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The Feelies: musica sull'orlo di una crisi di nervi

Scene da una nevrosi perenne, ma oltre i ritmi pazzi c'è di più.

«La nostra musica non si presta a essere ascoltata mentre lavi i piatti»: così anni fa Glenn Mercer – un polo dei Feelies: l’altro è Bill Million – ha descritto la propria arte. Da modesto qual è, aveva però scordato di aggiungere, accanto a “musica”, l’aggettivo “epocale”.

I nerd non perdonano

Mai fidarsi dei nerd. Specie se possono vantare una discografia parca, priva di cadute e inaugurata da un 33 giri epocale. Specie se hanno esercitato un’influenza enorme, ma così particolare che la sua parafrasi – benché smaltata e diluita – ha richiesto tempo per entrare in classifica. Vi ricordate? Parliamo di quando gli Strokes hanno fatto il botto e ci siamo tappati le orecchie per evitare l’ennesimo tormentone sul ritorno delle chitarre. Sembrano passati secoli, ciò nonostante accadeva due decenni abbondanti fa.

Allora come ora, le chitarre non se n’erano mai andate. Il medesimo ragionamento vale per i Feelies, venerati da intenditori, critici ed eredi della statura di R.E.M., Galaxie 500, Yo La Tengo e Josef K, figli eminenti di un suono giunto fino a oggi in Nap Eyes e Car Seat Headrest. Senza i Feelies, il composito universo dell’alternative rock sarebbe assai diverso e più noioso, per quanto ai diretti interessati tutto ciò importi poco o nulla. Con il loro serafico understatement, sono focalizzati sull’arte e – da che sono riapparsi per la terza volta – gli basta pubblicare un disco a cadenze irregolari per rammentarci di aver scritto la storia.

Alla faccia del presenzialismo di un’era triste e vacua, parlano solo quando hanno qualcosa di rilevante da dire. Più che sufficiente ad amarli, non ci fossero l’atteggiamento da intellettuali testardi che badano al sodo e alle finezze e un look anonimo – proprio per questo così appariscente – che ha anticipato la svagatezza indie e la noncuranza post. Tuttavia, a contare veramente è la musica, proposta sotto forma di un enigma da secchioni, evasivo e dai significati profondi.

Una foto d'archivio degli Weeze… ah no.

Misteriose e ineffabili, le canzoni emergono da una nebbia oppiacea cavalcando la frenesia di chi ha le vene colme di caffeina e in testa la quiete del nevrotico. Sono un labirinto di frenesia ed eccitazione dal quale non vuoi uscire, post-punk chitarristico nella forma più pura che sfocia in un trompe-l’oeil di fronte al quale resti a bocca spalancata, chiedendoti dove sia il trucco.

Sull’orlo di una perenne crisi di nervi, oasi di falsa quiete e melodie minimali però immediate, chitarre che ronzano e graffiano, stratificazioni e intarsi, vocalità pigra e ritmi pazzi scardinano qualsiasi tentativo di imitazione e di analisi. La bellezza dei Feelies si spiega da sola: una spigolosa, ansiogena e incantevole emicrania che ti conquista a vita. Provare per credere.

Forze al lavoro

Le cronache tramandano che, fonico incluso, la sera del primo concerto dei Feelies al CBGB’s presenziassero sei spettatori. Non granché come inizio, eppure quando i numeri cresceranno sarà in misura relativa per quella che viene spontaneo definire la cult band per antonomasia. Un gruppo fondamentale che tuttavia non riesce a spingersi oltre le soddisfazioni morali, perché troppo raffinato per qualsiasi epoca e pubblico.

A fine '76 al CBGB's ci son di casa, praticamente.

A maggior ragione nel 1976, quando alle scuole superiori della tranquilla Haledon, New Jersey, Bill Million e Glenn Mercer sono gli unici a venerare la triade Modern Lovers/Stooges/Velvet Underground, seduta nel loro pantheon vicino alla British Invasion, al Brian Eno versione metapop, a Philip Glass e Steve Reich. Chitarristi e cantanti, allestiscono gli Outkids con il batterista Dave Weckerman e Richard Reilly alla voce: quando prelevano la ragione sociale definitiva dal romanzo di Aldous Huxley Il Mondo Nuovo, Reilly ha lasciato, dietro tamburi e piatti siede Vinny DeNunzio e il bassista è tal John Papesca.

