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Una volta alla settimana compiliamo una playlist di tracce che (secondo noi) vale davvero la pena sentire, scelte tra tutte le novità in uscita.

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... Tutte le tracce che abbiamo recensito dal 2016 ad oggi. Buon ascolto.

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A volte è necessario approfondire. Per capire da dove arriva la musica di oggi, e ipotizzare dove andrà. Per scoprire classici lasciati indietro, per vedere cosa c’è dietro fenomeni popolarissimi o che nessuno ha mai calcolato più di tanto. Queste sono le storie di HVSR.

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Mezzo secolo di Roxy Music

Bryan Ferry, Brian Eno, Phil Manzanera e gli altri: un distillato di idee, art-pop e nuovi romanticismi.

Una band che ha vissuto due volte. Un “a sé” nato in un momento cruciale, nel quale l’onda lunga degli anni Sessanta mutava e splendeva adattandosi alla nuova epoca. Un perenne, delicato equilibrio di opposti. Una band fondamentale.

Anni ruggenti

Se osserviamo il fluire della “cosa rock” nel suo complesso, possiamo notare alcune aree difficili da classificare che collegano terre emerse fino a costituire qualcosa di unico. Pensate al biennio ‘89-‘90, che va ben oltre la preparazione del terreno all’ultimo vero sconvolgimento della musica popolare. Risalendo più indietro, scorrete un elenco di dischi che hanno visto la luce dal ’70 al ’73 e si spalancherà un caleidoscopio che tratta il decennio favoloso come un punto di partenza.

La parola chiave, come al solito, è “contaminazione”. Esempio lampante l’art rock di stampo britannico, un ombrello attitudinale sotto il quale trovi le orde prog e i This Heat passando per la scena di Canterbury e, venendo infine al punto, i Roxy Music. Del “non genere”, il gruppo fondato da Bryan Ferry resta esempio fra più mirabili e incarna magnificamente l’area grigia di cui sopra: sul crinale tra glam e rock progressista, tuttora si distinguono in un equilibrio miracoloso che regge la prova del tempo. Pensateci: a chi ha dato ragione la storia, tra Keith Emerson che accoltella le tastiere sulle quali ha sbrodolato e Brian Eno che le approccia da “non musicista”?

Il senso del continuum arte + rock sta anche nel porsi a metà strada tra avvenire e passato con la stessa disinvoltura con la quale smantella il glamorama pop. E, come spiegano programmaticamente i diretti interessati in apertura del primo LP, ogni elemento va ricostruito e rimodellato. Tuttavia, ciò può accadere solo dopo che i meccanismi sono stati analizzati e assemblati in un motore nuovo, più potente e splendente di cromature. Inoltre, la tensione tra i due poli ne crea un terzo che prima non esisteva, ed è lì che il canone si espande e nascono i capolavori. Non a caso, i Roxy Music costruiscono la loro grandezza proprio sulla dialettica tra opposti estetici e umani e sull’accostamento di suggestioni in teoria incompatibili.

Tigrati, leopardati, glitterati: uno zoo glam.

Ne deriva un’armonia in cui i clichés e i cascami del rock assumono la forma dell’anello mancante tra Velvet Underground, King Crimson e ciò che all’epoca stava accadendo in Germania. Alla base di un “Roxy” che, con il passare degli anni, somiglia sempre più alla crasi di “rock” e “sexy”, trovate perciò il kitsch e l’ironia, le inquietudini reali e un lusso sublimato, prospettive retrofuturiste e criteri postmoderni ante litteram. Trovate una centrifuga di pop, arte moderna e lustrini che ha esercitato un’influenza fondamentale sul punk, la new wave e le successive diramazioni.

Non si era mai ascoltata musica così prima, la si incontrerà svariate volte in seguito: i seguaci più brillanti hanno raccolto la forma ma soprattutto il messaggio, capendo che il confine tra sperimentazione e accessibilità è più sottile di quanto crediamo. Ammesso che quel confine esista davvero. Spesso i muri contro cui sbattiamo sono soltanto nella nostra testa, e i Roxy Music hanno contribuito eccome a demolirli. Manco a dirlo, for our pleasure.

