Un hippie può essere realistico? Esiste una magia che trae forza dalla concretezza? La vita – e soprattutto le opere – di Shawn Phillips sono qui a dimostrarci che la risposta a entrambi i quesiti è “sì”.
Da girarci un film, la vita di Shawn Phillips. Una pellicola che riconcili con il mondo e lasci in dote l’ottimismo della volontà e l’energia che esortano a non sprecare un solo attimo dei nostri giorni. In attesa che qualcuno si cimenti nell’impresa, ci piace pensare che il titolo possa essere quello che leggete qui sopra. La vicenda è curiosa e appartiene a un genio che mette ordine in un universo composito e sfaccettato tramite la sua profonda sensibilità e un tirocinio più lungo rispetto alla media.
Del resto, la maturazione può richiedere anni: bisogna masticare la vita e lasciarsene masticare per avere qualcosa da dire, e così è stato. Prototipo dell’hippie fascinoso, Phillips, ma pur sempre di una tipologia particolare: conscio che esiste un mondo spesso fin troppo concreto e crudo, cerca di renderlo più vivibile al di là della retorica e dello spontaneismo.
Un eccezionale rompicapo sotto tutti i punti di vista, l’americano cresciuto in giro per il globo, curioso verso ogni cosa e ogni suono, possiede un’eccentricità ragionata ed elegante. Il segreto? Presto detto: la sapiente acrobazia con la quale armonizza gli opposti per scavalcarli. Quello che ti aspetti, una volta passata al vaglio la biografia di un apolide che non conosce confini.
Uno che, senza perdersi nell’utopia, impedisce a vizi, virtuosismo e ambizione di ostacolarlo e che, con tenacia e praticità, forgia una combinazione aliena alle mode di folk, rock, jazz, funk e classica. Per sua ammissione, a lui interessa comunicare e soprattutto raccontare. Ha scritto canzoni di esperienza che partono da fatti realmente accaduti e si trasformano in riflessioni universali, costruite con la grammatica e la sintassi di chi ha compreso in anticipo che la contaminazione è la chiave di tutto.
Per questo, con la sua oltremondana estensione vocale di quattro ottave, Shawn è un songwriter sui generis che arriva dritto al cuore e all’anima. Avvolti in un’aura mistica mai posticcia, i suoi dischi legano fili che riusciamo a scorgere solo quando l’identificazione tra musica e artista è totale. Virtù più alta per un cantautore crediamo non esista, dunque siate i benvenuti nell’universo di Shawn Phillips. Rilassatevi, spalancate la mente e preparatevi a restare stupiti.
Più che un segno del destino, è predestinazione che il nostro uomo – nato nel 1943 sotto il sole del Texas e il segno dell’Acquario – abbia un padre che si guadagna da vivere inventando storie. Per la precisione, romanzi spionistici firmati con lo pseudonimo di Philip Atlee, ambientati in luoghi esotici e scritti in loco obbligando la famiglia a continui traslochi. Mica male, se in cambio ricevi un’invidiabile ampiezza di orizzonti e un fertile senso di sradicamento, se assorbi tutto come una spugna e prestissimo imbracci la chitarra.
Tornato in Texas a fine anni Cinquanta con una buona preparazione classica e l’amore per blues ed R&B, il ragazzo gioca la carta del servizio nella marina militare e successivamente, valigia in mano e strumento in spalla, va in California a esibirsi nel circuito folk e fare amicizia con Tim Hardin e Lenny Bruce. A New York incrocia Bob Dylan, in Canada insegna le basi della chitarra a una certa Joni Anderson (non ancora nota come Mitchell) e a Toronto impara il sitar da Ravi Shankar.
Quando il folk sta per contaminarsi con l’elettricità, esordisce con un mediocre 45 giri in cui rilegge Frankie and Johnnie di Bob Gibson. Di passaggio a Londra sulla via per l’India, nel ’64 pubblica su Columbia un paio di lavori che cercano di sottrarsi a quelli che ormai sono dei cliché. Superati da Beatles, Dylan e Byrds, I’m a Loner e Shawn intrigano per un repertorio dove, accanto a Pete Seeger e Lead Belly, figurano standard pescati dal pop e dai musical. In barba al fallimento commerciale che coinvolge anche il singolo Summer Came, sono indizi di carattere.
Poi spetta al caso intrecciare la trama: in un negozio Shawn incontra Donovan. I due chiacchierano, si spartiscono una canna ed è l’inizio di una collaborazione fruttuosa anche se controversa, nella quale compongono insieme e Phillips offre perizia esecutiva a chitarra e sitar, istinto per gli arrangiamenti e la caratura di Little Tin Soldier e Season of the Witch.
Per quanto non accreditato, Season of the Witch è il primo sensazionale classico scritto da chi contribuisce ai cori di Lovely Rita e, mentre il rapporto con il menestrello scozzese è agli sgoccioli, accantona canzoni dotate di una personale cifra stilistica. Per poterle concretizzare dovrà aspettare ancora un po’.
Il destino è una bestia strana. Più tenti di cavalcarlo e più si diverte a disarcionarti. La bocca piena di polvere, ti rialzi e tenti di nuovo finché non realizzi che stai sbagliando tutto. Che il trucco consiste nel lasciarsi portare dalla corrente e intanto guidarsi verso una direzione. In questo modo Shawn finisce per stabilirsi in Italia: approfittando di quella che sulle prime parrebbe una seccatura non da poco.
