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Una volta alla settimana compiliamo una playlist di tracce che (secondo noi) vale davvero la pena sentire, scelte tra tutte le novità in uscita.

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... Tutte le tracce che abbiamo recensito dal 2016 ad oggi. Buon ascolto.

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A volte è necessario approfondire. Per capire da dove arriva la musica di oggi, e ipotizzare dove andrà. Per scoprire classici lasciati indietro, per vedere cosa c’è dietro fenomeni popolarissimi o che nessuno ha mai calcolato più di tanto. Queste sono le storie di HVSR.

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Quando i Ride sapevano dove andare: Nowhere!

Il debutto dei Ride usciva nel 1990: psichedelia moderna e dream pop, dalla cameretta all'attualità.

Lo shoegaze non è (stato) solo voci angeliche e suoni vaporosi. Per spiegarcelo, i Ride di Nowhere hanno sposato melodie estatiche e chitarre capaci di accarezzare come di sferzare, in un album d’esordio la cui bellezza oggi appartiene ai classici.

It’s shoegazing again

La copertina di "Nowhere"

Ne abbiamo ascoltate di tutti i colori da che, attorno alla metà degli anni ‘80, il rock ha incominciato a riavvolgere consapevolmente il filo della propria storia. Sì, perché a volte i (sotto)generi tornano quando meno te lo aspetti, come se non fossero mai andati via. Anche per questo, sulle prime un po’ sorprende l’ammirazione che le nuove generazioni nutrono verso lo shoegaze. Ti chiedi come abbia potuto essere così importante un fenomeno di breve durata e con un lascito discografico dove i titoli davvero memorabili certo non abbondano.

Poi ricordi che l’influenza di Loveless, Giant Steps e Treasure si è estesa ben oltre l’ambito di riferimento e anche da ciò riconosci un capolavoro. Ricordi che le voci lontane e presenti, il melodiare paradisiaco, l’impasto di feedback e pulviscolo effettato hanno impresso una ventata di novità e – se sono ancora intorno a noi – qualcosa deve pur significare. Infine, rammenti che la decostruzione chitarristica operata da Spacemen 3 e Loop, superando la concezione tradizionale di riff e assoli, ha esercitato un’evidente influenza sul post-rock.

Non un caso, quindi, che la faccenda prenda le mosse in coda agli Eighties, quando il guitar pop indipendente spara le ultime cartucce e cerca la contaminazione. Quando, dopo anni di clausura, i muri della cameretta crollano e qualcuno va in discoteca a ballare fino all’alba, mentre altri si tuffano in un oceano di suono e costruiscono nuovi edifici sulle macerie. Tuttavia i confini sono sfumati e anche per questo motivo nella popular music è utile affrontare il passato.

In fondo, è una metafora del momento in cui ti guardi indietro e, con tutta l’obiettività possibile, tiri il freno sulla nostalgia per capire meglio la giovinezza. La tua e quella altrui. Per esempio, quella di chi a certe cose è giunto tramite recenti imitatori e un contemporaneo dream pop del quale si è fatta grande e modaiola chiacchiera.

E anche l’età di chi a suo tempo c’era, però mai avrebbe predetto il clamore suscitato da un idem sentire di stampo adolescenziale che, saldandosi alla musica, sfocia in una psichedelia introversa al gusto di caramello, perfetta per accompagnare pensieri sui massimi sistemi e dolcissime malinconie future. Qualcosa che possiede una radice nell’immensa How Soon Is Now? degli Smiths, nel segnale che in qualche modo dalla cameretta già si cercava di uscire volgendosi altrove.   

E se tutto fosse iniziato davvero da qui?

L’influenza emersa a distanza dimostra inoltre che lo shoegaze non è così monocorde come si è scritto: esclusi i mestieranti e gli imbucati, nomi tra loro piuttosto differenti come Cocteau Twins, A.R. Kane e My Bloody Valentine fanno (la) storia a sé, mentre a Breathless e Boo Radleys spetta il ruolo di venerati progenitori e di talenti multiformi. Uno scalino sotto, ecco il composito drappello con Slowdive, Lush, Sundays, Curve, Swervedriver e per l’appunto Ride.

I quali, in realtà, appartengono all’élite in ragione di un fenomenale LP d’esordio e di un approccio squisitamente noise, che dello shoegaze asseconda principalmente il lato fisico e ciò nonostante trattiene il senso per la melodia estatica, perché riconosce due aspetti distinti ma complementari, come la dolcezza e la passione in un vero amore.

Oggi che ci abbiamo fatto l’abitudine, la ricetta può sembrare semplice: all’epoca, nondimeno, rappresentava un gesto innovativo fondere chitarre inondate di fuzz, un lirico respiro indie pop, il senso di meraviglia mutuato dai Byrds di Younger than Yesterday e le folate del freakbeat, codificato nei medi ’60 dai Creation in How Does It Feel to Feel – che i Nostri rileggeranno nella fase meno brillante della loro carriera – e riverberatosi lungo le successive diramazioni del rock.

Un linguaggio che è partito da lontano per arrivare lontano e, privo della leziosità di molti colleghi, ha guadagnato il rispetto della critica, degli illustri compaesani Radiohead e di seguaci dichiarati come i DIIV. Ognuno sedotto dall’eleganza ruvida che rappresenta un modello anche se è durata un paio di stagioni. Al cuore e alla storia, del resto, basta una sola fiammata. A patto che non si spenga mai.

