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A volte è necessario approfondire. Per capire da dove arriva la musica di oggi, e ipotizzare dove andrà. Per scoprire classici lasciati indietro, per vedere cosa c’è dietro fenomeni popolarissimi o che nessuno ha mai calcolato più di tanto. Queste sono le storie di HVSR.

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Misantropop! Una fenomenologia di Mark E. Smith (e dei Fall)

Pietra miliare del post punk inglese, prolifico come pochi, troppo presto scomparso.

Sono trascorsi quattro anni e mezzo abbondanti dalla scomparsa di Mark Edward Smith, cantante, anima e cuore dei The Fall. Eppure, mai come in questo caso l’uomo è vivo. Dubitiamo invece che lotti insieme a noi, lui che è stato sempre e solo dalla sua parte. E che ci piaceva proprio per questo.

MES will rise again

Il mondo in cui viviamo è di sicuro più monotono da che Mark E. Smith – per i non molti amici, MES – ha preso il volo verso altre dimensioni. Ed è cosa altrettanto certa che, senza lo spirito più punk di sempre, non usciranno più nuovi dischi della sua creatura. Dal ventiquattro gennaio 2018 abbiamo una certezza in meno, poiché un album dei Fall non lo salutavi mai con l’alzata di spalle o la sufficienza riservata ai mediocri. Non dicevi «uffa, un altro!». Era una sicurezza, per quanto scomoda. Avete presente Lucy che toglie il pallone prima che Charlie Brown calci o il temporale che puntualmente segue il lavaggio dell’automobile? Quel genere di cose, più o meno.

Una riflessione di natura simile può valere anche di fronte all’evidenza che gli artisti invecchiano e muoiono come chiunque altro. Quando affronti il lutto, il nodo cruciale sta nel ripetersi – nel convincersi, più che altro – che così vanno le cose e così devono andare, eppure in questo caso il groppo alla gola e la rabbia impotente faticano più del solito a diminuire. Perché ciò che davvero sconvolge è la frattura interiore generata dalla scomparsa fisica e da un’eredità che permette a qualcuno di non essere dimenticato. Di vivere anche dopo il trapasso, più tangibile di uno spettro e avvolgente come un ricordo.

Che scherzi giocano arte e destino… Ciò nonostante – romantico sotto la corazza protettiva e cinico nel midollo – Mark scatarrerebbe su questo e su ogni altro articolo che lo riguarda. Lo farebbe a fettine con frasi acuminate e il solito sguardo da ingegnoso monello, che fa pensare a un Billy Casper – il ragazzino protagonista del film Kes di Ken Loach – diventato adulto. Ne avrebbe il diritto, in fondo. Per quanto ci riguarda, confessiamo che vale la pena essere idealmente sbeffeggiati da uno dei nostri (anti)eroi. I conti con i Maestri vanno saldati. E così sia.   

Una compilation di tutte le volte che MES vi ha tolto il pallone da sotto i piedi un attimo prima che voi diceste: «Ecco, il solito album dei Fall!».

Dell’altro vetriolo, vicario?

Lo ribadiamo: più vivo che mai, Smith, e non è mera retorica. Impugnata decenni or sono la fiaccola da Ray Davies, ha dimostrato che si può essere intellettuali popolari in un’accezione che non contempla la gloria, gli onori e le ricchezze. Roba che a un certo punto svanisce, quella, laddove nessuno cancella il posto nella storia della musica e non solo. Il vero riscatto sociale, alla faccia di tutto e di tutti, è staccarsi dalla concorrenza, superare i meccanismi e i confini del mercato, diventare un mezzo di comunicazione sociale che dura negli anni. Qualcosa cui tutti guardano con ammirazione.

In fondo è questo il significato ultimo del continuum che da Beatles e Kinks porta al Brexit pop e lungo il quale i Fall sono sempre esistiti. Loro che hanno riletto Victoria e A Day in The Life, chiudendo un cerchio per aprirne altri su figli di rango chiamati Happy Mondays, Blur, Clinic, Art Brut, Arctic Monkeys, Fat White Family, Shame, Sleaford Mods, Yard Act. Così, tanto per non far che qualche nome di un elenco che potrebbe continuare e che conta numerosi devoti oltreoceano, dai Sonic Youth ai Protomartyr passando per Pavement e LCD Soundsystem.

Il fascino dell'uniforme.

L’esempio è sovragenerazionale, sovrastilistico e sovratemporale, come da regola di tutti i grandi gruppi che si accomodano nel corso degli eventi mentre li modellano. I gruppi che, quando le epoche sono complesse e richiedono scelte severe, non si tirano indietro e rispondono con meccanismi pop a orologeria che esplodono in faccia con sarcasmo e cantabilità.

