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Una volta alla settimana compiliamo una playlist di tracce che (secondo noi) vale davvero la pena sentire, scelte tra tutte le novità in uscita.

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... Tutte le tracce che abbiamo recensito dal 2016 ad oggi. Buon ascolto.

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A volte è necessario approfondire. Per capire da dove arriva la musica di oggi, e ipotizzare dove andrà. Per scoprire classici lasciati indietro, per vedere cosa c’è dietro fenomeni popolarissimi o che nessuno ha mai calcolato più di tanto. Queste sono le storie di HVSR.

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I La's e l’arte della (im)perfezione

Se siete tra quelli che ancora aspettano il secondo album della band di Liverpool, lasciate ogni speranza.

Per passare agli annali basta un solo disco. Non ditelo però a Lee Mavers, che magari prima o poi darà davvero forma a quanto gli ronza in testa. Proprio lui, da tre decenni disgustato dal primo e unico album dei La’s, che è stato (e rimane) un capolavoro. 

Timeless melodies

Se vuoi, ti venderò la storia vera / di un uomo che è sempre ai ferri corti con il suo passato / e che vive nel purgatorio. (Son of a Gun)

Un lieto trastullo, le classifiche di fine anno. In un’epoca assurdamente iperproduttiva come la nostra, anche un impegno che obbliga a scelte drastiche e a comprimere titoli in un mazzetto che, per quanto ampio, apparirà comunque riduttivo. Nondimeno, era facile prevedere che nei riassunti del 2022 Skinty Fia dei Fontaines D.C. avrebbe recitato da protagonista. Con pieno merito, peraltro, perché i ragazzi d’Irlanda sono bravi e non mica è colpa loro se qualcuno gli ha affibbiato l’insensato ruolo di “salvatori” del rock.

Diciamolo: sono trent’anni e rotti che il rock viene dato per defunto, quando in realtà è soggetto a continue rigenerazioni. Gode di buona salute, non ha bisogno di soccorritori ma di personalità e canzoni che durino nel tempo e che il loro tempo lo raccontino. Skinty Fia ne offre più che a sufficienza, con l’ulteriore pregio di averci esortato a ragionare su uno dei suoi numi tutelari, un’influenza forse meno evidente di altre e per questo pochissimo citata: i La’s.

Probabilmente assimilato per tramite degli Oasis, il tono del cantante Grian Chatten ricorda l’impasto indolente e aspro di Lee Mavers. E la penna dei dublinesi contiene un inchiostro che guarda a fine Eighties, quando il decennio favoloso costituiva un patrimonio da ibridare con il post punk. Quando un genio non ha conquistato il mondo perdendo la bussola e recapitando controvoglia un disco meraviglioso. Un autentico capolavoro che ha disconosciuto e che, per usare un eufemismo, mai ha gradito.

Noel Gallagh… ah no.

Nella “scala Brian Wilson”, infatti, il perfezionismo di Mavers tocca livelli inenarrabili. Perché Brian sarà anche rimasto schiacciato dalla mancata risposta a Sgt. Pepper’s, ma ha affrontato i suoi demoni senza smettere di scolpire gioielli. E alla fine persino un capriccioso terminale come Kevin Shields ha dato una sorta di seguito a Loveless. Lee no: un unico LP e poi nient’altro che testardo, orgoglioso silenzio.

A quanto pare, esiste una bellezza così sublime da frantumare lo spazio tra le aspirazioni e le capacità. Per citare Lou Reed, tra pensiero ed espressione c’è di mezzo una vita intera e Lee ha seriamente rischiato di sprecarla. Avendola scampata da essere umano, con maniacali pretese di perfezione ha infierito sull’artista, senza capire che la grandezza si ottiene tendendo a un ideale irraggiungibile ed è proprio questo ideale a funzionare da propellente.   

La vicenda dell’ennesimo talento di Liverpool è racchiusa in un “non fallimento” romantico e glorioso, in una manciata di canzoni magnifiche, in un confine tra genio e follia così sottile da sparire. Un secondo album dei La’s non vedrà mai la luce, fatevene una ragione: il sessantenne Lee risiede nel sobborgo di Huyton con moglie e figli, campa di royalties e di registrare nuova musica non vuol saperne. Perversamente, continua a scrivere (brani bellissimi, a sentire i pochi fortunati testimoni) e vive circondato da un alone mitologico che lo protegge.