L’arte è una droga

Autentica fucina di talenti, le art school albioniche hanno offerto agli studenti un profondo senso di libertà e i mezzi per osservare il mondo da angolazioni inedite. Specialmente a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta, quando il ricambio generazionale sistema in cattedra docenti che spostano l’attenzione dall’aspetto pratico a quello concettuale con tutto quel che ne consegue.

Per esempio, l’ascendente esercitato su Eno e Ferry, che quasi condividono il nome di battesimo, come se il destino, in quello scarto minimo ma basilare, si fosse divertito a rimarcare affinità e divergenze. In ogni caso, con i mai abbastanza lodati Phil Manzanera e Andy Mackay a fungere da collante e contrappunto, la forza dei Roxy Music sta in un’interazione in cui diverse esperienze vengono amalgamate con risoluta, selvatica stravaganza. In cui tutte le tessere vanno a posto in una trama che diresti appartenere a un film.  

Bryan proviene dai dintorni di Newcastle, profondo Nord di operai, minatori e gente di campagna. Cerca di levarsi il pesante accento Geordie sin da quando tra 1964 e 1968 frequenta i corsi di Richard Hamilton, suona il piano da autodidatta e canta nei Gas Board con Graham Simpson, il bassista che lo segue a Londra. Perso il lavoro di insegnante di ceramica in una scuola femminile e fallito il provino per rimpiazzare Greg Lake nei King Crimson, a fine 1970 pensa a un progetto suo e cerca un tastierista. Nel gennaio seguente conosce Andy Mackay, appassionato di elettronica provetto con sax e oboe, in possesso di un sintetizzatore VCS3.

Il ragazzo ha sgobbato sulla classica e la letteratura a Reading, dove ha stretto amicizia con lo studente d’arte Brian Eno. Quando si rincontrano in una stazione ferroviaria, scambiano qualche parola e questi entra in squadra per gestire il synth. Alle spalle collaborazioni con Scratch Orchestra, Portsmouth Sinfonia e Cornelius Cardew, il figlio di un postino del Suffolk si porta dietro orizzonti ampi, un registratore Revox da manipolare e una generosa dose di poliedricità.

Brian Eno in studio. In mezzo al resto spicca proprio il suo amato Revox.

L’intento è incorporare su una forma canzone anticonvenzionale interessi che spaziano dalla moda all’arte concettuale. Un’operazione ultramoderna che confluisce nel primo esempio di band intesa come un concept dove la forma si lega indissolubilmente al contenuto e ogni aspetto, curato con attenzione dagli stessi membri, contribuisce a una personalità immediatamente riconoscibile. A un marchio di fabbrica pop.  

Se il chitarrista Roger Bunn e il batterista Dexter Lloyd durano poco, la ragione sociale è definitiva, pescata da una lista di sale cinematografiche dismesse per il fascino d’antan che trasmette. Sul palco i Roxy Music impressionano con un impasto avveniristico di glamour, astrattismi elettronici, schegge rock’n’roll, intarsi jazz e classicheggianti tenuto insieme da un dandy robot che canta con un vibrato portato all’estremo. Musica intellettuale senza virgolette, insomma, però impreziosita da uno sbuffo di ironia, da un sapore di strada che gioca con/sulla decadenza e popolata già da spettri di nostalgia.

Inciso un demo, nella primavera del ’71 a tamburi e piatti subentra il potente e raffinato – le sue rullate in “senso antiorario” sono azzeccatissime nell’accentuare il tipico senso di straniamento – Paul Thompson e, in ottobre, Bunn è sostituito da David O’List, ex Nice. L’eccentricità non sfugge al Melody Maker e a John Peel, che convoca sei tizi privi di contratto per una session mentre Robert Fripp e Pete Sinfield si ricordano di quel belloccio stiloso e segnalano il nome al loro management.

