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A volte è necessario approfondire. Per capire da dove arriva la musica di oggi, e ipotizzare dove andrà. Per scoprire classici lasciati indietro, per vedere cosa c’è dietro fenomeni popolarissimi o che nessuno ha mai calcolato più di tanto. Queste sono le storie di HVSR.

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Sigur Rós: la voce della speranza, in una lingua inventata

Fonemi e significati, utopie e distopie, dalla terra dei ghiacci.

( ) – esattamente vent’anni fa si aprivano (e si chiudevano, forse) due parentesi senza titolo che da allora contengono il tutto, il niente, e anche di più.

Sigur Ros - ()
  • Artista: Sigur Rós
  • Titolo: ( )
  • Anno: 2002
  • Tracklist:
    • Untitled (Vaka) – 6:38
    • Untitled (Fyrsta) – 7:33
    • Untitled (Samskeyti) – 6:33
    • Untitled (Njósnavélin) – 6:56
    • Untitled (Álafoss) – 9:57
    • Untitled (E-Bow) – 8:48
    • Untitled (Dauðalagið) – 13:00
    • Untitled (Popplagið) – 11:45
  • Formazione:
    • Jón Þór Birgisson – voce, chitarra, tastiera
    • Kjartan Sveinsson – tastiera, chitarra
    • Georg Hólm – basso, tastiera, glockenspiel
    • Orri Páll Dýrason – batteria, tastiera

Così lontani, così vicini

I Sigur Rós sono il gruppo islandese più famoso al mondo, la cui popolarità – dentro e fuori dall’isola natìa – è ormai seconda soltanto a quella dell’inarrivabile Björk. Il caso ha voluto che, all’inizio degli anni ’90, proprio costei fungesse in qualche modo da “madrina” alla formazione, inserendo il loro primo singolo in una raccolta pubblicata per celebrare i cinquant’anni d’indipendenza dell’Islanda dalla Danimarca.

La (in)colmabile distanza tra Reykjavík e Springfield.

All’epoca Björk aveva già raggiunto il successo oltre confine, mentre i Sigur Rós si erano appena affacciati sul panorama musicale nella loro formazione originale – Ágúst Ævar Gunnarsson alla batteria (poi sostituito da Orri Páll Dýrason), Georg Hólm al basso e Jónsi Birgisson chitarra e voce – e il suono della band era ancora piuttosto acerbo.

Dopo il primo album pubblicato nel ’94 - (Von), del quale vale la pena recuperare almeno la title track – i ragazzi hanno acquisito maggiore fiducia nei propri mezzi, anche grazie all’ingresso in formazione del polistrumentista Kjartan Sveinsson, l’unico membro con alle spalle studi di musica. Così, album dopo album (l’ultimo lavoro in studio, Kveikur, risale al 2013), hanno affinato la tecnica, conquistando buona parte della critica e una pletora di fan, rimasti al tempo stesso abbacinati e annichiliti da suoni che sembrano provenire dalle profondità della terra, o magari da una galassia (s)perduta a milioni di anni luce di distanza da noi.

Proprio il senso di distanza incolmabile sembra essere una caratteristica “ontologica” nella musica dei Sigur Rós, che contiene in tutta evidenza qualcosa di non umano: o meglio, qualcosa che supera i confini limitati dell’uomo, perciò di oltre-umano. Difficile stabilirne con esattezza la provenienza e sul Melody Maker c’è stato addirittura chi si è spinto a dire che la loro musica era «come il suono di Dio che piange lacrime d’oro in paradiso» (senza considerare che al limite i Nostri avrebbero preferito riprodurre il suono delle divinità vichinghe che piangono nel Valhalla).

Con il tempo le loro canzoni sono state inserite in serie tv di successo e film che vanno dai cult movie underground di Gregg Araki alla Hollywood di Tom Cruise, passando per Netflix e HBO e senza dimenticare spot pubblicitari, promo sportivi e persino una versione di Hoppipolla usata come stacchetto al festival di Sanremo del 2010. Last but not least, ricordiamo l’apparizione degli islandesi persino in un episodio dei Simpson. Ancora più last – e ancora meno least – un loro cameo in Game of Thrones.