Nel ’67 l’ufficio immigrazione lo informa che il visto di lavoro è scaduto e deve lasciare l’Inghilterra. L’amico Casy Deiss, che risiede poco fuori Roma, consiglia una vacanza rigenerante a Positano. A bordo del taxi che lo sta conducendo là, il Nostro si innamora del panorama e, spostandosi solo per incidere dischi e andare in tour, sulla costa amalfitana soggiorna per un decennio abbondante, da talento che sboccia tra le spiagge di ciottoli e le carezze del sole mediterraneo.
Più lontano di così dallo showbiz non si potrebbe essere, ma siamo pur sempre alle prese con un assoluto “a sé”. Ecco l’autore emergere dal nulla laddove l’incubazione è stata invece lunga ed ecco anche la tavolozza ampliarsi. Alle spalle un lustro che ha lasciato il segno, il giramondo ha ventisette anni: un’età alla quale tanti hanno dato il meglio e sono scomparsi tragicamente, mentre in sostanza lui è un debuttante. Ha viaggiato, vissuto, pensa in grande. Pensa a un album triplo di canzoni, strumentali e recitativi.
Nel 1969, in un bar del paesino squilla il telefono. Un distinto inglese chiede di parlare con il capellone che abita da quelle parti. È il manager di Phillips, che lo convoca a Londra per esporre il progetto a Dick James, discografico e già editore dei Beatles: l’idea piace e viene realizzata senza badare a spese con tre quarti dei Traffic tra i musicisti coinvolti. Si interessa la A&M, che tuttavia non vuole saperne di composizioni per chitarra e sitar, intermezzi parlati e una favola con l’accompagnamento della London Philharmonic Orchestra.
Una volta tanto, ai piani alti vedono giusto: ridotto allo scintillante nucleo di un folk sul serio progressista, dal 1970 Contribution non smette di ammaliare. La sua bellezza è senza tempo anche perché evita le stramberie da fricchettone, focalizzandosi su un’introspezione insieme delicata e tesa (L Ballade, No Question, Lovely Lady), su vibranti riflessioni sociali (For RFK JFK & MLK) e fantasmagorie degne di Tim Buckley (Man Hole Covered Wagon, Withered Roses, Screamer for Phlyses). Come si suol dire, il dado è tratto. Con una mossa da maestro, per di più.
Di nuovo per caso, Phillips si esibisce al festival di Wight facendo un figurone, poi l’ugola e il physique du rôle assicurano il ruolo di Gesù in Jesus Christ Superstar, dal quale è però estromesso per le macchinazioni del produttore Robert Stigwood. Nulla di male, considerando le recensioni positive incassate da Contribution e il capolavoro in attesa dietro l’angolo.
Negli stessi movimentati dodici mesi, Second Contribution immortala il troubadour di spalle su un’arida piana, mantello nero a vestirlo e 12 corde acustica tra le braccia. Immagine suggestiva e memorabile che stride con le orchestrazioni del bravissimo Paul Buckmaster e un poker iniziale che scorre senza soluzione di continuità, dalla malinconica, agitata estasi She Was Waitin’ for Her Mother at the Station in Torino… all’epica Song for Mr. C passando per i rock’n’soul geneticamente modificati Keep On e Sleepwalker.
Accorata dedica all’amico ucciso da un fulmine, The Ballad of Casey Deiss distende un amaro madrigale che accoglie raggi di sole tra tentazioni acidule e florilegi di archi, tasti e fiati. Altrove, Song for Sagittarians è rock aromatizzato black che sfocia nella cavalcata Lookin’ Up Lookin’ Down e la “mini suite” che occupa gran parte del secondo lato apparecchia un gioco di contrappunti emotivi, riassumendo gli umori dell’intero LP e preludendo al folk lisergico del commiato Steel Eyes.
Che fare, dopo aver raggiunto la vetta? Si rimane in cima grazie a Collaboration, che nel ’71 prosegue il momento magico e la fusione tra generi nella slanciata complessità di Us We Are e Armed, nelle ombrose Burning Fingers e Moonshine, nel minuetto tra folk, jazz e chanson di Times of a Madman, Trials of a Thief, nell’inquieto arazzo Springwind. Di lì a un anno, Faces alterna materiale pescato dai cassetti con tracce più recenti, apici l’incalzante Landscape, una versione alternativa di L Ballade, l’ambient disturbata che si fa torrido acid soul di Parisien Plight II e Chorale, raffinata mescolanza di cameristica e suggestioni etniche.
La maturità dispiegata in quattro dischi imperdibili, è soltanto commercialmente che Phillips non diviene stella di prima grandezza. Neppure gli interessa, in realtà. Irremovibile di fronte alle ingerenze della casa discografica, preferisce proseguire la sua evoluzione artistica e umana. In questa sede ci interessa rendere conto del suo periodo aureo, ciò nonostante sappiate che il seguito di carriera tiene a debita distanza il mestiere e gli scivoloni allorché Shawn traffica con l’elettronica passando alla RCA e, abbandonato il nostro paese dopo il terremoto del 1980, trasloca a Los Angeles, pubblicando sempre più sporadicamente finché nei medi anni Novanta non si ritira.
Fedele all’indole zingaresca ma giudiziosa, mette su famiglia, fa il pompiere e il tecnico di pronto intervento in Texas, Sudafrica e dal 2016 nel Kentucky. Ripresa l’attività concertistica, le ristampe lo spingono a realizzare nuova musica, sempre dignitosa e priva di reducismi. Tutto quadra, siccome questa storia si fa beffe della normalità mantenendo un’esclusiva coerenza. Genuino l’artista, anche l’uomo oggi è sereno: ha vissuto avventure fantastiche nel rinascimento del Novecento e ci ha regalato un paio di capolavori con la discrezione, la modestia e l’autorità dei veri grandi. Scusate se è poco.