Dopo l’audizione del febbraio 1972 David litiga con Thompson e sparisce. Gli altri provano a vedere che effetto fa suonare con Phil Manzanera: scartato a favore di O’List e assunto come roadie, nel frattempo ha imparato il repertorio e tanto basta. Genitori inglesi e colombiani, infanzia trascorsa in Sudamerica e a Cuba e la militanza nei “progedelici” Quiet Sun, è uno speciale come gli altri. Come gli altri, sa il fatto suo e concorre a una (con)fusione estetica e sonora che con la giostra glam in movimento si appaia a quella tra gender. Più che un segno dei tempi, è una dimostrazione di genialità.

In bianco e nero non rende l'idea.

Rivolta nello stile

Sarà un caso, ma due giorni dopo l’ingresso di Manzanera il gruppo firma per la EG. Con Sinfield in regia, anche se Graham è estraniato al punto da mollare e non essere più rimpiazzato da un bassista fisso, si incide alla svelta un 33 giri cogliendo l’impatto dal vivo e mantenendo intatte le sfumature. Il disco è proposto alla Island come un “pacchetto” completo, inclusa la copertina curata da Ferry con il compagno di studi Nicholas de Ville che, come quelle che seguiranno, trae ispirazione dalle pin-up di Alberto Vargas e dalla pubblicità. Nel giugno di mezzo secolo fa l’entusiasta Chris Blackwell benedice un esordio favoloso che, contro ogni pronostico e senza che siano estratti singoli, si piazza decimo in classifica.

Altra epoca, quella in cui un pendolo che oscilla tra fruibilità e ricerca spiazza la critica ammaliando il pubblico. A dimostrare l’efficacia della metodologia decostruzionista provvede l’iniziale Re-Make/Re-Model, energica e squadrata ipotesi di Mott the Hoople oltre la crisi di nervi appoggiata sul ritornello appiccicoso che compita la targa di un’automobile e un finale dove gli strumentisti citano e ammiccano. Ebbene sì: ricostruisci, rimodella.

Non valgono di certo meno una Ladytron che parte liquida elegia e arriva tumultuosa, la sfaccettata If There Is Something – di tutto, di più: boogie tagliente, romanticismo teatrale e malato, soul vampiresco – e The Bob (Medley), un cortometraggio sviluppato lunga una serie di segmenti alla Faust. Se 2 H.B. omaggia Humphrey Bogart dipanando dolcezza tesa e aeriforme, Chance Meeting è una ballata pianistica sfregiata dalla sei corde, Would You Believe? strapazza il rock’n’roll a fin di bene, Sea Breezes si porge desolata e lunare e l’ironico sentimentalismo da music hall di Bitters End saluta all’ora del cocktail.

Live sulla televisione britannica all'Old Grey Whistle Test.

Approfittando del clamore, i Roxy Music pubblicano il 45 giri Virginia Plain, centrando la quarta posizione con un inno circolare privo di refrain dove, tra folate di synth e ripartenze, Lou Reed e Klaus Dinger guidano uno schiacciasassi che si arresta improvviso su un punto interrogativo. Al pari epocale è l’esibizione a Top of the Pops, da alieni pacifici e bellissimi nel look da rocker retrofuturista in fuga dagli anni ’50.

Ovvero questa.

Incredibile a dirsi, a soli otto mesi dal debutto, For Your Pleasure centra il classico assoluto grazie alla chimica irripetibile, al produttore Chris Thomas e a una maturità che adopera ogni risorsa a disposizione. Di nuovo, un brano destinato esclusivamente al mercato dei singoli – l’iridescente mulinare di Pyjamarama – anticipa in marzo il disco che consegna la formazione agli annali e manca di un soffio il podio della classifica nazionale.

