Stenti a credere che siano trascorsi due decenni dall’uscita di un disco. Ci ragioni su e tutto quadra, perché quel disco si intitola Neon Golden, gli anni nel frattempo li ha segnati eccome, e da allora non è invecchiato di un giorno.
Da queste parti tendiamo a evitare la retorica. Amiamo essere sinceri, appassionati e il più possibile obiettivi quando approfondiamo le cose per raccontarvele. Nello specifico, diciamo subito e schiettamente che, prima di metter mano al presente articolo, la parte più complicata è stata realizzare sul serio che siamo al cospetto del ventennale di Neon Golden. Vent’anni: con i tempi che corrono a velocità supersonica, sembra un’eternità. Anzi, è un’eternità. Un teatro dell’assurdo lungo il quale abbiamo visto sfilare guerre, crisi economiche, due papi, quattro presidenti degli Stati Uniti e via elencando.
Dopo che la socialità ha lasciato il posto ai social, il 2002 sembra sicuramente un’oasi felice rispetto all’odierno marasma e a un orizzonte di futuro così sottile che diresti sia sparito. Felice almeno dal punto di vista discografico, poiché si tratta sempre dei dodici mesi che videro la bancarotta dei bond argentini, l’assassinio di Marco Biagi e l’assedio al teatro Dubrovka. Tuttavia, se ci concentriamo esclusivamente sulla musica, il nuovo secolo era cominciato con il piede giusto.
Anche il 2001 era stato generoso di lavori fantastici, e, a Neon Golden, fanno compagnia l’hip hop tra avanguardia e classicità di Antipop Consortium e Roots, la malinconia del Beck adulto, un Johnny Cash formato apocalisse imminente, vertici assoluti del calibro di Yankee Hotel Foxtrot, The Headphone Masterpiece e Out of Season, il talento a sé espresso da Decemberists, Lambchop e Low. Consapevoli di aver escluso parecchi altri nomi e titoli di pari livello, annotiamo che il meglio sta dove la spinta di progresso si salda con naturalezza alle emozioni.
Una chiave di lettura preziosa, questa, che permette di fare i conti con un’attualità dove purtroppo predominano esercizi stilistici e album privi di identità e di ragion d’essere. Per questo – oggi più che mai – comunicare deve rimanere uno dei traguardi dell’arte, perché, senza una robusta spina dorsale, qualsiasi disco, libro o film che rischiara i nostri giorni scade nella mera cosmesi. Considerazioni che valgono in misura forse anche maggiore per la popular music, resa degna da un intreccio fra dispiegarsi dei sentimenti e visione avanguardistica che la colloca contemporaneamente dentro la sua epoca e nell’eternità in un miracolo che riesce ai grandi, dai Beatles ai Kraftwerk.
La Germania, per l’appunto. Nessun bianco è stato in grado di far suonare le macchine con l’anima – con il soul – al pari di Florian Schneider e Ralf Hütter. Ci sono andati vicino due connazionali, i fratelli Markus e Micha Acher, al secolo Notwist. Se in epoche relativamente recenti qualcuno ha raccolto il testimone dalle mani di Ralf e Florian, è anche a loro che dobbiamo pensare, e a un disco magnifico come Neon Golden. Qui di seguito proviamo a spiegare come e perché.
Strana e affascinante, la vita. Un gesto in apparenza normale può cambiarne il flusso in qualsiasi momento, e, del resto, maturare spesso significa cogliere l’attimo e rigenerarsi ciclicamente, guardando a ciò che siamo stati senza per forza dover rinnegare le origini. Prendete i Notwist: ascolti l’omonimo LP di debutto del ’91 ed ecco una dose di punk metallizzato piuttosto banale. Undici anni dopo, Neon Golden fa scuola impastando sfoglie di pop chitarristico dal taglio indie con l’elettronica e il post-rock. Si cresce, si cambia. Qualche volta addirittura in meglio.