Eccoli menestrelli (poco apprezzati, a dire il vero) al matrimonio di Joffrey.

Insomma: da diverso tempo i Sigur Rós non sono più una “novità”, e tuttavia – come recitava una vecchia recensione di Blow Up – ad ascoltarli oggi «sono ancora rabdomanti degli aneliti più riposti del mondo» e la loro musica rappresenta sempre un mistero difficile da comprendere.

Tra parentesi

Per provare a fare un po’ di luce cade a fagiolo l’anniversario dei vent’anni del loro terzo album, uscito a fine ottobre 2002: il famoso disco “senza nome”, o meglio il disco che al posto del titolo ha uno spazio vuoto messo tra parentesi (  ).

Fin dal titolo, (  ) è un’opera fatta di spazi vuoti da riempire. Qualcosa che non puoi nemmeno pronunciare, talmente è sfuggente. Per questo non lo puoi chiamare e, al massimo, è lui a chiamare te. Per tentare di capirlo ci devi entrare, lasciarti attrarre e soprattutto andare. Devi fare un salto nel vuoto.

Il titolo e la foto di copertina sono però soltanto la punta dell’iceberg: il libretto che accompagna il tutto è altrettanto spoglio: niente note né foto della band, ma soprattutto non ci sono i titoli dei brani, che di conseguenza sono tutti Untitled. Men che meno puoi sperare di trovare i testi delle canzoni, perché – qui viene il bello… – sono cantate in una lingua che non esiste. Una lingua che, sulla carta, non ha alcun significato, eppure per qualcuno contiene tutti i significati del mondo. 

È questa forse la novità più grossa rispetto al resto della musica “pop”: nelle parole di Jónsi, (  ) è un disco volutamente incompleto perché sono gli ascoltatori a doverlo completare. Spetta a loro inserire il significato trasmesso dalla musica, senza che i musicisti interferiscano con questo processo. 

Nella musica dei Sigur Rós tutto si fa simbolo, le parentesi delimitano lo spazio circoscritto del suono, all’interno del quale ognuno può sentire – nel senso più ampio possibile – ciò che vuole.  Così, le due parentesi sono rappresentate dal primo e ultimo suono che sentiamo nel disco: ovvero, il jack della chitarra che si collega e poi si scollega dall’amplificatore. Due suoni e altrettante parentesi che rappresentano i poli di attrazione opposti verso i quali tendono le sonorità (  ). Una lotta tra estremi che tiene tutto in costante tensione.

Anche la soluzione trovata per certe versioni del packaging rispecchia il concetto, a modo suo.

A sua volta, la struttura dell’album non fa che rispecchiare questa tensione binaria: le prime quattro canzoni sono più “leggere”, melodiche e accessibili, mentre le ultime quattro delineano una sezione più drammatica, atmosferica e apocalittica. A separarle tra loro, ancora una volta, uno spazio vuoto: 36 secondi di silenzio che fanno pensare a una sorta di riproposizione in scala ridotta dei 4 minuti e 33 secondi di John Cage.

Giunti a questo punto, pare evidente quanto (  ) non sia semplicemente l’album più venduto di sempre nel catalogo della band islandese, ma soprattutto quello di una svolta concettuale che si sistema all’interno di quella che, con una certa approssimazione, potremmo definire una “filosofia” musicale.

Prendendo spunto da un bellissimo saggio di Ethan Hayden, possiamo dire che i quattro elementi fondamentali di questa filosofia sono:

  1. la lingua inventata
  2. la voce come strumento a sé stante
  3. lo spazio
  4. la speranza

1. Un mix di islandese, speranzese e nonsense

Quando si parla dei Sigur Rós, la peculiarità citata più spesso è la lingua inventata. Se all’inizio ciò poteva sembrare un vezzo sporadico, con il terzo album la band prova ad abbandonare del tutto l’islandese, sostituendolo con quella che loro stessi hanno battezzato “Vonlenska” o “Hopelandic”, vale a dire “lingua della speranza”. Si tratta di un idioma composto unicamente da suoni e parole irreali, totalmente prive di senso: non una scelta improvvisa, quindi, ma l’approdo finale di un percorso iniziato fin dall’album d’esordio Von, che in islandese significa per l’appunto “speranza”. Ed è proprio la canzone omonima a contenere per la prima volta un piccolo passaggio in Hopelandic che parrebbe una sorta di light that never goes out concettuale.

