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Una volta alla settimana compiliamo una playlist di tracce che (secondo noi) vale davvero la pena sentire, scelte tra tutte le novità in uscita.

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... Tutte le tracce che abbiamo recensito dal 2016 ad oggi. Buon ascolto.

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A volte è necessario approfondire. Per capire da dove arriva la musica di oggi, e ipotizzare dove andrà. Per scoprire classici lasciati indietro, per vedere cosa c’è dietro fenomeni popolarissimi o che nessuno ha mai calcolato più di tanto. Queste sono le storie di HVSR.

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Ecco gli Smiths: i ragazzi con la spina nel fianco

Un'infinita corrente alternata per quella famosa luce che non si spegnerà mai. Nonostante tutto.

Una luce ci ricorda che nel pop i capolavori autentici sono quelli che resistono al tempo e alle mode. È una luce che ha brillato forte, e tuttora la troviamo ben conservata in canzoni che scorrono così lisce sulla pelle da non farci coccolare la complessità della vita. O forse sì?

Cantami, o diva, dell’adolescenza

Ma non dimenticare le canzoni che ti hanno fatto sorridere e quelle che ti hanno fatto piangere.

Alla fine, dopo tutte le possibili analisi sociologiche e stilistiche, si torna sempre all’essenziale. Alle canzoni che non invecchiano mentre noi e chi le ha scritte sì, talvolta pure con scarsa grazia. Perché nel tumultuoso mare dell’esistenza le canzoni possono soccorrerti come salvagenti, e chissà se ha tratto in salvo qualcun altro la Rubber Ring da cui ho tratto i versi che leggete all’inizio di ogni capitolo. Mi piace pensarlo.

Citato di rado, questo gioiellino sprecato per il retro di un singolo si intitola giustappunto “salvagente” e parla anche del potere che la musica ha di scuoterti da dentro. Per questo motivo nella mia testa gira un The Queen Is Dead “alternativo” che si chiude su questa tesa ipnosi, con quell’enigmatica voce che prosegue finché la puntina non si solleva dai solchi.

Visto che ci siamo, tanto vale mettere le mani avanti: nelle righe che seguono ho accantonato il minimo sindacale di obiettività che chi scrive dovrebbe (provare a) esercitare. Un po’ perché credo che partire dal dato personale sia l’unica maniera sensata di parlare di un gruppo per il quale sono stati versati fiumi d’inchiostro. Soprattutto, perché raccontare gli Smiths è una questione di cuore e ognuno ha il proprio.

Come a tanti altri, i quattro lads mi hanno offerto robuste ciambelle di salvataggio in un periodo di transizione fondamentale e difficile (beh, mi chiedo: ne esistono che non lo siano?). Di ciò e della bellezza della loro musica sarò eternamente riconoscente, nonostante oggi Morrissey sia una zitella acida e Johnny Marr un talento che non riesce a esprimersi completamente. È evidente che la grandezza del duo fosse nella reciproca interazione, anche se il “qui e ora” non ne sminuisce il lascito. Semmai lo ingigantisce, siccome alcune canzoni nel frattempo sono diventate un salvagente anche per chi le ha scritte.

Il cerchio si è chiuso, certo, ma solo in parte. Ogni generazione ha dei cantori dell’adolescenza, alcuni muoiono con lei e altri diventano adulti con chi li ascolta. Tempo dopo, nuove schiere di adolescenti raccolgono il testimone in una rigenerazione continua che incarna il segreto meglio custodito della popular music, di un’arte che nasce dall’anima per rivoltarne altre come calzini. Ecco. Chiedi chi erano gli Smiths, e in qualche confuso modo proverò a spiegarteli.

Tronchi di salvataggio.

Attenti a quei due

Sei scaltro, tutti lo sono di questi tempi.

Coppia più strana non potrebbe darsi, Morrissey & Marr. Il carismatico, linguacciuto ed erudito cantante con l’innata predisposizione alla polemica e il chitarrista abilissimo nel rendere semplice la complessità che farà scuola con un raffinato minimalismo. Legame delicato, va da sé, poggiato su polarità così opposte da completarsi e pazienza se durerà poco. Se ciò che univa finirà per separare.