Ma dicevamo: provenienza tedesca, con tutto quel che ne consegue in termini di tradizione e retaggio. Per i Notwist, tuttavia, il krautrock è un ingrediente che balza all’orecchio non più di altri. Come tutte le persone intelligenti, gli Acher posseggono eclettismo, apertura mentale e fervore creativo, ragion per cui non si accontentano delle opzioni facili. Di conseguenza, la Germania anni ’70 rappresenta nel loro caso un punto di partenza, una delle basi sulle quali hanno creato musiche in grado di cogliere soprattutto il messaggio, così da poter poi reinterpretare le forme con spiccata personalità.
Il bello è che non corri neanche il rischio di annoiarti con chi – oltre ad aver pubblicato poco ma da un certo punto in poi sempre bene – ha gestito la carriera all’insegna dell’iperattività ed è coinvolto in una fitta concatenazione di progetti. Incredibile a dirsi, nello stakanovismo che genera Village of Savoonga, Tied & Tickled Trio, Lali Puna, 13 & God, Ms. John Soda e Spirit Fest non trovi mai qualcosa di mediocre o gratuito. Sarà tuttavia cosa buona e giusta fare un passo indietro e catapultarci alla fine degli anni Ottanta nella cittadina di Weilheim, ventimila anime a sud-ovest di Monaco di Baviera.
Per certi versi, i bavaresi sono i latini di Germania: lo prova il fatto che, di tutti i gruppi storici del krautrock, quelli più “fuori” giungessero da là. Eppure, gli esordi dei ragazzi non potrebbero essere più distanti dalle cosmicità freak: essendo il babbo un appassionato di dixieland, sin da piccoli i fratelli trafficano con svariati strumenti. Quando Markus scopre la batteria non si scatena alcun conflitto generazionale, poiché il duo alterna le esibizioni con il genitore all’alternative rumoroso dei Dinosaur Jr. e all’hardcore dei Minor Threat. I Notwist nascono nel 1989 con Markus a voce e chitarra, Micha al basso e l’amico Martin Messerschmid dietro la batteria.
Riferito del primo 33 giri, annotiamo che nel 1992 Nook sterza verso assalti che flettono i muscoli ispirandosi alle band dell’etichetta Amphetamine Reptile. Di nuovo trascurabile l’esito, a contare in questo periodo è la crescita di appassionati curiosi che provano a cucirsi addosso le novità e, nel volgere di un altro paio di calendari, mescolano jazz e tecnologia nei Tied & Tickled Trio. Per quanto riguarda i Notwist un approccio più arty trapela in 12, discreta transizione che aggiusta il tiro tra slowcore meditabondi e inchini a Sonic Youth e J Mascis. La svolta è dietro l’angolo.
La strada che conduce a Neon Golden è una graduale presa di coscienza dei mezzi espressivi e delle aspirazioni della band. Vi contribuisce in misura non trascurabile Martin Gretschmann, compagno di studi degli Acher attivo con la sigla Console, che nel ’97 si affianca a Micha e Markus anche nelle vesti di compositore. Sistemato un utilissimo laptop vicino alle chitarre, la farfalla esce dal bozzolo nella primavera 1998 tramite Shrink, che introduce scricchiolii al silicio in strutture dove il gioco “a tutto campo” del post-rock affronta con verve ed equilibrio l’indie chitarristico depresso, la lezione dei Can e del Miles Davis elettrico.
Siccome punk si nasce e per certi versi si resta, a lungo i Nostri si dedicano ad altre faccende. Nel gennaio di vent’anni fa, Neon Golden spiega a chiare lettere che le energie spese altrove e i quindici mesi di lavorazione richiesti un senso lo hanno eccome. Il capolavoro dei teutonici nasce infatti dal continuo rimettersi in discussione che introduce intenzionalmente un’anima pop intrisa di cordiale fragilità in uno stile elegante, misurato e austero.
A veicolarla è il tono vocale sommesso, da amico che sussurra segreti. Un calore introspettivo con cui è facile identificarsi, così che l’insieme si conserva lieve anche se le trame sono complesse e ricercate. Eppure la comunicatività, il senso dell’umano e l’intimismo varrebbero poco se non ci fossero dieci canzoni una più bella dell’altra, saggi preziosi di una maturità d’autore ulteriormente valorizzati dall’attenzione per il dettaglio, dall’acume delle soluzioni produttive, da arrangiamenti curati però improntati al minimalismo (ascoltare in cuffia per credere) e al magistrale impasto tra elementi acustici e sintetici.