Tuttavia, si tratta di un debutto che a posteriori la band stessa bollerà come deludente. Lo si capisce già dal titolo del secondo album, Ágætis byrjun – letteralmente: “un buon inizio” – che l’idea alla base è un reboot: una rinascita esemplificata dall’immagine di copertina, raffigurante un feto con delle piccole ali.

Smells like very, very teen spirit.

In questa seconda “creatura” si fa un uso più marcato dell’Hopelandic, per esempio in Olsen Olsen e, in parte, nella title track, mescolato ad alcuni versi in islandese rivelatori del nuovo pensiero: «Við lifðum í öðrum heimi» (stavamo vivendo in un altro mondo) / «Þar sem við vorum aldrei ósýnileg» (dove non eravamo mai invisibili). L’utilizzo di un linguaggio nonsense totalmente incomprensibile è un altro stratagemma che la band usa per nascondersi e lasciare più spazio al suo pubblico.

Ci sono poi altre due frasi fondamentali con cui i Sigur Rós comunicano di aver intrapreso un personalissimo viaggio musicale verso l’invisibilità. Una volge lo sguardo al passato e si trova tra le note di copertina: «Vi avevamo dato una speranza che è diventata una delusione… questo è un buon inizio». L’altra, il verso conclusivo dell’album, rivolto invece al futuro, che ribadisce il concetto giusto un attimo prima di concedere il finale del brano all’Hopelandic: «Við munum gera betur næst» (faremo meglio la prossima volta) / «Þetta er ágætis byrjun» (questo è un buon inizio).

«Il suono di una musica, piuttosto che di una band.»

La promessa finale di Ágætis byrjun è mantenuta nel disco successivo (  ), interamente cantato in Hopelandic e, finalmente, un’opera “invisibile”.

Ma, ci si chiede, ha senso un disco fatto di canzoni senza senso? In realtà sì: molto. Un esempio significativo di come funziona il linguaggio creato dai Sigur Rós è la traccia di apertura, Untitled #1, per gli amici Vaka.

Tutte le canzoni di (  ) hanno un titolo non ufficiale che rende più agevole la loro identificazione.

Il primo pezzo è tra i più evocativi dell’album, nonché quello che maggiormente riesce a spremere l’anima come un limone e a farne uscire il succo dalle ghiandole lacrimali. A un certo punto, nel cuore della canzone, sentiamo la seconda voce più in primo piano intonare una frase in due parti. A un primo ascolto paiono solo brevi sillabe senza senso, che si potrebbero trascrivere come «yu sy no lo / ol on ys uy», ma un orecchio più attento noterà che la prima parte viene pronunciata e poi immediatamente riprodotta al contrario, ritornando su se stessa. In sostanza, la seconda metà del “verso” è un’immagine speculare della prima e tutte e due, insieme, rispecchiano la relazione tra le parentesi opposte. In altri termini, la canzone potrebbe essere vista come un’introduzione alla simmetria bilaterale che caratterizza (  ), agendo sia come microcosmo che come prefigurazione della struttura bipartita dell’album.

L’uso del nonsense non è naturalmente una novità assoluta nell’arte, ma si inserisce in una lunghissima tradizione artistica che va dalle parole in libertà di Marinetti agli esperimenti fonetici di Hugo Ball e dei poeti dadaisti al Cabaret Voltaire (da cui Brian Eno e i Talking Heads ricavarono un brano I Zimbra – così attuale da apparire nell’ultimo film di Spider Man).

Rispetto agli altri linguaggi nonsense del passato, l’unicità dell’Hopelandic sta nell’obiettivo finale: se i futuristi volevano distruggere il linguaggio comune perché fonte di corruzione e i dadaisti puntavano a evocare un senso di alterità, nei Sigur Rós l’elemento chiave è sempre presentarsi come un “vuoto” che l’ascoltatore riempie di significato. In futuro la band svilupperà ulteriormente la concezione della propria musica coinvolgendo l’aspetto visuale attraverso il progetto Valtari Mystery Film Experiment, commissionando direttamente al pubblico la creazione dei video legati alle canzoni.