In una patinata copertina blu scuro, Amanda Lear cammina su tacchi vertiginosi con una pantera al guinzaglio mentre Bryan la osserva a fianco di una limousine con un’espressione di alienato compiacimento. In un’atmosfera irreale da rivista di moda, sono metafore di moderno decadentismo metropolitano in bilico tra sogno e realtà e la perfetta introduzione a sonorità che catapultano in una terra di nessuno, sballottati dalla trascinante anteprima (post) punk Do the Strand e da una Editions of You che è avant garage prima dei Pere Ubu, però sexy.  

Da cui il termine "panterona".

Agli straniamenti della leggiadra Beauty Queen e del blues rock progressivo Grey Lagoons replicano con il serrato, ansiogeno incubo kraut-funk venato di jazz elettrico The Bogus Man, l’enigmatica e levitante paranoia di Strictly Confidential, la morbosa In Every Dream Home a Heartache, acidissima canzone (grossomodo: Jimi Hendrix ingoiato da un buco nero) su una bambola gonfiabile, dove in un gioco di specchi il dominatore si scopre schiavizzato. Nulla al confronto di un’immensa title track, che in chiusura scolpisce concise e ombrose solennità gotiche per poi sfaldarsi dentro una foschia lattiginosa di riverberi stordenti e psicotici. Fantastico e bellissimo, ora come allora.

Il problema è che Eno suscita l’invidia di Ferry per le interviste in cui viene percepito come il faro della band e il successo che riscuote con l’altro sesso. Nonostante il make-up e le piume di struzzo, non gli importa di essere al centro dell’attenzione, ma vallo a spiegare al narciso in giacca bianca che tanto fa e tanto briga da spingerlo alle dimissioni una volta concluso il tour di For Your Pleasure. A rimpiazzarlo arriva dai Curved Air il diciottenne Eddie Jobson allorché These Foolish Things, prima sortita solistica del capobanda, anticipa il Bowie di Pinups con risultati deludenti.

Una tigre e un ghepardo non ci potevano stare contemporaneamente, nel pollaio.

Tutt’altra faccenda, nell’autunno del ‘73, Stranded, in cui pianoforti elettrici ed elettrizzanti e chitarre che graffiano in guanti di velluto impreziosiscono canzoni estrose e colme di dettagli. Se la fenomenale Street Life sarà una delle bussole che i R.E.M. sceglieranno per Monster, Amazona srotola un policromo tappeto funk squarciato da un magistrale assolo di Manzanera, il gospel cosmico Psalm piacerà ai Primal Scream, Mother of Pearl maneggia una febbrile, stridente emotività a mezza via tra Stones e Velvet, A Song for Europe è una tormentata chanson che insegna il mestiere agli Ultravox.

Ospiti fissi, a TOTP, ormai.

Di fronte al bivio forzato, il Brian con la “i” ha preso la sua strada e quello con la “y” si è incoronato imperatore. Lo spettacolo può continuare, anche se stanno per sollevarsi venti di normalizzazione.

Manifesti edonisti

Con il “dopo Eno” la vulgata è stata di norma poco benevola, forse anche per partito preso. Va comunque sottolineato che, una volta scomparsa una dialettica sofferta però assai fruttifera, le sonorità si orientano gradualmente verso l’anima pop a discapito del fattore “art” e, per le medesime ragioni, si orbita sempre più attorno a un singolo individuo che offusca gli altri. Pur continuando a comporre insieme, la musica diventa più prevedibile e sarà gratificata da un enorme successo commerciale, ma, anche al netto di un’eccessiva severità critica, questi Roxy Music sono un altro gruppo e vanno giudicati con altri parametri.

Dalle altezze vertiginose di For Your Pleasure si scende planando, benché l’era dell’uomo solo al comando inizi con il piede sbagliato. La stampa in visibilio, l’opaco Country Life si affaccia sul fondo dei Top 40 americani con un turbinare vacuo dal quale salviamo la calibrata, sensuale irruenza di The Thrill of It All e Out of the Blue e i muscoli affusolati di Prairie Rose. Forse che le idee e la verve si sono esaurite nel lampo di Stranded?