A dispetto di un’importanza lampante, nell’eterna attualità di Internet non è facile capire che impatto hanno avuto gli Smiths negli anni Ottanta. Sembrava impossibile conseguire il successo con un look di ricercata ordinarietà, guardando ai Sixties per costruire un universo estetico di chitarre arpeggiate, melodie dolceamare, rimandi letterari e filmici. Senza dimenticare gli argomenti dei testi (affrontati con una profondità poetica non comune e da angolazioni uniche) e quel pantheon di copertine destinato a infinite imitazioni, le più pregiate quelle dei discepoli Suede e Belle & Sebastian. Era – è tuttora – un mondo perfetto nel quale rifugiarsi.

Per dire, va' che bel mash-up di copertine!

Una fiaba moderna, anche: assediati da edonismo e vacuità, ci liberano un ritrattista del disagio suburbano e uno dei musicisti più ispirati (e ispiranti) di ogni tempo. Scortati da una sezione ritmica potente e fantasiosa, lasciano una scia di dischi che si conficca nel cuore, cambiando lo scenario indie britannico ed esercitando un’influenza non indifferente – vedi alla voce Pavement e Built to Spill – anche oltreoceano.

Spallata definitiva ai rimasugli goth e new wave, il mulinare di sei corde abbracciato a un’ugola oppiacea e lamentosa non rappresenta una novità, ché a fondere Byrds e Velvet Underground da prospettive post-punk hanno già provveduto Go-Betweens e Orange Juice. All’epoca, però, gli uni sono confinati al culto e gli altri stanno per impantanarsi. Spetta ai quattro di Manchester scatenare una rivoluzione che metterà fiori non nei cannoni, ma nelle tasche dei jeans.

Il romanticismo realista degli Smiths è davvero qualcosa di nuovo. Un mirabile equilibrio tra rabbia giovanile e umorismo, introspezione e impegno che alimenta una musica altrettanto inaudita. E originale è infine il frontman, il quale – annota Paul A. Woods – rigetta il machismo insito nel rock’n’roll. Tuttavia, mi permetto di aggiungere, neppure gioca smaccatamente con l’androginia come accadeva nel glam.

In realtà, il ribelle casalingo e il fustigatore del sistema sono la stessa persona che riempie quaderni di liriche unisex dove il sex latita e si ragiona sull’amore. Un osservatore coinvolto fino a un certo punto, uno come noi ma diverso. Quello che sul muro appende le icone di Oscar Wilde, Shelagh Delaney e James Dean, facendole convivere con la stessa geniale sicurezza con cui il compare (che ricorda un Keith Richards dandy) colma lo spazio tra la Sun Records e gli Chic attraverso Buffalo Springfield, Bert Jansch, Pretenders. Opposti che si completano. Splendidamente.

Opposti che si completano, dicevamo. Almeno per un breve periodo.

Diavoli attraenti

Reggo la fiaccola nell’angolo della tua stanza.

Ci sono artisti che risulta impossibile scindere dal loro luogo d’origine. Gruppi che, si fossero formati altrove, sarebbero stati diversi o magari non sarebbero stati e basta. Per quanto riguarda gli Smiths, l’uggia che all’improvviso si trasforma in una coperta avvolgente ha il profumo del Nord Inghilterra: di cieli bassi e grigi, di lunghe file di case in mattoni rossi, di proletari che si arrabattano nel mestiere di vivere sognando una via di fuga.

Nato sotto il segno dei Gemelli il 22 maggio 1959, Steven Patrick Morrissey ha talmente tanti lati che finisce per essere tondo. Un tondo con spigoli in parte scolpiti da una giovinezza non esattamente idilliaca. Cresce con i genitori cattolici irlandesi a Hulme, quartiere popolare noto per i Moors murders, gli efferati omicidi perpetrati su ragazzi e ragazze giovanissimi da Ian Brady e Myra Hindley lungo la prima metà degli anni Sessanta. Il tipo di storia maledetta che segna, e così è per chi deve affrontare la discriminazione verso gli immigrati e un’educazione scolastica oppressiva e brutale.