In un limbo lontano sia dalla drug casuality che dalla vecchia gloria, il proletario del Nord sa il fatto suo e vuole essere lasciato in pace. A pensarci bene, meglio così. Ebbene sì: esiste una bellezza così sublime da non poter durare più di un 33 giri e, da nobile spietato, il pop vive anche di comete che splendono all’infinito come malinconiche, dolcissime fotografie. Come le canzoni che Lee ha salvato da se stesso.

La faccia (e le bottiglie) di uno che non ne vuole sapere.

There they go

Semplice: più ti avvicini alla perfezione e più sei prossimo all’imperfezione. (Lee Mavers, 2005)

Avrete intuito che genio e follia, qui, sono una cosa sola. Lo stesso vale per Lee Mavers e i La’s, poiché – con le eccezioni del bassista John Power e del chitarrista Paul Hemmings – gli strumentisti avvicendatisi nelle fila della sigla hanno contato zero. Ironia della sorte, la sei corde ritmica del Nostro arriva un anno dopo la fondazione, che dobbiamo (nel 1983) a Mike Badger e idem una ragione sociale che traduce “lads” nella parlata locale.

Con il suo ingresso passano da una poco memorabile neopsichedelia inzuppata nella new wave a un linguaggio che, grazie alla giusta distanza cronologica, rilegge i Sixties mescolando le carte (Byrds, Rolling Stones, Who, Love e – ovviamente ma non principalmente – i concittadini Fab Four) con il senno di poi. In tal modo, pone le basi del britpop – Noel Gallagher non a caso un fan della primissima ora – conquistando nel frattempo attualità e freschezza eterne.

Il segreto risiede in una direzione contraria rispetto al patinato mainstream e a un panorama indie pronto a contaminarsi in chiave baggy: a entrambi si preferisce la felice anomalia di un minimalismo limpido, di chitarre elettroacustiche, di concisione che, pur ombreggiandoli, maneggia i nervosismi in sottotraccia di Orange Juice e Smiths.

Quello bravo è il tizio che guarda in camera.

Nel 1986 entra in squadra Power e poco dopo, gradualmente messo in un angolo, Badger decide che nonostante la passione comune per Captain Beefheart l’amico può camminare da solo. I La’s escono così dal bozzolo e dispiegano coloratissime ali, lavorando sul repertorio con dedizione e tenacia e tenendo esaltanti concerti. Un demo finisce sulla scrivania della Go! Discs e nell’ottobre 1987 Way Out / Endless ottiene il plauso di Morrissey sul Melody Maker.

Commercialmente un mezzo fiasco, sono tuttavia notevoli il valzer à la Jagger / Richards del lato A, i sensazionali aromi lisergici del retro e una squillante Knock Me Down aggiunta al 12”. A proposito: oltre che di livello elevato, la discografia di questi scouser è un discreto casino di titoli che si ripetono in fogge diverse, vuoi per le manie di Mavers e vuoi perché – tutto cambia, niente cambia – alla fine degli anni ’80 il mercato spreme gli appassionati con assortite diavolerie in formato vinile.  

Nell’autunno 1987 i ragazzi battono i palchi albionici raccogliendo lodi, che diventano sperticate l’anno seguente in ragione della seconda uscita sulla breve distanza. L’incanto da Big Star traslocati sul Mersey di There She Goes incastona un’ode d’amore (chissà se per una donna o per l’eroina…) su una circolarità di arpeggi che, rinunciando alle strofe, si porge ipnotica e un filo stranita. Vertice che quasi cancella accompagnatrici di rango come la scarna e vibrante meditazione Who Knows, la folkedelia indianeggiante di Man I’m Only Human, una Come In, Come Out dall’atmosfera latina.

Questa la conoscete, no? E invece…

Immensità bastante a giustificare intere carriere, There She Goes viene ignorata dal pubblico ed eguagliata da Timeless Melody, flessuosa gemma che rappresenta lo stampo di Definitely Maybe. Non sono da meno le ancelle Clean Prophet (marcetta sottratta agli archivi di Andy Partridge) e Over (rassegnato, trasparente folk pop), laddove a stupire in negativo sono le perplessità di Mavers. L’incubo è cominciato.