L’anno seguente, un accordo con la Ork non si concretizza ed è un peccato a fronte dell’entusiasmo del Village Voice, che acclama i ragazzi come miglior band del sottobosco newyorkese. La lunga gestazione aiuta in ogni caso a perfezionare repertorio e idee allorché Anton Fier subentra alla batteria e al basso trovi il fratello di Vinny, Keith, nascosto dietro il vero cognome di Million, cioè Clayton. Vale la pena attendere fino al ’79 per il primo, sospirato singolo su Rough Trade, poiché Fa Cé-La/Raised Eyebrows illustra nel dettaglio un linguaggio compiuto e pervaso da una peculiare tensione estatica.

Gli Weezer, dicevamo...

Intercalata da sapienti variazioni sul tema, un anno più tardi la stessa atmosfera regna in Crazy Rhythms, edito dalla Stiff dopo un meticoloso lavoro autogestito in uno studio utilizzato da grandi orchestre. Da qui la spazialità e il riverbero che avvolgono nove canzoni di ritrosa trascendenza post-punk, ribollire ritmico e lirismo indeciso tra asprezza e allegria stravolta. Come da regola, il capolavoro si annuncia già in apertura: su un elaborato e solidissimo telaio percussivo che rinuncia al basso, l’autoironico manifesto The Boy with the Perpetual Nervousness intreccia la partenza morbida a un crescendo e un finale inarrestabili.

Attestato di genio cui replicano la trascinante, ipercinetica Fa Cé-La, i saliscendi emotivi e strutturali di Loveless Love, una Forces at Work dove Tom Verlaine cede a una sottile alienazione. Mica finita: Original Love fonde i DNA di Arthur Lee e Lou Reed, dei Beatles di Everybody’s Got Something to Hide si accentua lo squilibrio indicando un’influenza di rado sottolineata, la circolarità di Raised Eyebrows è maniacale e irresistibile, l’incupita Moscow Nights gioca con/su una claustrofobia latente tramite assoli cui non levi una nota.

Si chiude con un altro brano programmatico: tumulto fluviale e stordente, dopo aver disegnato esuberanti geometrie la title track scompare nella terra di nessuno dalla quale proviene. Lo stesso “non luogo” dove stanno per rimpatriare gli artefici, ai ferri corti con un’etichetta che esige materiale più commerciabile ed è accusata di scarsa promozione ed errori con il pressaggio del vinile e la copertina (en passant, la citeranno gli Weezer all’esordio). La diatriba sfocia in un’animazione sospesa lunga quattro anni. Nonostante tutto, i Feelies sapranno farne ottimo uso.    

La buona terra

Poco propensa all’ozio, la strana coppia Million/Mercer si rifugia nell’alveo del New Jersey dandosi da fare in progetti degni di interesse come Willies, Trypes e Yung Wu. Firmato con la Coyote, a metà anni Ottanta si presentano in una nuova incarnazione che dai Trypes preleva Brenda Sauter (basso) e Stan Demeski (batteria), aggiungendo il rientrante Weckerman per approfondire ulteriormente gli incastri tra ritmo e armonia. Dal vivo, accanto ai classici di Crazy Rhythms e a diverse cover, brillano gli inediti rifiutati tempo addietro dalla Stiff che nell’86 sfilano lungo il magnifico The Good Earth, coprodotto da un Peter Buck per lo più intento a sdebitarsi e scambiare esperienze.

Davanti alla capanna di Unabomber.

Su tutte, l’onestà di chi si cuce su misura il passato, chiudendo un cerchio sul college rock che gli è debitore attraverso un impasto di respiro metropolitano e tinte agresti, di Television e Byrds. Ciò nonostante, un’identità precisa emerge dalla canzone che battezza l’album all’austera atemporalità di On the Roof e The High Road, passando per la malinconica poesia di Slow Down e l’ipnosi psych-wave Slipping (Into Something). Al Brian Eno in marcia lungo praterie della mente di Tomorrow Today risponde l’isteria trattenuta a stento in The Last Roundup, per il traslucido folk urbano When Company Comes ecco le venature country di Two Rooms e la latineggiante Let’s Go.