Giusto il riassunto in un minuto, per farsi un'idea.

2. La voce come strumento e la silhouette del significato

È risaputo che il nostro udito tenda a riconoscere più facilmente la voce umana rispetto ad altri suoni che ci circondano perché ne comprende il significato. Ma cosa succede se, come nell’Hopelandic, il significato viene meno? In tal caso rimane comunque un “residuo” costituito da altri elementi come il ritmo, il timbro, l’intonazione e l’accento, ma anche le allitterazioni, le assonanze, le rime. 

Nel linguaggio nonsense la voce diventa così un’espressione puramente semiotica come quella dei bambini appena nati: una voce libera di essere soltanto voce. 

L’Hopelandic, in qualche modo, espande quel “residuo”. Diventa una voce che reclama – ehm – a gran voce la superiorità sul linguaggio. Lo fa in un contesto musicale che, in qualche misura, aggiunge “altro” significato dall’interpretazione non certa, ma soggettiva: ne deriva un contenuto dai contorni sfumati, come se fosse nascosto da una nebbia attraverso la quale riusciamo a scorgerne solo la silhouette.

Tutto chiaro, no?

Per capire meglio l’importanza della voce nei Sigur Rós possiamo mettere a confronto due dei brani più famosi di ( ), uno strumentale e l’altro cantato. 

Untitled #3 (Samskeyti) è l’unico strumentale dell’album ed è caratterizzato da un impianto circolare. A un primo ascolto sembrerebbe non avere la classica struttura teleologica narrativa della piramide di Freytag, in cui la melodia inizia in basso, raggiunge un picco e ridiscende, imitando i contorni dell’inflessione del linguaggio umano. Tuttavia, se la esaminiamo da un punto di vista più esteso, ci accorgiamo che il brano arriva dal nulla, cresce inesorabile fino a un climax e poi svanisce, pian piano. In altri termini, c’è la struttura narrativa però manca la voce, per cui si percepisce un’assenza, appunto quella dell’uomo. Non a caso il brano è stato usato in maniera egregia nel finale del bellissimo film di Greg Araki Mysterious Skin, in cui i due “esseri umani” protagonisti non riescono a parlare e vorrebbero solo comunicare telepaticamente, cancellare il passato, sollevarsi da terra e scomparire nella notte.

No Netflix e poco chill.

Nella canzone successiva Untitled #4 (Njósnavélin), invece, la voce torna come “inevitabile”. Qui l’essere umano non vuole svanire/fuggire, ma vuole (ri)comparire/tornare come nel finale di Vanilla Sky, dove la canzone commenta la scena chiarificatrice tra Tom Cruise e Penélope Cruz. Seguendo il protagonista, l’ascoltatore si tuffa da un grattacielo per tornare a una vita precedente che non abbia più i contorni del sogno. Alla fine del pezzo, rimane solo la voce nuda. Come quella che abbiamo alla nascita, quando “apriamo gli occhi” come nel titolo originale del film: un eccesso di voce, che va oltre la musica e “genera” la vita.

Tanto i gatti atterrano sempre in piedi, no?

Di nuovo, abbiamo un contrasto tra abissi che si specchiano – un pozzo che guarda il cielo – tra la vita e la morte, tra la fuga e il ritorno. 

Nella definizione di “post-rock” – il genere che più si avvicina a quello praticato dagli islandesi – data da Simon Reynolds si parla di un viaggio musicale che prima elimina la narrazione lirica, poi passa al flusso di coscienza, alla voce come puro strumento e infine alla sua eliminazione, lasciando solo la parte strumentale. I Sigur Rós hanno degli elementi in comune con il processo appena descritto – per esempio l’eliminazione dello storytelling – ma, salvo qualche rara eccezione, si fermano un attimo prima dell’eliminazione della voce. Anzi: invece di espellerla, la magnificano e la rendono parte essenziale e sostanziale dei loro brani. Di nuovo, la voce è l’elemento in grado di dare e togliere la vita nella loro musica.

