Analisi di un gruppo importantissimo per capire l’Italia sotto le borchie, evitando i soliti sentimentalismi e le stantìe retoriche da defenders of the faith che sono la carie della critica musicale heavy.
L’intento di questo articolo non è di celebrare la Strana Officina e tanto meno di contribuire a diffonderne la storia. Sono quarant’anni che il nome gira nel piccolo mondo occluso del metallo nostrano, e praticamente nessuna penna ha evitato di inzuppare il benché minimo discorso critico o sociologico in una melassa sentimentale sulla morte dei fratelli Cappanera.
Abbassino le picche e rinfoderino le spade i truisti lettori: non abbiamo nessuna intenzione di infangare trollianamente la memoria dei succitati fratelli, né di provocare in modo deliberato reazioni di culo e di petto in chi ama e si eviscera il cuore ogni volta che sente tirare in ballo l’Autostrada dei sogni o citare il nome dell’emblematico Daniele “Bud” Ancillotti. Qui si vuol solo scrivere di musica, di arte, di tipi umani. Ma visto che è impossibile affrontare la Strana Officina senza parlare della scomparsa tragica dei due fondatori, ci togliamo subito il sasso dalla scarpa.
È stata una disgrazia che nell’immediato ha innescato un moscissimo revival coccodrillesco, ma che in fondo non ha mai trasformato questa piccola band in fenomeno di costume, paragonabile a casi di autentica necrofilia quantistica come i Mayhem, morti prima di vedere il loro discorso creativo accidentale tramutato in un virus socioculturale che oggi passa dagli omicidi di massa nelle scuole americane ai meme con capre e pechinesi, alle t-shirt di Rihanna e Kim Kardashian. Del resto, i fratelli Cappanera sono scomparsi da gente normale, e non sprofondati nell’eccesso chimico di un Vasco o durante la fase REM di un megatour europeo come Cliff Burton.
Guidavano da Livorno a Firenze con mogli e prole (salvi dopo lo scontro) per chissà quale motivo. La FI-PI-LI è stata la loro Samarcanda. E come una terra di sogno e di incubo, strade come quella o la vecchia Aurelia, per dei rocker rustici come loro erano le sole highway su cui sfrecciare, sferragliando fuori dai finestrini selvaggi assoli alla Pus Jordan e librando braccia villose a dare del cornuto al mondo e a quel vecchio sole malato e triste che si spalma sulla gobba cammellina dell’Argentario.
Davanti c’era una moto, quel giorno nero. E di motociclette avevano tanto cantato gli Strana Officina, così che, a pensarci, un po’ di inquietudine viene. Ci si domanda se la sacca sganciata dal centauro davanti a loro potesse appartenere alla ragazza inquieta in fuga da se stessa nel brano più rappresentativo della band e che non voglio citare di nuovo.
Maledetta autostrada… Cimitero dei sogni, centro dell’hard rock Aurelia Freeway, goliardico e sereno mid-tempo, senza rimpianti, ma ancor più mefitico di jattoria profezia.
Cosa è successo, dopo? Non un granché. Klaus Byron, manager, amico carissimo della band e redattore capo della rivista Flash, ha maledetto proprio su quelle stesse pagine il fiore malsano di pennaioli borchiati, prima sempre pronti a snobbare la Strana e, dopo la morte dei Cappa, così interessati a scriverne pur di accaparrarsi qualche spicciolo in più dai lettori romantici e votati all’underground.
Ma la verità era che: 1) tragedie o meno, al pubblico metal del 1993-1994 la Strana Officina interessava poco o nulla in un momento di bassissima quota per il genere, che sarebbe poi stato ricodificato e rilanciato come “tradizionale”; 2) durante gli anni ‘80, le riviste metal italiane avevano dato molto spazio sia ai Cappanera che ad altre band dello Stivale, senza però riuscire a lanciarne una che fosse una. Purtroppo, la pubblicità e il supporto “amichevole” e appassionato di qualche redattore non hanno mai potuto fare nulla se, nei negozi, dischi come Ritual o Rock & Roll Prisoners non si trovavano. E non si trovavano perché le etichette, la Chiesa, le cavallette… va beh, che ve lo dico a fare.
