Pirotecnici campioni dell’eccesso misurato e della misura eccessiva, i fratelli Mael – in arte (pop) noti come Sparks – sono la band di culto per eccellenza. Del tipo amato dai musicisti che, un cambiamento dietro l’altro, regala capolavori indenni allo scorrere del tempo.
Parafrasando gli Skiantos, nel pop non c’è gusto a essere intelligenti. Basta pensare agli XTC, definiti con piena ragione i “Beatles della new wave” ma che il successo lo hanno visto con il telescopio, oppure ai Big Star, inventori di un power pop del quale saranno in eterno l’epitome suprema e passati all’epoca inosservati. L’elenco potrebbe continuare a lungo mentre riflettiamo sul fatto che nel 2022 c’è ancora chi trova “difficile” Low, ma pazienza. Significa che, in fondo, costoro The Dark Side of the Moon (non?) se lo meritano.
Sull’altro piatto della bilancia, però, in tempi relativamente recenti Radiohead e Björk hanno unito sperimentazione e comunicativa introducendo sonorità di affatto facile fruizione nelle case e nella testa di molti. Pur nella confusione e omologazione odierne, Homogenic e Amnesiac ci rammentano tuttora che le canzoni nascondono dei passe-partout utili per giungere dove non penseresti mai, che incastrano sottintesi su melodie invincibili e nel frattempo scardinano le regole.
Canzoni che in altri frangenti possono poggiare sull’umorismo, che è sempre segno di intelligenza e profondità. Perché – Frank Zappa insegna – l’umorismo appartiene alla musica, nonostante il confine tra provocazione in incognito e trivialità senza causa sia assai sottile.
Un bivio fatale, in realtà, nel quale una delle strade è il vicolo cieco della risata che non seppellirà nessuno, mentre l’altra via cerca un’interazione con il pubblico, lo esorta a usare il cervello, a pensare in una prospettiva che supera lo scherzo usa-e-getta. Anche se siamo in pochi ad apprezzarla, dato che straniamento e ironia mettono davanti a uno specchio nel quale le immagini possono non piacere.
Perché può far male, all’inizio, quando ancora non afferri il profondo rispetto per l’umanità che costituisce il cuore della cosa. Come accade con Lenny Bruce e i Monty Python, per esempio. Oppure con gli Sparks. Guarda caso, costoro sono il “culto allargato” per antonomasia che nelle charts è entrato non quanto avrebbe meritato.
Tuttavia, la loro follia solo apparente e impreziosita da un lucido metodo mette d’accordo Pet Shop Boys e Siouxsie, Depeche Mode e Smiths, Franz Ferdinand e – toh, chi si rivede – Björk. A volte nel pop non c’è gusto a essere intelligenti, ma cosa vuoi che importi quando siedi nell’Olimpo?
La linea retta è la distanza più breve tra due punti, ma di rado è anche la più interessante. Lo sanno bene Ron e Russell Mael che, in un percorso iniziato mezzo secolo, fa hanno preferito le acrobazie temerarie e l’ambizione pura, cioè quella che non scivola nella pompa magna e non maschera la carenza di idee. Al contrario, di idee loro ne posseggono in abbondanza e cambiano pelle appena iniziano ad annoiarsi.
Per questo sono transitati con rara disinvoltura dal glam britannico di grana finissima a una sua peculiare declinazione americana, dall’eurodisco siderale al wave pop sintetico, da tentazioni house e techno alla classica, al musical e al cinema, conservando una trasversalità da intendere nel senso più ampio possibile della quale detengono il marchio di fabbrica. Sempre le forme a mutare, mai una sostanza che tasta il polso all’attualità e si colloca al di sopra di tutto. E di tutti.