3. Lo spazio si allunga e si accorcia come il tempo

Lo spazio è il terzo elemento fondamentale della musica dei Sigur Rós e per comprenderlo fino in fondo bisogna tenere presente due aspetti.

Il primo è che lo spazio ha un suo suono. Ad esempio, in Samskeyti, verso la fine del brano, percepiamo il “suono” della stanza: i passi delle persone che si allontanano e le casse degli strumenti che si chiudono. L’effetto è ottenuto grazie all’uso di due microfoni, uno collocato vicino al pianoforte e uno sospeso sopra lo studio: l’ascoltatore ha così l’impressione di elevarsi e fluttuare dall’alto, proprio come nella ripresa finale del film di Greg Araki. La sensazione è quella di allontanarsi gradualmente dal punto focale della musica, come risvegliarsi da un sogno (la musica è finita, gli amici se ne vanno) e al tempo stesso svanirci dentro seguendo la musica oltre la fine.

Il secondo aspetto da considerare è che lo spazio in cui nasce il suono modifica il modo in cui il suono stesso viene percepito. Tutte le canzoni di (  ) sono state registrate in uno studio ricavato dentro una vecchia piscina, in un edificio nei pressi delle cascate islandesi di Álafoss che daranno il nome a Untitled #5. Avendo appreso la lezione di Pauline Oliveros, secondo cui «ogni spazio è parte integrante dello strumento come lo strumento stesso», la band sfrutta al meglio la grande risonanza del luogo (generata dall’altezza del soffitto) e ne cattura la specificità, piazzando quattro microfoni ai rispettivi angoli della sala. Il grosso del disco è stato inciso lì dentro suonando dal vivo, ad eccezione di alcune tracce strumentali e vocali: l’effetto ottenuto è che spesso si ha la sensazione di ascoltare suoni creati in spazi larghi, che a volte sembrano essere vicini all’ascoltatore e altre, invece, a chilometri di distanza.

Recording studio with a view.

Naturalmente il senso dello spazio non è solo il frutto del riverbero del luogo di registrazione o di trucchi creati in studio: è la musica stessa dei Sigur Rós a evocare gli spazi ampi che rimandano direttamente a quelli della loro terra natia.  Per averne un’idea basta dare un’occhiata al documentario del 2012 Heima, con cui il gruppo celebra il suo ritorno “a casa” alla fine di un tour suonando in vari luoghi ameni della madrepatria.

Prendetevi un paio d'ore.

Già in passato, a dire il vero, i ragazzi avevano voluto celebrare quei luoghi con un video della durata di 24 ore, durante il quale compivano l’intero giro dell’isola lungo tutti i 1.335 chilometri della Route 1 con il sottofondo della loro musica.

Prendetevene 24, di ore.

Proprio per questo uno dei rischi più grandi quando si parla dei Sigur Rós è quello di incorrere nel cosiddetto “borealismo”, ovvero l’associazione dei suoni della band alle meraviglie naturali della loro terra, come i vulcani, i geyser e l’aurora boreale.

In realtà, l’unico vero elemento naturale dell’Islanda evocato dalla loro musica è rappresentato dai grandi spazi che si estendono nel mezzo del nulla, perché, come si confessa nel documentario:

Lo spazio disabitato fa parte di noi, della nostra terra e della nostra anima.
Kjartan Sveinsson

A livello musicale, lo spazio esteso viene richiamato in diversi modi: dall’uso particolare della chitarra di Jónsi, suonata con l’archetto per creare lunghe sonorità dronanti, al rallentamento del tempo che separa i beat dando la sensazione della distanza, fino alla “separazione” degli strumenti, ognuno dei quali ha un registro e un ritmo, in modo da rendere la struttura sonora più espansiva. Anche l’estrema lunghezza dei brani, compresa mediamente tra i 6 e 13 minuti, aiuta a percepire le canzoni come un vasto territorio da esplorare. 