Cambia poco dopo il trasloco a Stretford: le stampelle di un solitario bravo in atletica restano lettura, musica e la grafomania che spinge a inviare missive al Melody Maker e sceneggiature (rispedite al mittente) per la soap Coronation Street. Investito dal glam, il ragazzo si innamora delle New York Dolls e ne fonda il fan club britannico: da lì ai girl groups il passo è breve come l’infatuazione per James Dean. Dopo una serie di impieghi disparati, opta per spendere il sussidio in vinili e concerti, perché papà se n’è andato di casa ed è arrivato il punk.

Immaginatevela scritta dal Moz.

Nell’autunno 1977 canticchia in tali Nosebleeds e il successivo abboccamento con le glorie locali Slaughter & the Dogs non funziona. Anche se sono false partenze, chiunque conosce il riservato misantropo che bazzica la scena cittadina e scrive per il Record Mirror. Sorrido all’idea che potremmo aver perso un Alan Bennet prestato alla critica rock la sera in cui a Morrissey presentano il quattordicenne Johnny Marr.

La strada di John Martin Maher è una retta parallela che al concerto di Patti Smith dell’agosto ‘78 interseca per un attimo quella del futuro compagno di avventure. Anni dopo, a unire le rispettive traiettorie saranno origini e passioni comuni e una fortissima determinazione: scavezzacollo con le idee chiare, Maher è un classe 1963 venuto su a pane e dischi. Uno che ha mollato la carriera calcistica perché esiste la chitarra, solo la chitarra, nient’altro che la chitarra. Ha già militato in un una sfilza di complessi dopo aver cambiato nome per l’omonimia con il batterista dei Buzzcocks e, lasciati gli studi, si guadagna da vivere in un negozio di vestiti.

Ecco a voi Johnny Mar… ah no.

Nella primavera 1982, privo di un gruppo, decide di contattare lo spilungone che stava nei Nosebleeds. All’una di un soleggiato pomeriggio gli si presenta sulla soglia di casa, lo frastorna di chiacchiere e l’intesa scatta immediatamente. Buttano giù un demo dove le parole si incastrano spontanee sulle note, dando vita alla filastrocca The Hand That Rocks the Cradle e a una ballata incentrata sui Moors murders intitolata Suffer Little Children.

Manca ancora una ragione sociale, che trovano in autunno adottando il cognome più diffuso di Albione allo scopo di onorare la gente comune. Perché è di lei che parleranno le canzoni, trasferendo in ambito pop lo spirito del kitchen-sink drama e del teatro realista degli anni Cinquanta e Sessanta. Serve un po’ affinché la line up si stabilizzi con il batterista Mike Joyce e al basso un amico di Johnny, Andy Rourke. Dopo di che, sotto l’ala protettrice del manager Joe Moss, in dicembre gli Smiths registrano tre pezzi che cambiano il corso degli eventi.  

Il mondo ascolterà

E quando balli e ridi e finalmente vivi.

Ai primi dell’83, Morrissey e Marr consegnano la cassetta a Geoff Travis della Rough Trade e si accordano per un 45 giri. In maggio Hand in Glove è un fulmine a ciel sereno in virtù di una copertina teneramente omoerotica, del piglio triste e aspro, di intrecci elettroacustici punteggiati con l’armonica. Evidenti le radici, è un guitar pop mai udito: delicato però viscerale, come una lama che raschia la confusione e le insicurezze ed esibisce le ferite con orgoglio.

Sistemata sul retro la scudisciata live Handsome Devil, il dischetto vende benino e i concerti suscitano interesse crescente. Morrissey – lo Steven Patrick sparito definitivamente – ostenta gladioli nei Levi’s, John Peel convoca la band alla BBC e Travis, pur di non lasciarsela sfuggire, offre l’anticipo più alto sborsato fino ad allora. Affare fatto. A dare una spinta contribuiscono in misura non trascurabile le interviste. Una cuccagna per la stampa, il cantante sagace, polemico e tagliente proprio come un moderno Wilde.

Sotto il manipolatore mediatico c’è parecchia sostanza, considerando che This Charming Man centra la venticinquesima piazza con un saltellante, stratificato folk rock a presa rapida. Se resta negli annali un’esibizione a Top of the Pops da pesci fuor d’acqua sul punto di diventare eroi, il gioco delle controversie diventa un’arma a doppio taglio nel momento in cui il Sun orchestra una campagna diffamatoria con accuse di pedofilia.

