L’incontro con la Constellation, Efrim Menuck e gli altri membri dei Godspeed You! Black Emperor e la nascita di un disco che suona, ancora, tanto naturale quanto ineluttabile.
Le esperienze che ricordiamo sono sempre quelle che si iscrivono sul piano inclinato del caso e mai sul tracciato di una linea retta. Vic Chesnutt è stato una personalità complessa e profonda per il suo modo di scandagliare le tortuosità dello spirito e toccare i nervi scoperti delle contraddizioni, utilizzando il registro di una musica antica e, in qualche modo, già definita in tutte le sue possibilità. Vic riusciva a contemperare, come un equilibrista esistenziale, urgenze differenti: da un lato la fedeltà a una sorta di radicalismo che guardava alla tradizione, la stessa da cui attingeva Will Oldham (pensiamo a Master and Everyone), dall’altro la volontà di spingersi in avanti per guardare al di là del confine di ogni cosa.
Sappiamo tutti com’è andata a finire, di come la sua vita abbia intrapreso una china di insostenibilità fisica e morale che lo ha condotto alla più insondabile delle decisioni. Proprio per questo sarebbe bello riuscire a fotografare l’attimo che precede la trasformazione, quel passaggio da uno stato all’altro della vita che ci porta oltre noi stessi, nel bene e nel male.
Con la morte, Vic Chesnutt aveva un canale di comunicazione speciale, sapeva come tenerla a bada da quando gli aveva sfiorato la pelle con le sue dita gelide. I’ve Flirted with You All My Life cantava nel 2009, lo stesso anno in cui si sarebbe tolto la vita la notte di Natale. Ma Vic, dopo l’incidente che lo ha costretto su una sedia a rotelle, è riuscito a contrapporre alla gravità che lo schiacciava la forza contraria della propria arte, ben oltre l’orizzonte di una mera rappresentazione simbolica del dolore. Ogni cambiamento ha una sua geologia che registra tanto i segnali premonitori quanto le scosse di assestamento, così la poetica di Chesnutt ha seguito le geometrie di un corpo che si è progressivamente deformato come le fibre legnose di una pianta che ha saputo adattarsi agli spazi ristretti in cui è condannata a vivere.
L’incontro con il collettivo di musicisti della label Constellation, in primis con Efrim Menuck e altri membri dei Godspeed You! Black Emperor – sotto la denominazione (una delle tante) di A Silver Mt. Zion – ha il valore di contingenze scritte da un destino comune. Si comprende allora che la distanza tra Athens e Montreal è pari allo spazio che intercorre tra spiriti affini che si cercano da sempre senza saperlo. Quella alchimia speciale fatta di tragedia e anarchia si è composta in una dimensione fuori dal tempo, racchiudendo un microcosmo che ha lasciato il mondo fuori, insieme al suo rincorrersi di vite che infliggono a se stesse una personale forma di dannazione.
Nasce così North Star Deserter, con la stessa naturalezza di un affluente che si confonde con il mare e la stessa ineluttabilità con cui ognuno di noi viene gettato nel mondo. Il fondale su cui scorre la musica è il background di un ensemble che parte da poli apparentemente lontani per ricomporsi in un liquido amniotico che accoglie folk, blues e devianze post-rock, dando vita a un flusso di coscienza che scorre sempre più veloce.
North Star Deserter supera la semplice sintesi tra Horses in the Sky degli A Silver Mt. Zion e Ghetto Bells dello stesso Chesnutt, entrambi pubblicati nel 2005 e da considerare significativi sul piano delle diversità di attitudini. North Star Deserter è qualcosa di unico in quanto cristallizzazione di un momento (im)perfetto e cesura tra un “prima” e un “dopo”.
L’opener Warm è un canto dimesso – fatto solo da voce, chitarra e contrabbasso di Thierry Amar – in cui c’è tutta la sostanza del linguaggio di Chesnutt, diventando una scheggia che ferisce e fa sanguinare. È però con Glossolalia che aumenta la densità per entrare nel fitto bosco di un alveo ancestrale in cui le voci si rincorrono insieme agli archi e si sovrappongono sino a diventare una innodia pagana.
Everything I Say è un’affilata lametta noise in cui si specchiano le ombre dei Fugazi (non a caso Menuck è affiancato alle chitarre da Guy Picciotto), mentre Wallace Stevens è una brevissima melodia infantile che lenisce le ferite e decomprime la tensione. Dopo il languido torpore di You Are Never Alone con la sua coralità avvolta dal tremolio delle chitarre e i rintocchi lievi della cover di Nina Simone Fodder on Her Wings, si spalancano le porte di Splendid che riluce di un’esplosione di colori vitali intessuti di field recordings, in un antagonismo con le escoriazioni della chitarra di Menuck.
In Rustic City Fathers la terra argillosa dell’Americana viene irrorata da una pioggia acida scaturita da un incedere claustrofobico prossimo proprio ai Godspeed You! Black Emperor, così come Debriefing che fa detonare tutta l’energia oscura elaborata nell’ultima fase dei GY!BE stessi, in forma di post metal. In chiusura, le lacerazioni elettriche di Marathon si fanno strada sotto l’epidermide di un sogno spezzato (vedi anche la cover dei Cowboy Junkies nel recente Songs of the Recollection), creando una resa emotiva quasi insostenibile.
North Star Deserter è il lasciapassare verso una terra di libertà, abitata da ombre che danno sollievo e abbracciano chiunque chieda di riposarsi, anche solo per riprendere il cammino. O più semplicemente un farmaco, nella doppia accezione di cura e veleno per l’anima.
Vic Chesnutt Godspeed You! Black Emperor GY!BE Sparlkehorse Mark Linkous