Se ad esempio ascoltiamo Untiltled #5 (Álafoss), ci rendiamo conto che i suoi dieci minuti di durata sembrano essere “allungati” nella percezione dalla batteria, che detta un tempo lentissimo di 17 battiti al minuto, ovvero sei volte meno del tempo medio di una canzone rock. Ciò enfatizza la sensazione di trovarsi in un immenso spazio disabitato introdotta dall’organo iniziale, dopodiché l’ingresso della voce isolata rafforza ulteriormente il senso di assenza. Il ritmo aumenta gradualmente nella seconda parte, finché nella sezione finale lo “spazio vuoto” viene riempito sempre di più dalla batteria, che si fa più (pre)potente per poi svanire del tutto. 

Eppure ero sicuro di averli messi in tasca, i plettri.

La storia di Álafoss, quindi, appartiene a un vuoto che viene “creato” e poi, piano piano, riempito finché quella stessa pienezza viene infine vaporizzata. È una metafora del significato del disco: generare un vuoto per riempirlo di altri significati, poi farlo eclissare per ricominciare da capo.

Il brano scompare nel vuoto, ma il vuoto più profondo è quello da cui emerge, essendo collocato subito dopo i 36 secondi di silenzio che fungono da centro di gravità del disco: un vuoto simbolico che non è altro che uno spazio di musica senza suono. Un ennesimo spazio – e luogo/vuoto – dell’anima.

4. La filosofia della speranza

Qualora non l’aveste notato, in (  ) tutto è senza nome, tranne la lingua in cui sono cantate le canzoni. Il perché è presto detto. 

La lingua è da sempre lo strumento che ci permette di comunicare con gli altri e di farci capire, ma rimane al tempo stesso una fonte di incomprensioni, per cui il linguaggio è tanto il mezzo della verità quanto dell’inganno. Per questa ragione, nel corso della storia l’uomo ha cercato di rincorrere una soluzione utopistica come quella di creare nuove forme di espressione universali attraverso le quali plasmare un mondo migliore. Uno dei tentativi più noti è quello del linguista polacco Ludwik Zamenhof che inventò l’esperanto, senza raggiungere minimamente i risultati di fratellanza, per l’appunto, “sperati”. La migliore rappresentazione musicale simbolica di questo fallimento è il famoso video promozionale di HIStory di Michael Jackson, che iniziava con una frase in esperanto sull’unione tra i popoli e il potere curativo della musica e finiva con l’erezione di una statua gigante del re del pop venerato come un dittatore.

Quando dici le buone intenzioni…

Questa tensione tra utopia e distopia è tipica di molti gruppi post-rock assimilabili ai Sigur Rós come Mogwai, Explosions in the Sky, This Will Destroy You e soprattutto Godspeed You! Black Emperor, la cui musica è stata usata nella scena postapocalittica iniziale di 28 Giorni Dopo. Eppure, si tratta dello stesso gruppo che dal vivo si esibisce con dietro un tendone su cui campeggia la scritta “HOPE”.

E finché c'è speranza…

Nell’immaginario visivo dei Sigur Rós la componente distopico/apocalittica è in genere meno presente rispetto a quella utopica: si pensi alla danza angelica del video di Svefn-g-englar o ai bambini volanti di Glósóli (spesso riprodotti sui maxischermi dal vivo) o ancora agli anziani che saltano nelle pozzanghere in Hoppípolla

Ma in (  ) c’è una componente più oscura del solito, e infatti l’unico video ufficiale dell’album realizzato per Vaka mostra dei ragazzini che vivono in un mondo postapocalittico, dove l’aria è irrespirabile e sono costretti a giocare indossando delle maschere antigas sotto una pioggia di cenere. Nonostante tutto, i bimbi giocano e si divertono: sembrerebbe quindi un altro video di speranza trionfale contro le avversità, ma a un certo punto uno di loro cade, perde la maschera e muore. La telecamera indugia sul suo volto illuminato da una luce divina ed è questo il momento in cui l’innocenza idilliaca dell’infanzia e la tragedia si mischiano, dove distopia e utopia collidono. Ancora una volta, (  ) costringe gli ascoltatori a uno stato di sospensione tra due estremi, in uno spazio di tensione infinita.

Benvenuti in un immaginario postnucleare soft.

