Friend un sensazionale mutante psichedelico.
Al di là di ogni riferimento, è una cifra stilistica netta e modellata che si impone e fa scuola all’istante. Tre album, tre classici, un canone creato e sviluppato appieno è prossimo all’esaurimento. Frattanto alla EMI storcono il naso all’idea di promuovere 154 facendo leva sull’aspetto visivo, perché ritengono che in televisione la musica non funzioni. Verrebbe da ridere, se ciò non causasse la rottura. Dopo una provocatoria performance dadaista al londinese Electric Ballroom del febbraio 1980 (salutata da lanci di bottiglie e recuperata in Document and Eyewitness) e il brillante 7” su Rough Trade Our Swimmer / Midnight Banhof Café, gli Wire si separano. Per cinque anni andrà in onda qualcosa di completamente diverso.
Senza una ragione non vai da nessuna parte. Se quella ragione riguarda l’arte, che senso ha se non hai nulla di nuovo da proporre? (Colin Newman)
Il modo più efficace per capire come “funzionano” gli Wire è considerarli un organismo. La caratteristica principale? Una sorprendente capacità di trasformarsi conservando tratti delle precedenti incarnazioni e di reagire assorbendo ciò che accade intorno e dentro di sé. In un gruppo accusato di freddezza, a fare la differenza è un vissuto che si mescola con l’(auto)analisi e trasfigura le emozioni in chiave surrealista, assecondando la determinazione a non ripetersi ed evitando gli sterili intellettualismi e le opzioni comode.
Inoltre, gli Wire hanno il dono non comune di sapersi fermare nell’attimo in cui le possibilità evolutive sono all’apice. Di conseguenza, anche se imprevedibile, ogni tessera del loro mosaico è sempre al posto giusto. Persino l’ironica definizione “combo beat” con la quale riappaiono a metà anni Ottanta dopo le rispettive esperienze soliste. Nel contesto di una fitta attività, con A-Z Colin ha aggiunto un’apprezzabile postilla a 154 e, dopo la produzione dei Virgin Prunes, ha visitato l’India. Dal canto loro, Gilbert e Lewis hanno estremizzato il lato avantgarde in una serie di lavori solisti e con le sigle Dome e Duet Emmo.
Quando si ritrovano, con una fantastica presa di posizione (e di fondelli…) da Monty Python velenosi, nei concerti ignorano il trittico iniziale e ne affidano a una cover band l’esecuzione. Agli Wire interessa altro, in primis spiegare cosa sono nel 1987 e recapitare il pop wave in salsa elettronica di The Ideal Copy. In una parafrasi astratta dei New Order che frequenta gli angoli meno illuminati della pista da ballo, fotografano il presente che hanno ampiamente già delineato e, con un’eleganza stralunata tra sintetico e organico adattissima alla nuova scuderia Mute, scoprono venature etniche in The Point of Collapse, suscitano l’invidia del fan Peter Hook con Ahead e affidano l’introversione a Feed Me e Still Shows.
Persuasive prove generali per A Bell Is a Cup… Until It Is Struck, che nell’88 riconverte gli Smiths al post-punk con il beneplacito degli XTC (The Queen of Ur and the King of Um, Free Falling Divisions, Kidney Bingos) offrendo trame elaborate che enfatizzano le melodie (Silk Skin Paws, The Boiling Boy, Come Back in Two Halves) e carezze destabilizzanti (The Finest Drops, It’s a Boy, A Public Place). Non pensate però a una normalizzazione, ché nel giro di un annetto It’s Beginning to & Back Again usa frammenti “live” per sviluppare squadrature (The Finest Drops, German Shepherds), laconicità (Public Place, Over Theirs) e un’azzeccata Eardrum Buzz devota a Andy Partridge.
Di nuovo, l’approdo ultimo è su lidi sperimentali: nel 1990 Manscape gioca con sintetizzatori, sequencer e spigoli “non dance” convincendo nella spigliata Patterns of Behaviour e l’orientaleggiante Morning Bell, con l’allucinata concitazione di Torch It e la house wave Other Moments. Perplesso circa il proprio ruolo, Gotobed se ne va. Senza batter ciglio, gli altri lo rimpiazzano con una drum machine, si ribattezzano Wir – tranquilli: la pronuncia non cambia – e nel ‘91 pubblicano un The First Letter che rasenta la glacialità.
Benché interessante, è comunque inferiore a The Drill, costruito su versioni del semiomonimo tour de force e sulla scheletrica potenza soprannominata dal gruppo dugga: apparso nell’86 sull’EP Snakedrill e sviluppatosi in concerto fino a toccare la mezz’ora, il brano viene rivisitato tra pulsazioni, martellamenti, dance per nevrotici e anelli di congiunzione tra Harmonia e Orbital. Il momento è propizio per un’altra dissolvenza.