Dunque non è un caso che l’unione tra arguzia e frusta sia stata la spina dorsale della malanima di Mark, anche se il Re dei Malmostosi avrebbe da ridire anche su questo e – ovunque sia – assai probabilmente trova la cosa seccante e pretestuosa. Del resto è di un genio che parliamo, e i geni si rivelano tali anche nell’arte di irritare.

Nondimeno, quanta gente insopportabile conosciamo? E tra costoro, quanti hanno scritto cose paragonabili a Totally Wired, Rowche Rumble e Rebellious Jukebox? Ci siamo capiti, insomma. Mark ha trasformato la misantropia in un dono perché è lo stand-up comedian del dopo rock e un Lenny Bruce con il vetriolo nelle vene. È l’umorista preferito da Dio, il megafono dell’apocalisse forgiato a Manchester. L’unico e solo Mark Edward Smith.

La faccia di uno che ha comunque qualcosa da ridire, a prescindere.

Musica da consumare vs. musica che consuma

Espressione ed emanazione diretta del leader, i Fall sono contemporaneamente un monolito e un poliedro. Il che fornisce la possibilità di approcciarli da qualsiasi versante della loro parabola. Per questo motivo abbiamo deciso di evitare pedanti descrizioni discografiche e consigli per l’ascolto: non vogliamo levarvi il gusto della sorpresa e/o il piacere di allestire percorsi individuali dentro un eccitante parco giochi dove l’emicrania e il disorientamento lasciano gradualmente spazio all’esaltazione e alle epifanie.

Attorno al peso di verità rivelate che echeggiano nell’aria, c’è una musica fatta di tanto e poco. Una trappola falsamente uguale a se stessa che si presta a molteplici livelli di lettura e pertanto, come in ogni archetipo, ne riconosci le origini e la singolarità. I Fall sono così unici che hanno influenzato decine di gruppi: se vi pare un controsenso, è perché non li avete sentiti ma soltanto ascoltati. Loro non suonavano – né erano – rock’n’roll. Viaggiavano e continuano a viaggiare a un’altra velocità e in altre direzioni.

Scorrendo un catalogo che definire vasto è un eufemismo, si spalanca un universo di personaggi, vicende e situazioni a tal punto assurdi e grotteschi da essere assolutamente plausibili, come le stranezze nascoste tra le pieghe di un’apparente normalità dei romanzi di H. P. Lovecraft e di Philip Dick. Autori che, insieme ad Arthur Machen, erano apprezzati da Smith per gli orrori non dicibili e il turbinio di metafore che riescono a scatenare.

Già vent'anni fa i numeri erano questi. Gente produttiva, insomma.

Per la medesima ragione, ogni 33 giri rappresenta un capitolo dentro un contesto assai più ampio. In una sorta di versione “esplosa” – con le pagine che svolazzano nell’aria da acchiappare e mettere in ordine – de L’arcobaleno della gravità di Thomas Pynchon, decine di storie si dipanano, si intrecciano, si accavallano in una realtà disgregata alla quale non è possibile dare un senso.

In tutto ciò sono contenuti di già mali odierni come le fake news, la moltiplicazione delle verità, il bolo mediatico. Più che sufficiente ad annoverare MES nell’olimpo dei distopici inglesi che da George Orwell e Aldous Huxley (altri suoi preferiti…) risale a Jonathan Swift.

Se vi pare poco…

Se vi pare poco, abbiamo anche due Tennent's in regalo.

Il jukebox ribelle

Uno dei divertimenti del nostro moderno William Hogarth era fustigare chiunque. Ma se il mezzo cambia e non il fine, tra le due sfere deve comunque regnare una certa armonia. Non importa quale: importa che forma e contenuto vadano d’accordo ed ecco allora le sonorità che badano al sodo assicurando enormi spazi di manovra. Il jukebox ribelle costruito da Mark è minimale però indispensabile, una mescolanza aspra di garage, rockabilly, rock prefissato kraut e/o art, psichedelia mutante.

Una ricetta battezzata Country & Northern sempre pronta a contaminarsi, anche se gli ingredienti base erano chiari fin dall’inizio. Il caracollare ritmico ipnotico, le chitarre taglienti, la tastiera che spatola poche note, il teatro surrealista della crudeltà sgranato su un rap da operaio settentrionale, che immagini seduto in un angolo del pub a mugugnare la sua non-filosofia.

Non-filosofia operaia settentrionale per mangiare sano.

In sostanza, il fantastico equilibrio tra irruenza e avanguardia rappresenta l’anello di congiunzione tra Seeds, Monks, Velvet Underground, Can, Faust, Captain Beefheart, Johnny Cash, Van Der Graaf Generator. Tutti assieme appassionatamente, sono mescolati fino a ricavare qualcosa di altro: un’incarnazione tra le più elevate del metodo avant garage coniato dai Pere Ubu.  