«Perché lo faccio? Non vedi che io non ci vorrei stare qui?».

Morrissey risponde per le rime, cavalca l’onda del “purché se ne parli” e il seguito si infoltisce. Il trascinante Bolan girato Mersey di What Difference Does It Make spazza via tutto, salendo al numero 12 con le ancelle di alto rango Back to the Old House e These Things Take Time. Ora di mettere mano all’album, ma non sarà una passeggiata. Moss ha annunciato che non può più occuparsi del gruppo ed è un bruttissimo colpo.

La produzione viene affidata a Troy Tate dei Teardrop Explodes, che punta a cogliere l’energia sprigionata sul palco a discapito delle finezze, scontentando una band assai concentrata. Interviene l’esperto John Porter, tuttavia è palese che il missaggio non possa modificare alcunché. Si rifà tutto da capo, privilegiando i chiaroscuri e le sfumature mentre Marr guarda e impara i trucchi del mestiere. A inizio 1984 The Smiths è nei negozi in una copertina iconica (si scorge Joe Dallesandro in un film di Andy Warhol) e, per quanto bellissimo, la sua perfezione potenziale lascia un pochino di amaro in bocca.

Il tizio è lo stesso che presta il "pacco" alla copertina di Sticky Fingers dei Rolling Stones, solo inquadrato un po' più in alto.

Malgrado ciò, si tratta di un vero spartiacque dove accanto a due lati A del summenzionato tris d’assi – esclusa di lusso This Charming Man – sfilano voli pindarici (la malinconica leggiadria di Reel Around the Fountain, un’esaltante Still Ill che legge Rubber Soul in chiave post-punk) e pregevoli variazioni sul tema come la rabbiosa You’ve Got Everything Now, una I Don’t Owe You Anything giocata alla pari con gli Aztec Camera, i folk wave circolari Pretty Girls Make Graves e The Hand That Rocks the Cradle. Basta e avanza per cancellare l’irritante Miserable Lie e condonare un filo di prolissità a Suffer Little Children.

Poiché i sogni son desideri, Morrissey riporta sulle scene Sandie Shaw con una cover di Hand in Glove, sebbene contino molto di più i cambi di passo e umore di Heaven Knows I’m Miserable Now e Girl Afraid, la distribuzione negli Stati Uniti via Sire e l’apice di fine anno. Dei lavori concepiti per il mercato dei singoli, William It Was Really Nothing è senza dubbio il migliore, una delizia che riepiloga e getta ponti sul domani. La title-track scintilla come il sole tra le nubi dopo una pioggia primaverile, Please, Please, Please, Let Me Get What I Want strugge accarezzando un mandolino e How Soon Is Now? è LA canzone degli Smiths se è di pura creatività che parliamo.

Un classico assoluto, quei sei minuti e quaranta secondi di psicodramma in cui Marr pennella strati di chitarre ed effetti inventano lo shoegaze, muovendosi in acrobazia tra Bo Diddley e una psichedelia inquieta. Saggia la scelta di includerli nel corposo Hatful of Hollow con materiale pescato da 7” e 12” e aggiungendo le ruvide, eccellenti versioni delle session radiofoniche. Caso raro di compilation che restituisce l’identità di una band, suggella dodici mesi trionfali e una fase. Morrissey si appresta a uscire dalla cameretta mentre Johnny sta affinando l’elettricità.

Versione dimezzata quella con il video, ma riassume il tutto bene lo stesso.

Il funerale della regina

Mi ami come una volta?

How Soon Is Now? è la pietra (miliare) sulla quale gli Smiths mutano con intelligenza e continuità. Per il 33 giri successivo si autoproducono, avvalendosi del fondamentale apporto di Stephen Street, conosciuto durante la lavorazione di Heaven Knows I’m Miserable Now e destinato a rimanere. Ben gliene incoglie, dato che Meat Is Murder rifinisce il jangle pop e approfondisce le influenze americane con invidiabile compattezza.