Autentica pietra miliare, il quinto lavoro dei Notwist stabilisce le regole della cosiddetta indietronica nell’esatto istante in cui le trascende. Lo capisci già da One Step Inside Doesn’t Mean You Understand, acquerello in stile ultimi Gastr del Sol preso in ostaggio da un’elettronica pastorale finché i glitch non giungono a disturbarla e tutto si spegne di colpo. Partenza che mantiene alta la tensione permettendo di introdurre il singolo trainante Pilot, che incastona l’irresistibile, struggente ritornello su un moderato passo danzabile, apre un varco dub e inventa gli Hot Chip. Il senso di inquieta amarezza persiste in Pick up the Phone, dolceamaro naufragare che avvolge il tono confidenziale dei New Order («Rispondi una buona volta al telefono / oggi uscirò dal tuo passato») in nervose spirali trip pop.
Un tris d’assi che diventa poker grazie alla chiusura Consequence, ovvero gli Smiths che nell’era del downtempo porgono una delle loro ballate più scintillanti. Non vale comunque meno quanto sta nel mezzo, dalla drum’n’bass secondo Amnesiac che in This Room parte travolgente e arriva atmosferica a Off the Rails, svagata filastrocca nella quale sbocciano archi memori della Penguin Cafe Orchestra, passando per una Solitaire che raccorda Eels e Radiohead attraverso un campione di Michael Nyman e, come negli anni ’60, separa la ritmica e le parti armoniche sui due canali stereofonici.
Se in One with the Freaks i Pavement apprezzano la linearità senza perdere smalto, Trashing Days appoggia un cyber soul dagli aromi folk su cadenze morbide e azzeccati inserti di fiati. Aggiungete infine una favolosa title track che intesse blues, raga ed etno dub superando a sinistra i Califone ed ecco la scala reale. Ecco la vittoria a mani basse. Ecco una perfezione che non stanca e che ogni volta rivela particolari dei quali non ti eri accorto.
La critica si lancia in panegirici e anche il riscontro commerciale sorprende in positivo. Con ottime ragioni, poiché Neon Golden vanta una bellezza solida che tuttora si staglia sopra le decine di imitatori. Non è comunque colpa degli artefici se a certe sonorità abbiamo fatto il callo: mica dormono sugli allori, loro, tant’è che si concedono un altro periodo sabbatico (stavolta di sei anni) in cui la “casa madre” pubblica solo EP di remix e colonne sonore e fioccano collaborazioni a destra e a manca.
Incassata la defezione di Messerschmid con il nuovo innesto Andi Haberl, nel 2008 The Devil, You + Me corregge la ricetta da un’angolazione più ombrosa, ricorrendo talvolta ad arredi acustici e insistendo sull’umore riflessivo, laddove nel 2014 Close to the Glass torna a proporre la fusione di trasversalismo pop e ricerca, ad alternare carezze folk e slarghi ambient allorché Cico Beck subentra a Gretschmann.
L’amalgama di organico e artificiale, di cuore e cervello che costituisce la grandezza dei Notwist raggiunge un altro apice – una seconda giovinezza? – in Vertigo Days, che nel 2021 convoca ospiti di peso (Angel Bat Dawid, Ben LaMar Gay, Juana Molina) per fotografare un ensemble in perenne evoluzione stilistica e metodologica che sperimenta con disinvoltura su un canone ormai classico, del quale è peraltro responsabile. Lavoro tra i più brillanti della scorsa stagione, offre un riassunto estetico focalizzato sull’attualità e recapita rock in abiti post e kraut, cupi ibridi elettro-motorik, orecchiabilità malinconica, funk mutante venato di jazz, trip hop in echi dub e parecchio altro ancora.
E, va da sé, si tiene sempre stretti il gusto per il rischio, un raffinato ragionare sulle sfumature dei sentimenti, la classe e la creatività. Sarà per questo che ci sentiamo di affermare che il misterioso cerchio nero su sfondo rosso raffigurato sulla copertina di Neon Golden è lungi dal chiudersi. Dai fratelli Acher ne ascolteremo ancora delle belle, statene pur certi. Nel frattempo, solo applausi per loro.
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