Quattro decenni di maximum post-punk alle spalle, i Fall sono nati dopo un mitologico concerto dei Sex Pistols, propulsi dalla visione creativa di un’indole incompromissoria e complessa. Memorabili le sbottate dell’ingestibile demiurgo, che ha usato e gettato fidanzate, mogli e musicisti da rissoso Grinch della new wave.

Come nel calcio, ogni tanto bisogna sbarazzarsi del centravanti. (Mark E. Smith)

Probabile che nemmeno lui ricordasse tutta la gente (talenti come Una Baines e Martin Bramah che fonderanno i Blue Orchids, i fedeli Craig Scanlon e Steve Hanley, la chitarrista e consorte americana Brix che lo aiuterà ad approfondire il gusto melodico) transitata nella band. Qualcuno ha fatto il computo ed è saltata fuori una cifra curiosa: sessantasei. Da par suo, Mefisto Smith risolveva la questione affermando che, anche con tua nonna ai bonghi, bastava la sua presenza a garantire i Fall.

Aveva ragione, ovviamente. D’altro canto, è dalla polarità di opposti che nasce l’arte, e tra i compiti dell’artista rientrano sia il tentativo di dare ordine al caos che la sua descrizione. In quanto tale, non ha scelta: deve essere un gentleman e uno stronzo. Proprio come Mark.

A destra il gentleman, a sinistra lo stronzo. O viceversa?

(D)istruzioni per l’uso

Ascoltare attentamente i Fall significa trovarsi alle prese con un senso per la metamorfosi sottile. Non esiste un LP esattamente uguale all’altro e questo dato incontrovertibile ha spinto il super fan John Peel a definire «sempre uguale, sempre diversa» la formazione che amalgamava un’inconsueta abilità autocamaleontica con l’approccio colto primitivo che sta alla base del rock progressista, ovvero la chiarezza di idee, le scosse a neuroni e gambe e la concisione che confluiscono in un marchio di fabbrica riconoscibile.

Un’estetica seriale alla Warhol corretta in chiave brutalista, se proprio ci obbligate a escogitare una definizione. Chiunque, però, non può farlo. Almeno non nella medesima maniera, perché – oltre a essere impossibile – è molto più sensato afferrare il messaggio e, come tanti hanno fatto, restituirne un’interpretazione. Con Mr. Smith la linea retta tra due punti è sì la più breve, ma soprattutto la meno interessante e perciò viene rigorosamente evitata. Di conseguenza, pur con gli alti e bassi fisiologici di una lunga carriera, non ci si annoia mai. Ogni disco è il passo giusto al momento giusto, anche i meno riusciti contengono zampate degne e le cadute sono rare.

Per non parlare del gusto sofisticato quando si è trattato di scegliere la carta da parati.

Lo stesso vale per il flusso di (in)coscienza dei testi, che risulta più “annodato a” che “poggiato su” geometrie sonore spigolose. Un ventaglio ampissimo concepito da chi, per diretta ammissione, era perverted by language e ha predetto le bombe su Baghdad e la follia imperante, ha offerto odi amarognole a Jack Kerouac e inveito contro il northern soul, ha alternato manifesti estetici e tuffi nel lato oscuro.

Roba fantastica che ti aspetti da un outsider per vocazione, il quale schifava il terreno di coltura del rock inglese (le scuole d’arte) e all’inizio campava da impiegato delle spedizioni al porto di Manchester. Da chi ha scavalcato il punk al primissimo incontro, raccogliendone la scintilla per accendere i suoni che gli incendiavano il cervello. Da lì, il processo è stato naturale, scandito dalle dita “a V” sbandierate ai giornalisti e all’industria e dallo stile fieramente originale, della ferrea disciplina e della prolificità che profumano di classe operaia. Popolare, esatto.  

In un'ora esatta un buon riassunto dell'unica costante di questa storia.

Anche per questo nei Fall il disordine si concede delle regole, trasformandosi in un linguaggio umorale, cangiante e anti-intellettualistico, in un labirinto di musica schiettamente urbana nella quale l’anarchia spirituale è incanalata in mirabili architetture di potenza e raffinatezza a lento rilascio. Un rilascio inesorabile, talvolta vicino al pop che cerca l’avventura ed è intessuto di profondità, dinamiche emotive e lotta psichica. Quello che coglie lo spirito del suo tempo e tuttavia vi si contrappone in un equilibrismo che fa rima con cinismo.

Al netto dell’essere umano, come pochi altri complicato e controverso, ci piace pensare Mark Edward Smith come un punto interrogativo attorcigliato al microfono che, quando meno te lo aspetti, si raddrizza per esclamare un nuovo vaticinio. Come ogni profeta degno di tal nome, forse lo capiremo da qui a cento anni. Nell’attesa, come il Glen Runciter di Ubik, lui è vivo e i morti siamo noi. Arrivederci, hip priest.

The Fall
The Fall, quando erano giovani e belli. Più che altro giovani.

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