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Una volta alla settimana compiliamo una playlist di tracce che (secondo noi) vale davvero la pena sentire, scelte tra tutte le novità in uscita.

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... Tutte le tracce che abbiamo recensito dal 2016 ad oggi. Buon ascolto.

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A volte è necessario approfondire. Per capire da dove arriva la musica di oggi, e ipotizzare dove andrà. Per scoprire classici lasciati indietro, per vedere cosa c’è dietro fenomeni popolarissimi o che nessuno ha mai calcolato più di tanto. Queste sono le storie di HVSR.

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The Sound: musica di ombre, musica di luce

Il genio e i tormenti di Adrian Borland.

Al centro di questa storia c’è una vita breve e non molto felice appartenuta a un talento che il mondo ha deciso di ignorare. Perciò, a distanza di anni da che un pugno di splendide canzoni vedeva la luce e il loro autore iniziava a perdere il controllo, proviamo a fare un po’ di giustizia postuma.

Shadowplay

Esistono verità talmente ovvie da sfuggire alla vista. Sono lì, loro malgrado nascoste, pronte a rivelarsi con forza, oggettività e bellezza. A fare male però bene. Ve ne sarete accorti, per esempio, che viviamo alternando luce e ombra, chi ondeggiando nell’equilibrio e chi credendo di scegliere una delle due, quando invece tutti abbiamo dei lati bui. Senza di loro non riusciremmo ad amare il chiarore e, in ogni caso, non possiamo evitarli. Dobbiamo farci i conti, schiarirli, trafiggerli, attraversarli.

Lo chiamano “maturare”: è un processo che non si arresta mai, nel quale – Leonard Cohen docet – ci sono crepe in ogni cosa ed è così che entra la luce. Purtroppo, per qualcuno, da lì striscia solo un buio che ingoia. La notte del 25 aprile 1999 Adrian Borland scende le scale della metropolitana a Wimbledon, qualche ora più tardi si getta sotto un treno e chissà che in quel lasso di tempo non abbia pensato e ripensato. Più probabile che aspettasse il momento giusto, ammesso che esista. Aveva quarantuno anni, da parecchio conviveva con una grave depressione, aggravata da propensioni schizoidi e alcolismo, e a scrivere la parola “fine” aveva provato altre volte.

Non solo tennis.

Perdonatelo: siamo fragili castelli di carte che possono crollare al primo refolo di vento, figurarsi sotto i colpi di una tempesta crudele e prolungata. Sospeso tra lucidità artistica, progetti all’orizzonte (dischi, tour, le ristampe del gruppo che non lo ha reso famoso) e inquietudini radicate, Adrian temeva di non superare il malessere che lo stava divorando. Il punto, però, non è questo. Il punto è un talento cristallino che aveva raccolto pochissimo. Dunque, quanto a lungo può lottare un artista contro i muri di gomma che lo circondano prima di mollare il colpo?

A ritenere preziosi i Sound siamo quattro gatti che spesso si domandano perché. Perché pochi, benché devoti. Perché U2, Joy Division ed Echo & the Bunnymen sono patrimonio di un immaginario collettivo e i Sound no. Perché la stampa si lanciava in panegirici e il pubblico non recepiva. Perché durante i tanti revival della new wave Borland non è stato praticamente chiamato in causa. Puoi spiegarlo pensando alle incomprensioni tra gruppo e casa discografica, a un ragazzo dotato con troppo anticipo dell’aspetto da poeta della porta accanto, al mondo e al destino che non mancano di ricordare che razza di infami possano essere.

Forse c’è davvero gente con il percorso segnato, chi lo sa. Di certo, i Sound li abbiamo conficcati dentro al cuore e proviamo sempre ad allargare la cerchia dei cultori. Di noi che abbiamo accettato l’evidenza, ma non le ingiustizie. Noi che siamo grati a quest’uomo per ciò che ha (s)offerto.