In realtà, coronato il sogno di diventare una stella e un’icona di stile, in Ferry prevale il ragazzo di umili origini che ce l’ha fatta, l’urgenza espressiva si attenua e il passaggio da androide a showman non è indolore, come dimostra la mutazione del vibrato meravigliosamente sopra le righe in un tono da sofisticato seduttore.

Il ragazzo che ce l'ha fatta: John Travolt... ah no.

Entro un anno Siren aggiusta il tiro rinsaldando i legami con il recente passato e rinvigorendo la scrittura: del 33 giri che ostenta la giovane Jerry Hall piacciono l’irresistibile melanconia disco di Love Is the Drug e precognizioni post punk della caratura di Whirlwind, Both Ends Burning e Just Another High, la svagatezza dal retrogusto country di End of the Line e l’R&B mutante She Sells. Un commiato di lusso, poiché nel ’76 l’apprezzabile live Viva! archivia la questione e durante il temporaneo periodo sabbatico ognuno cura il suo orticello.

E che ci volevamo far mancare la svolta da piratone sexy?

Quando i Roxy Music tornano in pista, non è per modo di dire: fuori Jobson, si avvalgono di uno stuolo di turnisti e Manifesto ricomincia da Love Is the Drug e allo stesso tempo saluta le adoranti leve post ’77. In compagnia dei manichini raffigurati sull’artwork, si sistemano trappole subliminali nella traccia omonima, che cresce fino a risolversi in una coda vaporosa e nell’agitata bubblegum wave di Trash, convincendo inoltre con la squadrata immediatezza un po’ funk e un po’ arty di Angel Eyes e Ain’t That So, con la notturna Stronger through the Years e con una Spin Me Round obliquamente romantica.

Abbastanza tra(sh)chic anche il video.

Dopo l’ennesima tournée si perde Thompson e nel maggio 1980 Flesh + Blood segna il nadir propinando affettazione, saccarosio e frigidità soul pop. Ferry e compagni paiono alla frutta e invece nel 1981 omaggiano John Lennon con la compassata Jealous Guy e, a dieci anni dal debutto, consegnano il riassunto della loro seconda vita. Seguendo il manuale del pop, Avalon allestisce una rappresentazione di sentimenti nella quale il leader sfodera l’ultimo charme credibile e – siccome il trucco nasconde sempre qualcosa d’altro – cogli in controluce una serena mestizia.

È tutto un primo piano stretto sulla serena mestizia.

Come se quella decadenza con la quale Ferry ha a lungo flirtato infine avesse vinto, la ricchezza limpida di Avalon svela il valore aggiunto di un metasuono che racchiude in sé l’idealizzazione del pop. Così costruite da risultare immacolate, la poesia fluttuante di More than This e dell’omonimo ed etereo soul bianco, l’austera The Space Between, le trame sontuose ed eleganti di While My Heart Is Still Beating, The Main Thing e Take a Chance with Me scrivono la parola “fine” nel miglior modo possibile. Nel 1983 Bryan scioglie i ranghi e si concentra su una carriera solista sfarzosa ma poco sostanziosa.

All’inizio del nuovo millennio la nostalgia canaglia riesuma un carrozzone che si autocelebra, lascia un intero album nel cassetto, si esibisce in prestigiosi festival e, il dubbioso Brian Eno in disparte, asseconda il despota Ferry fino al 2011. Poi basta, fino al tour del cinquantesimo, a un’occasione sin troppo ghiotta anche se al sapore di definitiva pietra tombale. Facile, comunque, non curarsene, quando pensi che i veri titoli di coda scorrono in realtà sulle ultime note di Avalon. Su un’uscita di scena da divi ancora grandi, perché è la musica che nel frattempo è diventata piccola.

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