Accettato l’invito di Jonathan Demme per il ruolo di party band in Qualcosa di travolgente, grazie ai mutamenti nel cosiddetto “underground” i Feelies approdano a una maggiore visibilità. Nel 1988 la A&M pubblica Only Life, sintesi delle opere precedenti dove una scrittura di altissimo livello è saldata all’interazione strumentale e le chitarre intrecciano sinuosa visionarietà (il brano quasi omonimo, Deep Fascination, The Undertow), inni seducenti (Too Much, Higher Ground) e lezioni di stile (For Awhile, Away, la rilettura di What Goes On).

Nel ’91, pur non mostrando progressi sul piano creativo Time for a Witness vanta una scaletta impeccabile: facendo un torto al resto, spiccano le cristalline Doin’ It Again e Invitation, la dilatata risacca Find a Way, un’incisiva Waiting, l’incontro tra Byrds e Love sotto codeina di For Now. La puntina si solleva dopo una Real Cool Time griffata Stooges, e per due decenni la sua coda di feedback resterà l’ultimo messaggio udibile. Nel luglio successivo, Bill Million si trasferisce in Florida senza avvisare né lasciare un recapito.

Eccoli alle prese con Fame di David Bowie – più party band di così!

Tempo di testimonianze

Dopo un “arrivederci e grazie” dal sapore piuttosto romanzesco, in una fitta attività spetta a Mercer proporre le cose migliori in compagnia di Weckerman nei Wake Ooloo e nel solistico Wheels In Motion. Vi figurano pressoché tutti i Feelies tranne Million e piace immaginare che l’assenza lo abbia spinto a riflettere, a rimbracciare la chitarra e vedere che effetto fa. Buonissimo, considerando i risultati sfoggiati da una delle poche reunion – solo quelle vecchie volpi degli Wire possono competere – che abbiano ragione di esistere. 

Dopo un concerto di spalla ai Sonic Youth il 4 luglio 2008, la macchina si rimette in moto. Siglato un accordo con la Bar/None, a vent’anni dall’ultimo LP il quintetto della “fase due” stupisce per freschezza, ispirazione ed estro. In Here Before l’accento meditativo è temprato dal piglio stralunato di chi non dorme sugli allori e può permettersi scintillanti tempi medi elettroacustici (Nobody Knows e Should Be Gone, Again Today e On And On), oasi riflessive (Later On, Morning Comes, Bluer Skies) e decise accelerazioni (When You Know, Time Is Right).

Guardateli: sembrano affabili insegnanti di un liceo di paese.

Rimettersi insieme è cosa buona e giusta, idem pubblicare poco ma bene. Lo dimostra In Between, uscito a un biennio di distanza da Memory Box degli East of Venus, ennesimo spin off apparecchiato da Mercer e Demeski con Michael Carlucci (ex Winter Hours) e Rob Norris dei Bongos. Girando attorno a una formula che appartiene loro, i Feelies ne sottolineano l’unicità: così, anche nel 2017 il nervosismo e l’amabile tocco di follia rappresentano l’ossatura di una formazione che possiede la modestia dei veri grandi.

Grandi che dipanano un vitale classicismo in Gone, Gone, Gone e nella serpentina velvetiana Pass the Time, che disegnano eleganti chiaroscuri in Time Will Tell e When to Go e si affidano a una fragranza ormai caratteristica in Turn Back Time. Altrove, Been Replaced caracolla alla Modern Lovers, Stay the Course e Flag Days vivono di pause e ripartenze, Make It Clear maneggia l’umore crepuscolare del tardo Tom Petty.

I Velvet Underground del pop.

Con gente così, però, non puoi abbassare la guardia. Quando meno te lo aspetti, a fine corsa una ripresa della title track ti sbatacchia per nove minuti contro un muro di cadenze serrate, pianoforte che martella e sei corde sibilanti. Pensate a un fantastico e benvenuto vaffanculo. Da signori, ma pur sempre un vaffanculo. Mai fidarsi dei nerd, specie se si chiamano Feelies.

The Feelies 

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