No, dai, non cominceremo qui l’ennesima solfa su cosa è mancato alle band metal italiane per spiccare il volo. Tanto, chi voleva saperlo ha avuto modo di scoprirlo e chi non ama la realtà preferisce scaricare le colpe dove gli pare. Certo è che i Cappanera hanno intentato un’azione legale contro Materiali Sonori per non aver adempiuto gli impegni contrattuali di distribuzione. Ma di storie così squallide è pieno lo Stivale.
Vorremmo quindi tagliare una volta per tutte la questione sui “se fossero” e “se avessero” che sono sempre stati applicati alla band metal italiane di turno quando se ne è scritto. Ovvero, nel caso specifico, dicendo che i Cappanera “non sono stati” e “non hanno avuto” e che tutto ciò che sono riusciti a lasciarci, tranne qualche esperienza orale dei loro live “incendiari”, è una manciata di registrazioni ufficiali di puro e dignitoso artigianato metallico. Sì, necessario nella discoteca personale degli italiani di ogni generazione che amino l’hard and heavy, ma fermiamoci qui.
All’estero non c’è ragione per cui il pubblico debba sapere della Strana Officina. Dalla Spagna al Belgio, dagli Stati Uniti al Giappone – tranne qualche collezionista compulsivo che spende soldi in cerca di vinili anni ‘80 di thrash-speed cileno – non è necessario che il mondo si accorga dei Cappanera. Detto brutalmente, ognuno ha le sue perversioni, ma non possiamo davvero sostenere che un solo brano della Strana Officina rappresenti un classico per il canone internazionale. Non possiamo mettere Piccolo uccello bianco insieme a Masters of Puppets o The Number of the Beast, giusto?
C’è chi lo farebbe, lo so. Però, dai, è solo uno sparare di parte che non fa mai davvero un favore al repertorio della band livornese, validissima realtà appartenuta a campionati minori rispetto alla Champions del Real o del Manchester City. La Strana Officina non è nemmeno paragonabile alle seconde e terze fasce del metallo americano, inglese, tedesco e canadese. Ma questo va detto solo per ripiantare in terra gli anfibi dei defenders più escapisti.
Di sicuro, però, l’intera discografia della Strana Officina merita un posto d’onore nel percorso di approfondimento (lasciamo stare il collezionismo) di chi davvero vuol capire cosa sia stato questo genere per il nostro paese nella sua decade più rappresentativa.
L’attitudine dei Cappanera, in ogni incarnazione del gruppo – come trio jazz-rock hard blues, come quartetto nerboruto con il punk-lirico Johnny Salani, come quintetto tallico di Masi e il più massiccio e sabbathiano Bud: in ogni veste possibile, insomma – è sempre stata quella dei provinciali umili e di talento. Di gente capace di scrivere un pezzo come Viaggio in Inghilterra, in cui raccontavano la vacanza a Londra in pellegrinaggio nei posti dove i loro miti avevano sudato, suonato e collassato, inneggiando con gioia e un accento vagamente inglese in stile Rokes di una passione vissuta con gli occhi tutt’altro che chiusi e proiettati ai grandi palchi del Monsters of Rock, ma sempre con venerazione invece che con propositi battaglieri e di conquista.
Nati letteralmente tra gli attrezzi dell’officina di famiglia, il nome Strana Officina deriva dall’osservazione di un carabiniere chiamato sul posto dopo le segnalazioni del vicinato, a causa dei rumori provenienti appunto da quella che doveva essere un’officina di carpentieri, ma in realtà era spesso usata come luogo di ritrovo dalla band.
Cosa c’è di più italiano di questo? Una sala prove d’occasione, la frustrazione di avere culturalmente contro il tuo intero paese – nell’accezione più istituzionale e democristiana delle lamentele anonime dei vicini e dei carubba che vengono a romperti le palle dicendoti di abbassare il volume – e il tuo moniker nato da questa situazione così pittoresca.
E poi le gran mangiate che tenevano unita la famiglia Cappanera, assai più importanti ed essenziali di ciò che si potrebbe pensare. Dopo le prove e nelle domeniche livornesi erano tutti lì che chiacchieravano di Iron Maiden e Rory Gallagher tra una forchettata di rigatoni e un cacciucco. Famiglia coinvolta nelle tresche musicali di Fabio e Roberto anche a livello economico e che non solo ha nutrito le velleità dei due ragazzi investendo soldi e concedendo spazi, ma che ha anche sentenziato la fine della band dopo la loro morte, sebbene Bud e Mascolo volessero continuare.