Johnny cava dalle tasche trame complesse e Morrissey passa dal personale al politico – eloquente la fotografia sul fronte della confezione – mescolando le visuali fino a confonderle. Elevato il livello della scrittura, la cima viene raggiunta grazie al proto-dream pop That Joke Isn’t Funny Anymore, a rockabilly impetuosi (Nowhere Fast) oppure spruzzati di un caramello che non genera carie (Rusholme Ruffians), a cantilene ossessive e tenebrose (The Headmaster Ritual).

La foto risale al 1967 e ritrae un marine americano (tal caporale Michael Wynn). L'originale aveva scritto sull'elmetto «Make war not love», frase opportunamente cambiata dal Moz in chiave vegana. Il fotografo, Emile de Antonio, dichiarerà successivamente che a lui nessuno ha mai chiesto il permesso di usarla per la copertina del disco e che «non era molto contento» al riguardo.

Ancora: l’accorata Well I Wonder è un diamante di sublime tristezza, Barbarism Begins at Home sorprende con un dilatato funk che collega i Roxy Music di Manifesto ai concittadini A Certain Ratio, le impetuose I Want the One I Can’t Have e What She Said conservano l’emotività che è tratto distintivo. Solo il brano omonimo gira a vuoto con un sermone a favore del vegetarianesimo sacrosanto dal punto di vista etico ma musicalmente monocorde.

Inarrestabile, Moz dispensa fiele per la Thatcher e i consumatori di carne, per la famiglia reale e Bob Geldof. L’eccesso di esposizione danneggia i 45 giri Shakespeare’s Sister / Stretch out And Wait (un’ottima ipotesi di Cramps britannici più una ballata in punta di dita) e That Joke Isn’t Funny Anymore, entrambi in regresso di vendite. Mentre legioni di gruppi ispirati ai Nostri assaltano le graduatorie indipendenti, non c’è riposo tra i concerti e le registrazioni di un terzo LP anticipato con la squillante The Boy with the Thorn in His Side, Rubber Ring e il carillon Asleep.

La scritta "Bad" sul collo, prima di Young Signorino.

La strada parrebbe spianata, tuttavia sotto la patina di clamore, consenso critico e prolificità serpeggiano le tensioni. Rourke (che ha problemi di tossicodipendenza) e Joyce lamentano gli esigui introiti, girano voci di abboccamenti in area major e Geoff tiene il disco in stallo per mesi. Si fa quadrato con risolutezza e la navigazione, pur se difficoltosa, conduce nel giugno 1986 al capolavoro The Queen Is Dead.

Nella summa estetica dove ogni elemento è dosato e amalgamato alla perfezione, le sonorità cesellate (Marr crea finte sezioni di archi con l’emulator), l’esecuzione energica e la varietà di accenti consegnano un pop maturo che Morrissey impreziosisce con una comédie non solo humaine che alterna invettiva politica e naufragio dei sentimenti, sarcasmo e speranza, simbolismo e cronaca.

In classifica The Queen Is Dead ottiene la piazza d’onore, ma nella storia irrompe subito con i cinque giri d’orologio del brano omonimo: la batteria è una cascata di macigni arginata dal wah-wah, la voce viene sbatacchiata da un canale all’altro e Andy tiene tutto ancorato saldamente. Partenza mirabolante come quanto le va dietro: Frankly, Mr. Shankly pugnala Travis in un music hall, la crepuscolare I Know It’s Over e una stranita Never Had No One Ever meditano sulla malattia d’amore e l’arazzo acustico Cemetry Gates è chiusura incantevole.

La seconda facciata si spinge addirittura oltre con Bigmouth Strikes Again, chitarre brade e incedere travolgente che posseggono la stessa ricercata immediatezza da classico immortale di The Boy with the Thorn in His Side e dell’inno tristallegro There Is a Light That Never Goes Out, laddove allo schizzato countrybilly Vicar in a Tutu risponde il fascino misterioso di Some Girls Are Bigger Than Others. Ebbene sì: alcune band sono più grandi di altre.

Il video – in pratica un cortometraggio a firma Derek Jarman – inizia con un estratto del film di Bryan Forbes, The L-Shaped Room, giusto per ribadire la fascinazione di Morrissey per il cinema inglese anni '60.