La conclusione dell’album è affidata a una canzone che, in teoria, dovrebbe risolvere questa tensione in un senso o nell’altro. Il valore altamente simbolico del brano è dimostrato dal fatto che Untitled #8 (Popplagið) non solo è l’ultima canzone di (  ), ma è anche quella con cui la band chiude regolarmente i concerti da 20 anni a questa parte, come se dopo non fossero più riusciti a trovare nient’altro da aggiungere.

In realtà, per come è costruito musicalmente, il brano non sembra dare un senso alla tensione dialettica, ma perpetuarla all’infinito. Con Popplagið ci troviamo di fronte a un mastodonte di 12 minuti, diviso in due metà: una è più leggera, gentile e in tonalità maggiore; l’altra, decisamente più densa, procede per accumulo come un’esplosione al rallentatore carica di suspense che continua a montare. A tenerle unite c’è un’ambiguità di fondo che porta a percepirle entrambe, a seconda dei momenti, come tristi e frustrate o celebrative e trionfanti, passando rapidamente da una prospettiva all’altra. Pertanto sia la sua duplice divisione formale che la sua ambiguità tonale rendono Popplagið un brano musicalmente irrisolto, che racchiude tutti i paradossi di (  ), essendo al tempo stesso utopico e distopico, speranzoso e disperato. E allora?

Jónsi alle prese con la tensione irrisolta.

La differenza, suggerisce Hayden, la fanno la voce e la filosofia.

Nella seconda parte del brano, il canto di Jónsi prima ha una linea discendente, come quella di un lamento funebre, poi si ferma per qualche secondo e quando riparte diventa ascendente, salendo sempre più in alto. Si compie così una sorta di inversione del lamento, che dal punto di vista puramente logico dovrebbe corrispondere a un’immagine positiva. Ma la musica non è una formula matematica (è una formula magica!) e il processo in questione si porta comunque dietro alcune tracce di ciò che era, ragion per cui se il lamento è un canto che celebra il funerale di qualcosa che è morto, la sua inversione potrebbe essere percepito come il funerale di qualcosa che non è ancora avvenuto. In altri termini, è il lamento per un’assenza nel futuro e quindi qualcosa che speriamo ancora di poter cambiare. Ecco come il brano crea la sua strada verso un impulso utopistico, tanto caro alla Scuola di Francoforte di Adorno.

Secondo quest’ultimo il mondo è così malvagio che gli è preclusa la possibilità di concepire una reale utopia, l’unica soluzione è approcciarsi a essa per negazione criticando la realtà: solo negando l’esistente si può avere una vaga idea dell’utopia. Ed è questo quello che succede nel canto finale di Popplagið: attraverso la negazione del lamento si immagina la “silhouette dell’utopia”. A prescindere dal fatto che quest’ultima sia realmente raggiungibile, per Adorno bisogna comunque tentare, quindi l’idea è quella di mantenere la speranza anche di fronte all’impossibilità.  

Theodor W. Adorno in platea durante un concerto dei Sigur Ró… ah no.

La stessa cosa vale per Ernst Bloch (autore di Spirito dell’utopia e di Il principio speranza) secondo il quale la speranza non è un’assicurazione di successo, anzi è l’opposto della sicurezza, e il fatto che si possa fallire è ciò che la distingue dal cieco ottimismo (ovvero, se non può essere delusa non può essere una speranza).

Sia Adorno che Bloch considerano la speranza come una lotta senza fine verso un’utopia che è sempre in corso. Alla luce di questi ragionamenti Popplagið è la rappresentazione musicale più pura della speranza perché così come essa è un processo in divenire senza fine, allo stesso modo Popplagið sembra non giungere mai a destinazione, ma continua ad ascendere e a tendere verso un obiettivo più alto senza raggiungerlo. In altre parole continua a sperare.

La speranza è quella cosa piumata
che si viene a posare sull’anima
canta melodie senza parole
e non smette – mai
Emily Dickinson

O, per dirla alla Sigur Rós, «Með suð í eyrum við spilum endalaust»: con un ronzio nelle orecchie suoniamo all’infinito.

Sigur Rós Jonsi Björk Mogwai Godspeed You! Black Emperor Explosions In The Sky 

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