Inclassificabili, gli Sparks. Lo stesso vale per un art pop – definizione di comodo, da prendere con le pinze – stralunato, fascinoso e unico. Prova ne sia che le cover più convincenti del loro repertorio stravolgono ulteriormente ciò che in partenza costituisce un originale, ma soprattutto che la coppia le abbia racchiuse in Plagiarism, album tributo a se stessa, gustoso fin da un titolo che sovrappone sarcasmo e situazionismo.
L’impossibilità di essere normali è radicata nel DNA dei Mael, si riflette su una retromania proiettata nel futuro e su una mescolanza di estetiche e immaginari eurocentrici. In ogni caso nessun ingrediente prevale, che sia la scioltezza nel divertirsi (serissimamente) con gli stili e l’arredo sonoro, testi pieni di giochi verbali, citazionismi e situazioni sull’orlo dell’assurdo, un cantato sensazionale per estensione, timbro e sapienza interpretativa.
Tutto culmina in una scrittura sofisticata che nasconde la propria complessità come il più esperto dei prestigiatori, però con l’ironia e l’assoluta naturalezza di chi sa cosa sta facendo. Alt(r)a classe, signore e signori.
La diversità dalla norma e la propensione a fare carta straccia degli stereotipi sono caratteristiche che ti aspetti da chi cresce a Pacific Palisades (zona ovest di Los Angeles) ed è figlio di un caricaturista e di una bibliotecaria di origini ebraiche. Riservati ed enigmatici, i Nostri sono restii a rivelare dettagli del privato, ma sappiamo che a fine anni ‘60 frequentano la UCLA: nato nel 1945, Ron studia grafica e cinema e Russell, tre anni più giovane, segue i corsi di regia e teatro.
Entrambi nutrono una passione per il mondo della celluloide, instillata dal babbo prematuramente scomparso, che darà ottimi frutti. In netta controtendenza i gusti musicali: con i Beach Boys a rappresentare l’eccezione che conferma la regola, sono all’insegna dell’anglofilia spinta. L’esempio di Who, Kinks, Move e Pink Floyd riaffiorerà a tempo debito, implicando sottigliezza compositiva e stravaganza mai gratuita, curiosità e determinazione.
Una semplice prova la prima esperienza in studio come Urban Renewal Project nel ‘67, sono molto più seri un anno più tardi gli Halfnelson. Ron suona le tastiere, Russell intona le bizzarrie scritte dal fratello con ugola da angelo disturbato e amante dell’opera e i ranghi sono completati da Earle e Jim Mankey a chitarra e basso e dal batterista Harley Feinstein. Li adocchia Todd Rundgren, firmano per la Bearsville e nel ’71 l’esordio omonimo non va da nessuna parte.
Si ribattezzano Sparks, l’LP ricompare nei negozi e la sinuosa gemma Wonder Girl sfiora l’ingresso nella Top 100. Niente male il disco nel complesso e idem il successore A Woofer in Tweeter’s Clothing, forte dell’altro 45 giri da favola Girl from Germany. Tra alti e (pochi) bassi, centrifugano lustrini, enfasi e obliquo post-garage pop insegnando una cosa o due alla new wave (Mark Mothersbaugh dei Devo l’ennesimo fan eccellente…) e consolidando lo status della formazione.
Specialmente in Inghilterra e per ovvi motivi, poiché la sensibilità degli artefici si salda a un glam che impazza. Durante un tour in terra albionica, gli Sparks constatano l’interesse di pubblico e critica, decidono di trasferirsi e optano per la tabula rasa totale, passando alla Island con un nuovo manager e strumentisti reclutati sul posto il cui apporto non va sottovalutato.
Anzi: il duttile chitarrista Adrian Fisher e la vigorosa sezione ritmica di Martin Gordon e Norman “Dinky” Diamond aiutano a raggiungere la densità e il tiro che in parte mancavano. Ovvero: siamo dandy, però picchiamo duro.