Amabili resti

Il passare del tempo e tutti i suoi crimini mi intristiscono di nuovo.

Alcune band sono grandi e tali dovrebbero restare. Invece, da qui in poi, le cose sfuggono al controllo. Un Morrissey in pieno delirio di onnipotenza alterna sparizioni a capricci da star e i problemi di Andy peggiorano, al punto che viene rimpiazzato da Craig Gannon e presto reintegrato, spostando il nuovo innesto alla chitarra ritmica.

In un 1986 turbolento non manca nulla: la fotocopia della bolaniana Metal Guru condita da una polemica anti-DJ per la hit Panic, un incidente d’auto dal quale Marr esce ferito, il discreto confettino Ask, l’arresto di Rourke, un semi-abortito tour americano. E per quanto il volenteroso Johnny si dia da fare, l’assenza di un manager si avverte nei dissapori con Sire e Rough Trade, nella famigerata trattativa con la EMI e nell’allontanamento dell’ininfluente Gannon.

Panico sulle strade del plagio (dichiarato).

Arriva l’anno nuovo e siamo con il fiato sospeso. Allorché Shoplifters of the World Unite insegue con verve inferiore i fasti di How Soon Is Now? ogni scenario è plausibile: la coppia al capolinea, i pezzi migliori tenuti nel cassetto dopo la firma con la EMI, varie ed eventuali. Le raccolte escogitate per lucrare in Europa (The World Won’t Listen) e America (Louder Than Bombs) non sono però un segnale incoraggiante e idem il mediocre ricalco T.Rex di Sheila Take a Bow.

La lavorazione di un altro 33 giri incomincia con il piede giusto ma per strada sprofonda in diatribe sulla direzione da intraprendere, il chitarrista che vuole sperimentale e Morrissey che sembra orientato al retro pop. In giugno un esausto Johnny vola in California e i giornali combinano un casino, dando gli Smiths per sciolti quando il ragazzo si sta prendendo un mese per (non) rifletterci. Puntuali, a settembre scorrono i titoli di coda.

Finalmente un inno per il sindacato dei taccheggiatori.

Da inconsapevole pietra tombale, Strangeways, Here We Come entra nelle case dei fan traumatizzati pagando la mancanza di coesione e un secondo lato scolorito. Vanta in ogni caso una tavolozza ampliata e metà scaletta esente da pecche, dalla pianistica A Rush and a Push and the Land Is Ours al pop cameristico Girlfriend in a Coma, passando per la slanciata Stop Me If You Think You’ve Heard This One Before, una I Started Something I Couldn’t Finish spolverata di lustrini e R&B e la neo-psichedelia di Death of a Disco Dancer, modellata con gustosa nonchalance sulla beatlesiana Dear Prudence.

Mentre in coma c'era la band stessa.

Può viceversa poco un’aggraziata e amara Unhappy Birthday contro l’estenuante melodramma Last Night I Dreamt That Somebody Loved Me, il pessimo tappabuchi Death at One’s Elbow, la prolissa autoreferenzialità di Paint a Vulgar Picture e una routinaria I Won’t Share You. Ciò nonostante, abbiamo ascoltato addii di gran lunga più dimessi dell’opera che i “signori M.” prediligono, forse per celia o perché è quella che li ha sgravati dal peso che li stava schiacciando.

A proposito di pesi… Perdonatemi se tralascio i dettagli sul live Rank e la sequela di pubblicazioni postume che riciclano il catalogo, sulle battaglie legali con Joyce e Rourke, sull’ondivaga carriera di Johnny Boy e l’inarrestabile decadenza di Mozzer, su individui che non si rivolgono più la parola e il baratro spalancatosi nel mezzo. Questo picture è piuttosto vulgar e ha poco a che vedere con la bellezza. E lo sapete benissimo anche voi che ciò che conta sta altrove. Sta in dischi immortali, colmi di sentimenti cui ancora cerchiamo di dare un nome. Sta in ricordi vivi e in un’eredità non scalfibile. Sta in quella luce che davvero non si spegne mai, a dispetto di tutti e di tutto.

The Smiths Morrissey Johnny Marr 

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