Non ci sentiamo a nostro agio con il revival, siamo troppo interessati alle novità. Deve essere un tale tedio essere pezzi da museo… (Colin Newman)
Non è millanteria, ma la pura verità. Nel nuovo millennio gli Wire mostrano vigore e creatività tali da spazzare via gli imitatori e la vecchia guardia. Con una strategia obliqua, riappaiono dopo un intervallo che ne ha sottolineato importanza e contemporaneità: a dispetto dell’assenza fisica, li abbiamo ascoltati nel post-rock, nell’alternative, nel britpop, nell’elettronica. Dentro quiete, rumore e ciò che vi è nel mezzo, gli anni Novanta hanno portato con sé quella musica viva e multiforme. Intanto, i magnifici quattro hanno preso nota e condotto vite e carriere parallele. Con Robert nuovamente in squadra, nel Duemila strapazzano i “vecchi successi” con la furia implacabile e compassata che esplode dai due EP Read & Burn incisi e pubblicati in autarchia.
Parzialmente ripescati con altre tracce, nel 2003 vanno a costituire l’album Send, un miracolo saturo di chitarre e ritmo, di impeto geometrico e intensità fragorosa che non lasciano scampo. La modernissima concezione del (post-) punk e un atteggiamento più incompromissorio che mai si prendono ciò che è loro e gli spetta in assalti al calor bianco (In the Art of Stopping, Comet), essenzialità che appiccica al muro (Being Watched, Half Eaten), lezioni impartite a Ministry e Nine Inch Nails (Nice Streets Above, Read and Burn) come a Helmet e Steve Albini (Spent), tensione spezzata da abbaglianti crepe (Mr Marx’s Table, The Agfers of Kodack, You Can’t Leave Now) e magistrale senso della dinamica (99.9).
Nonostante il forfait dell’esausto Bruce, la crisi è superata serrando le fila e inaugurando un ciclo che sfocia nel presente con maturità autoriale e una più pronunciata apertura emotiva. In scia ai Githead, pregevole progetto varato da Newman con la moglie Malka Spigel, Robin Rimbaud/Scanner e Max Franken, nel 2008 il policromo Object 47 rimanda al passaggio da Pink Flag a Chairs Missing col senno dell’oggi. Spiccano una Hard Currency che sparge elettricità su Mezzanine, la frenesia pastello di Perspex Icon e una ribollente All Fours, esempi di black vigorosamente aliena (Mekon Headman, Four Long Years) e ipnotiche spirali (Circumspect, Patient Flees).
Ancora un triennio e, tra il Ferry krauto di Please Take e l’omonimo acid-folk, Red Barked Tree sistema saggi di accuratezza umanista, ineffabile art-punk, funk candeggiato, new wave ultrapop. Soprattutto, vanta una chiarezza di idee e intenti sconosciuta ai più e corroborata dal piacere del rischio che contraddistingue Change Becomes Us, dove con Matt Simms (subentrato a Gilbert dopo la breve permanenza di Margaret Fiedler) si rivedono appunti del ‘79-’80 in canzoni di esperienza e innocenza. Lungi da essere un addio, nel 2015 un 33 giri omonimo dispiega la limpidezza di Blogging e High, l’indie-wave da manuale di Shifting, In Manchester e Swallow, le clamorose architetture di Sleep-Walking e Harpooned.
Un gioiello di caratura pari a Silver / Lead, che saluta gli “anta” del ’77 con un inimitabile, inossidabile marchio di fabbrica e vertici nel secco rutilare di Short Elevated Period, in una Diamonds In Cups dove Marc Bolan rinasce, nella Brio che riscrive la grammatica degli XTC, in una Sleep On The Wing che adatta tinte e pennelli dei Go-Betweens. Conoscenza della storia e consapevolezza del ruolo di maestri sono le coordinate seguite nel gennaio 2020 in Mind Hive, nel quale Johnny Marr rinuncia serenamente a Morrissey (Off the Beach, Cactused), le atmosfere tetre si attenuano ma restano inquiete (Oklahoma, Hung) e respiri la perfezione che non stanca (Be Like Them, Humming).
La terza – quarta, se calcoliamo il “dopo Gilbert” – vita degli Wire scrive un altro capitolo del romanzo che da quarantacinque (!) anni richiede attenzione e impegno, ma ripaga con profondità rara e duratura. Giusto così, siccome oggi l’impresa più controcorrente è fermarsi, riflettere, approfondire. Di nuovo, significa essere punk come una volta: rispettare se stessi, la musica e chi l’ascolta. Così gli Wire ricordano al mondo di essere un genere come Velvet Underground, Can, Beatles. Autentici grandi che vivono il loro tempo mentre raccontano futuri che ancora devono avverarsi. Sempre in direzione ostinata e contraria, come solo ai giovani veterani è concesso.
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