Nel 1974, il capolavoro Kimono My House cavalca l’onda distinguendosi con un calderone postmoderno che ha poco a che fare con la tradizione rock. La maturità autoriale si salda al vigore esecutivo, alla produzione cristallina di Muff Winwood (i ragazzi avrebbero voluto l’ex Move Roy Wood, purtroppo non disponibile) e all’impiego consapevole della tecnologia, che vede Ron passare da un piano elettrico Wurlitzer all’RMI 300, dotato di suoni simili a un tremolante luccichio. Filtrati dall’Echoplex, risultano adattissimi all’atmosfera di brani con tutto l’aspetto di stralunati sottintesi.
Sarebbero comunque dettagli, senza le fondamenta di una scaletta che non concede tregua nei suoi continui saliscendi emotivi, stilistici e verbali. Quasi cinquant’anni dopo non ha perso un briciolo di smalto e acume l’idea di pop sospesa tra avanguardia e cantabilità offerta in un classico di raffinatezza spontanea ed equilibrata, la cui eleganza si ferma svariati passi prima del kitsch piegandolo in una perenne freschezza.
Se di barocco si tratta, è nell’eccesso tenuto a freno dalla razionalità. Eloquenti al riguardo gli estremi di una This Town Ain’t Big Enough for Both of Us incaricata di aprire le danze strapazzando i Roxy Music di Virginia Plain e del commiato Equator, un inquieto e teatrale blues attraversato da mellotron che si fingono sax e concluso da un’alienata coda vocale.
Nel mezzo, di tutto e di più: nevrotiche marcette per musical sceneggiati da Woody Allen e Andy Partridge (Amateur Hour), inni narcisisti su arie da Kurt Weill bavarese (Falling in Love with Myself Again), patti suicidi traditi (l’amara però travolgente Here in Heaven) e caustici cuori infranti (Thank God It’s Not Christmas: epica, dinamica e dall’articolazione perfetta).
Girato il vinile, ti accolgono la serrata elasticità di Hasta Mañana, Monsieur, il sagace stomp’n’roll Talent Is an Asset, i chiaroscuri e le ripartenze bolaniane di Complaints, una scintillante In My Family che anticipa Cars, Ultravox e Magazine. Meraviglioso, a dir poco.
La stampa si lancia in panegirici, il pubblico apprezza (nella graduatoria britannica This Town Ain’t Big Enough for Both of Us ottiene la seconda piazza, l’album sfiora il podio) e per una stagione gli Sparks sono stelle che si permettono di relegare sul retro dei 45 giri delizie come la slanciata Barbecutie e il proto-punk Lost and Found.
In parallelo alla musica, colpisce l’interazione da opposti complementari dei Mael: in concerto e nelle apparizioni televisive il ragazzo da copertina Russell si agita con estro da frontman sotto lo sguardo aguzzo del compassato fratello. L’insieme ha un fascino stridente e allo stesso tempo irresistibile, come se il perturbante freudiano si materializzasse nel pop, e forse è proprio così che stanno le cose.
Di certo è così che gli Sparks proseguono il momento magico, pubblicando già in novembre lo splendido Propaganda, scontando qualcosina sotto il profilo commerciale. Mentre in patria il bacino d’utenza si espande, capiscono che con Indiscreet il filone glam è stato sfruttato e a metà decennio rientrano in California.
Da allora si sono rigenerati spesso e volentieri, conservando rispettabilità anche in alcuni momenti un po’ appannati e conquistando un’altra vetta nel 1979, con No. 1 in Heaven e una disco-tronica supervisionata da Giorgio Moroder destinata a far scuola. Di nuovo? Sì, di nuovo.
Del resto, cavalli di razza si nasce e fantini esperti si diventa lavorando sul talento, che notoriamente è un asset e in quanto tale va curato. Consapevoli di ciò, Ron e Russell ci hanno accompagnato fino a una contemporaneità che li racconta in forma eccellente, elevando ad arte l’imprevedibilità e lo stile a ragione di vita per il piacere di chi può capire. Ed è esattamente questo il sottile gusto dell’essere intelligenti nel pop.