Mangiate famigliari dolci e sostanziose, che restituivano nelle foto session quattro ragazzoni ben pasciuti, non enfi di alcolici e logorati dalle notti insonni passate a pippare coca maltagliata e venerare Bafometto. La Strana Officina era fatta di putèi tranquilli: faticatori, operai, mossi dal carboidrato come carburante principale e con lo sguardo sornione di chi sa chi è davvero.
Sì, ovviamente provarono la via del successo. Sia quando uscì Ritual, con i primi quattro brani in lingua inglese, ma soprattutto subito dopo, con il disco completo Rock & Roll Prisoners, edito dalla Metalmaster, in cui si tentò di trasformare la rustica vena metallica-livornese del primo EP, così grondante di cultura rock anni ‘70, in qualcosa in linea con il mercato heavy della seconda metà degli Eighties, quando il verbo duro stava davvero vendendo un casino – però non funzionò.
E qui vi sbagliate: i Cappanera non ne fecero un dramma. Ripresero subito a parlar come mangiavano, scrivendo testi in italiano e realizzando un album che qualcuno definì “solista” anche se erano due membri della Strana a realizzarlo – più il ritorno di Johnny Salani alle liriche e alcuni cantati. Non c’è più mondo rappresenta una chiusa testamentaria inconsapevole, ma che non lascia chissà quali rammarichi o rimpianti. Sì, ok, i due fratelli pensavano di ripartire anche con la band madre, parlavano con orgoglio del recente tour in Cecoslovacchia, ma in fondo sapevano che era tutto lì e però quello gli bastava: continuare a incidere musica, realizzandola come meglio potevano e volevano, alla faccia di Metallica e Castle Donington.
Poi certo, c’è Bud che si mangia le mani per non aver portato avanti il gruppo negli anni ‘90, immaginando chissà quali riscontri in un tempo assolutamente nemico dei revival, delle armonizzazioni di chitarra e del quattro quarti, ma si tratta di chiacchiere e di nostalgie.
La ripartenza famigliare, con Rolando e Dario – tra libri, remake, nuovi album, avventure cinefile e serate davanti a quattromila persone esaltate – è solo una rispettabile celebrazione della storia, non altro. Come dice Ancillotti, stavolta mostrando una lucidità notevole, «senza i vecchi pezzi non avrebbe senso nulla di ciò che facciamo oggi».
Parliamo di “sociologia” perché la Strana Officina rappresenta bene cos’erano i metallari veri, quelli vissuti negli anni ‘80, quando farlo significava viverlo, senza considerare mai implicazioni discografiche, di carriera, realizzazione professionale e l’attitudine cosplay di oggi. Al gruppo bastava essere un gruppo, avere dei palchi su cui suonare in modo professionale, davanti a un pubblico fedele di cento persone, una sala dove sfogarsi, scrivendo brani incentrati su vita vissuta e visioni moto-siderurgiche, finendo per fare la parodia della triumvirale liturgia “sex, drugs & 666” del calvinismo americano.
Un pezzo come Profumo di puttana per esempio si riferiva alle serate di solitudine mascolina trascorse in cerca di una prostituta in uno spaccato sociale da provincia spenta e squallida: non c’erano groupies o avventure sordide con qualche fan in fuga dall’alcova maritale. Non sei normale era la bandiera del disadattato peninsulare borchiato di quel periodo: il vitellone che litigava con la madre prima di uscire di casa a far nottata e che nei momenti di scoramento si aggrappava alle profetiche parole di eterna vendetta del dio metal-rock.
La vita del rocker è dissacrata definitivamente in Rock & Roll Prisoners – promosso in modo assai serio (e benedetto dalla partecipazione indimenticabile al Lugano Open Air, a fianco di gentona come Krokus e Saxon) – e con toni più drammatici in Falling Star. La critica alla cultura minacciosa dei satanismi incisi al contrario è espletata nell’incipit del brano The Ritual, il solo ad avere una inflessione da paganesimo stellare alla Agent Steel e Crimson Glory, ma che nessuno ha mai preso sul serio un solo secondo. Anche Kiss of Death scimmiotta non poco gli apprendisti stregoni di cui è sempre stato pieno il rock.
Ma la stoccata decisiva al mondo del metallone vero, i Cappa la danno con la straordinaria King Troll, che, insieme a Gorgar degli Helloween, rappresenta la più smargiassa parodia delle divinità infernali celebrate da Venom e Priest al tempo che ormai fu di quando il metallo si pensava malvagio e pericoloso.
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