Sense of purpose

Qualcuno è segnato, sì, nel male così come nel bene. Il manager dei Sound, Stephen Budd, ricorda che già quattordicenne quel mancino che suonava la chitarra aveva attorno a sé l’aura del genio. Nato nel 1957 a Hampstead (un distinto quartiere a nord del centro di Londra) da un fisico e un’insegnante, i suoi anni formativi sono dominati dal glam, che percorre indietro fino a radici che lo conducono a Velvet Underground e Stooges.

Outsiders di nome e di aspetto.

Roba fantastica che torna utile quando a Wimbledon fonda gli Outsiders, durati lo spazio di Calling on Youth, che gioca spigliato con impeto stradaiolo e ricordi glitterati detenendo dalla primavera ‘77 il record di primo 33 giri autoprodotto del punk inglese, e del seguito Close Up. Quando si sfaldano, ecco giungere Graham Bailey al basso e la tastierista/fiatista Bi Marshall. Mantengono il nome originario finché, con l’ingresso del navigato batterista Mike Dudley, segnano il passaggio dal punk all’attualità. Colui che della formazione è cantate, principale autore e insomma leader osserva alla finestra la new wave crescere tra cupezze urbane, minimalismo affilato e ricordi kraut e glam, poi getta le basi del cambiamento.

Intanto il repertorio è fotografato a cavallo tra ’78 e ’79 con modalità casalinghe non per modo di dire, poiché il gruppo immortala una dozzina di tracce nel salotto di casa con papà Borland a occuparsi dell’aspetto tecnico. Apparso solo nel 1999 su Propaganda, il materiale restituisce la transizione dove Iggy convive con la frenesia dei maestri tedeschi e la lezione arty dei Roxy Music in una versione “stilosa” degli Stranglers della quale colpisce lo standard compositivo elevato, prova ne sia che alcuni brani saranno presto ripescati.  

Patrocinato da Budd tramite il marchio Tortch, nel ’79 l’EP Physical World cala un tris trascinante e arguto: la strada imboccata è giusta e si entra negli Elephant Studios per confezionare un album pensando di restare con Stephen. Le cose vanno diversamente, siccome la Korova, una propaggine del colosso Warner, corteggia i londinesi dopo aver ascoltato le canzoni messe su nastro e nell’estate 1980 si raggiunge un accordo. Il risultato è l’album che chiunque (ovvero: quelli che non optano per From the Lions Mouth) considera il loro capolavoro.

Inciso con Nick Robbins e un budget limitato, Jeopardy racchiude effettivamente l’essenza della formazione: si può sostenere che non inventi nulla e che i riferimenti nel coevo post-punk siano palesi, ma in verità è più questione di influenze comuni a Joy Division e ai compagni di scuderia Echo & the Bunnymen. Nomi ai quali i Nostri sono spesso paragonati, anche se vantano una personalità che in parte attenua l’angoscia e baratta Doors e Television con differenti punti cardinali. Se vi pare poco…

Vi pare poco?

Unwritten Laws

I Sound, insomma, non sono da meno quanto a scrittura e capacità di porre in risalto le emozioni assecondando una chiave introspettiva. Parla chiaro la scaletta perfetta e multiforme di Jeopardy, che canalizza la rabbia in undici ruvide gemme intrise di nervosa, energica malinconia. Sfilano il cupo tambureggiare squarciato dal luccichio del ritornello di I Can’t Escape Myself, le trascinanti Heartland e Words Fail Me che sballottano Ian Curtis tra i riverberi di For Your Pleasure, le scudisciate dei Gang of Four e il piglio colto dei Magazine, omaggi per nulla scontati ai Neu! come Hour of Need e Night versus Day.

Competitivo chi? Io?

Se l’estesa Missiles frammenta con sapienza ambienti gotici, il punk riaffiora in un turbinare di lustrini per Heyday e Resistance, la title track strapazza i Simple Minds, Unwritten Law incede sinuosa e Desire chiude i giochi su un teso affresco metropolitano. Fascino che sarà duraturo, il loro, e che nel novembre 1980 assicura elogi critici a profusione, laddove il riscontro al botteghino è scarso anche per una distribuzione deficitaria – fuori dalla capitale l’LP è quasi introvabile – e la Korova che indirizza le risorse promozionali verso Liverpool.