Doledrums

Lo odio. Suona da schifo, come un serpente cui abbiano spezzato la schiena. (Lee Mavers, 1990)

Nella musica esistono dischi mitizzati per le più svariate ragioni, ma non sono moltissimi quelli che tramutano una via crucis in un classico. Facendo un rapido calcolo e dando retta al capobanda, The La’s lascia sul campo di battaglia due anni, una dozzina di session, nove batteristi, sette produttori e un tot di chitarristi. Ne è valsa la pena? Assolutamente sì, nonostante l’artefice consideri il risultato “prematuro” e di conseguenza lo detesti.

Esauriti budget e pazienza, l’etichetta chiede all’ultimo coraggioso seduto al mixer (Steve Lillywhite, bravo a conferire ariosità mantenendo il tiro) di confezionare qualcosa che sia pubblicabile. Ciò che ascoltiamo dall’ottobre 1990 è frutto di un miracolo e di un tormento: per i produttori che hanno cercato una quadratura del cerchio (figure abili ed esperte come John Porter, Mike Hedges, John Leckie), ma soprattutto per Mavers, che ancora non si capacita di come abbiano potuto arrecargli una simile offesa e in quei giorni segue logiche incomprensibili, molto simili a un cocciuto autosabotaggio.

Odontoiatria, portami via.

Ciò nonostante i trentacinque minuti di The La’s hanno un fascino unico. Pur imitatissimi, restano inimitabili per la risoluta levità con la quale permettono al passato di rinascere mentre pongono le basi di un domani celebrativo e smaliziato. Qui, per l’ultima volta nel pop inglese DOC, regna uno spirito autentico e appassionato, inquieto e alieno ai revival. Come nell’omonimo debutto degli Stone Roses, lo status è contemporaneamente di pietra miliare e di cerniera tra epoche.

Nascondendo estro e maestria sotto un’apparente semplicità, dalla tradizione si arriva a sonorità che sono un alveo insieme etereo e materico, a canzoni una più bella dell’altra, a singoli sapientemente riproposti da un’angolazione differente. Non importa quanto tutto si avvicini a un’impossibile compiutezza vaneggiata dall’autore: lo abbiamo ed è straordinario, che sia la baldanza tre-accordi-tre di Son of a Gun, una I Can’t Sleep dove gli Who sono interpretati dai giovani Stones, la Doledrum che inverte il giochino aggiungendo brio country sofisticato però essenziale.

Chi l'ha detto che la durata perfetta di un pezzo pop è tre minuti?

Se Timeless Melody torna armoniosa come i Byrds di Younger than Yesterday temprati da un approccio ruvido, la guizzante Liberty Ship è stata memorizzata dai Coral e Feelin’ condensa uno stile in centoquarantacinque secondi. Alla riverniciata Way Out, che racchiude la tensione in sfoglie acusticheggianti degne degli XTC, risponde la pasticceria mista di Small Faces e Kinks I.O.U., mentre in Freedom Song è appunto Ray Davies che scambia il music hall con Kurt Weill prima di flettere i muscoli nell’energica Failure.

Musica da camera (ma anche da bus, da metropolitana e chissà cos'altro).

Resta da riferire di There She Goes, che passa in tonalità di sol maggiore centrando la tredicesima piazza in madrepatria e del clamoroso commiato Looking Glass, dove un attacco incantato memore del cappellaio matto Robyn Hitchcock spalanca un calibratissimo, acido ed esteso crescendo di agitazione e watt che si risolve nel caos controllato.

Ben diversa la condizione del leader, che nelle interviste esorta a non acquistare una schifezza di album che subito svela il rango di capolavoro. Gli altri resistono per un tour, dopo di che Power nel 1991 mette in pista i mediocri Cast incassando bei soldini e Mavers scivola in un guscio di invisibilità, a metà anni ’90 risolve problemi di tossicodipendenza e alcolismo e da allora si ripresenta saltuariamente con nuove incarnazioni dei La’s.

Intanto il mondo ha acclamato gli Oasis, sono affiorati gli esordi dell’era Badger, abbiamo potuto godere delle BBC in Session e della “deluxe” di The La’s con la versione prodotta da Mike Hedges. Nel 2009, voci di un disco con i Babyshambles nel ruolo di backing band svaniscono allorché il cofanetto Callin’ All raschia i cassetti.

Eccoci infine all’oggi. A un uomo con il quale è impossibile lavorare, che tira dritto per la sua strada portando in spalla un sogno trasformatosi in miraggio. Un uomo che nella testa sente melodie senza tempo ma non sa come liberarle. Un uomo che ha guadagnato l’eternità con una sola, magnifica ossessione. Siategli grati, nonostante tutto.

The La's Lee Mavers 

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