Dopo un tour e una session per John Peel, alla Marshall subentra Max Mayers causa litigio con Adrian, tipo dalla natura competitiva che, sotto pressione, inizia a dare segni di squilibrio. Ciò non impedisce di consegnare entro dodici mesi From the Lion’s Mouth, compatta terra di mezzo tra Unknonwn Pleasures e Closer dove si soffia via la fuliggine del Nord industriale per modellare forme meno aspre. Con qualche soldo in più e la regia dell’esperto Hugh Jones – ennesima connessione con i Bunnymen, manco a farlo apposta – si concede spazio alle tastiere, sistemando lo spleen in sonorità stratificate e piegando l’urgenza in riflessioni ancora più profonde.

La mossa si traduce in un’altalena emotiva da manuale che, con maggiore uniformità sotto il profilo stilistico, vola alle medesime altezze dell’esordio, dai chiaroscuri atmosferici Contact the Fact, Judgement e Fatal Flaw alla morbidezza risoluta che caratterizza Winning, Sense of Purpose e Skeletons, passando per il motorik meditabondo di Possession, una The Fire indecisa tra Heaven Up Here e Kilimanjaro e una New Dark Age drammatica con misura.

E invece poi la storia l'hanno fatta i Cure.

Capolavoro nel capolavoro, Silent Air dipana quattro minuti di squarci nell’anima ricuciti da un’ipotesi di Smiths catapultati in pieno post-punk. Meraviglioso a dir poco e idem nel 1982 il guizzante singolo Hot House, tuttavia la solfa non cambia: critica in visibilio, vendite modeste, una condizione di culto che negli uffici dell’etichetta reputano insufficiente. I nodi stanno per venire al pettine.

Fatal flaw

Dopo due album eccelsi che commercialmente rappresentano un buco nell’acqua, la WEA prende le redini della situazione e insiste affinché si estraggano dal cilindro delle hit. Tuttavia non ha capito di avere a che fare con bastian contrari punk che, avvelenati per lo scarso sostegno ricevuto, in tutta risposta si rivolgono di nuovo a Robbins per innalzare le architetture scontrose di All Fall Down.

Opera dal titolo fin troppo profetico, va assimilata pazientemente e ripaga con trame elaborate e composizioni che, oggi come quaranta anni fa, emergono dalla distanza come l’ipnotico crescendo omonimo, una Red Paint che inventa gli Interpol, gli Wire tristallegri di Party of the Mind, la giostra circolare In Suspense, l’algido battere di Glass and Smoke. Il gesto risulta poco gradito ai piani alti, i Sound vengono messi alla porta, riordinano le idee e confermano la fedeltà al sottobosco indipendente accasandosi alla Statik.

Come gli Wire, ma più tristi o più allegri? I fatti suggeriranno: più tristi.

Ironia della sorte, da qui in poi regaleranno aperture melodiche più marcate senza perdere la faccia come certi colleghi e, soprattutto, senza rinunciare alle zampate d’autore. Su tutte spicca l’ottimo EP Shock of Daylight, sebbene meritino interesse e affetto anche il policromo Heads and Hearts, il vibrante doppio dal vivo In the Hothouse e Thunder Up, più che discreto commiato edito dalla Play It Again Sam. Il problema è la salute mentale del capobanda, che peggiora progressivamente, culminando nel 1987 con la cancellazione di svariate date spagnole e l’abbandono del palco nel bel mezzo di un concerto in Olanda.

Insanabile la frattura, lo scioglimento arriva nei primi mesi dell’anno seguente. Borland si assume ogni responsabilità, pur non riuscendo a far pace con l’accaduto nel corso di una carriera solista ben più che semplicemente dignitosa e passata tanto per cambiare inosservata. Infine, una notte primaverile di fine millennio chiude la vicenda di chi ormai aveva perso il controllo. Belli ma fragili, gli esseri umani, e qualcuno più di altri. Riposa in pace, amico.

The Sound Adrian Borland 

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