Pronti con i fiammiferi in mano?

Play for today

Un muro del suono non nasce dal nulla. Ha radici robuste, il fusto resistente però flessuoso e rami proiettati nel cielo. Se è di Inghilterra che parliamo, il terreno fertile va cercato sovente nelle scuole d’arte e in ciò i Ride non costituiscono eccezione: lì si formano, e sempre da lì iniziano a sbalordire per chiarezza di idee, urgenza espressiva e un crescendo inesorabile.

Vicenda assai tipica, quella che vede gli amici di lunga data Andy Bell e Mark Gardener (entrambi chitarristi e cantanti) allestire la band appena maggiorenni con il batterista Lawrence “Loz” Colbert, laddove è un po’ più anziano Steve Queralt, bassista che lavora in un negozio di dischi a Oxford. Gusti in comune, il minimo sindacale di esperienza e la voglia di dire qualcosa, provano a incrociare gli strumenti e scoprono la reciproca alchimia.

Un concerto dietro l’altro, iniziano a farsi notare e nella maturazione si rivela fondamentale Queralt, che grazie al suo impiego mantiene gli altri sintonizzati su un’attualità con protagonisti del calibro di My Bloody Valentine, Loop, Spacemen 3, House of Love e Sonic Youth. Punti cardinali che delimitano un territorio in cui l’aspetto melodico-armonico conta quanto il suono e, poiché nel rock si amalgama l’esistente in configurazioni inaudite, è mescolando questi riferimenti che i Ride approdano a uno stile.

Con entusiasmo e dedizione, affinano il repertorio e un demo finisce nelle mani di Jim Reid dei Jesus and Mary Chain. Colui che per i giovanotti è poco meno che un dio lo gira ad Alan McGee e i Ride firmano per la Creation. A inizio 1990 un EP omonimo recapita un poker di tracce, chiarendo che la forza della banda risiede nell’elevato standard compositivo e in musiche che, per le ragioni appena esposte, risultano sia familiari che dotate di personalità.

Molto Jesus and Mary Chain anche il video.

Chelsea Girl potrebbe scaturire dalla penna di Guy Chadwick se le distorsioni che la percorrono non appartenessero a Thurston Moore, Drive Blind mescola in parti diseguali Isn’t Anything e Daydream Nation, All I Can See è magnetica e slanciata e Close My Eyes immagina uno scontro frontale tra Byrds e Stooges.

Nei mesi seguenti Play e Fall si affacciano nei Top 40 britannici, tuttavia gli artefici replicano con spallucce e smorfie a chi li incasella nella voga shoegaze. Classifiche e classificazioni a parte, parlano chiaro il jingle-jangle girato glam Like a Daydream, le chiazze acid noise di Silver, il folk rock in abiti wave Furthest Sense e quello cosparso di ruggine luminescente in Perfect Time e Here and Now, gli Stone Roses apocrifi di Taste e la psichedelia moderna dell’ombrosa Nowhere. A questo punto, gli oxfordiani sono molto più che una promessa. È ora di pensare a un 33 giri che cavalchi e cristallizzi la magia.

Suonare seduti appena si può è il modo migliore per guardarsi bene le scarpe.

Nowhere fast

Per chi si è costruito una reputazione con esaltanti esibizioni live, l’aspetto cruciale sta nel restituire su vinile l’energia e la potenza sprigionate dal palco. Questione affatto semplice da affrontare, che ha tagliato le gambe a molti e viene risolta incidendo dal vivo in studio con Marc Waterman e affidando il missaggio all’eminenza grigia Alan Moulder.

In ottobre Nowhere sottolinea la saggezza della scelta, fotografando una formazione all’apice della creatività e dagli ampi orizzonti. La suggestiva copertina mostra l’incresparsi di un’onda fascinosa e inquietante come solo l’ignoto può essere: prima di far atterrare la puntina sui solchi ti domandi cosa possa nascondersi, là sotto, e nello stesso istante hai la netta sensazione che non rimarrai deluso.  

Per chi si è costruito una reputazione con esaltanti esibizioni live val la pena provare anche un live in TV.

Puntualmente, l’esecuzione vigorosa eppure raffinata sorregge – ponendola così in ulteriore risalto – un’affusolata anima pop lungo strutture scolpite con attenzione al dettaglio, magistrali incastri di ritmica e armonie vocali, chitarre che qui graffiano e là si stagliano come aurore boreali in cieli nordici. Esemplare la coraggiosa apertura Seagull: sei minuti di stratificazioni e clangori in serrato dialogo che, su pulsazioni implacabili ma elastiche, liberano una linea melodica che avvolge e infine avvince.

Se Kaleidoscope è scampanellante e muscolare, In a Different Place porge dolcezza per nulla scontata e Polar Bear ascende per traiettorie alla Escher e coltri di effetti, laddove alla cattedrale di policromo, solidissimo cristallo Dreams Burn Down e agli Smiths in assenza di gravità di Paralysed risponde una martellante Decay. Trafitta dagli archi e collocata strategicamente in chiusura, l’elegiaca Vapour Trail disegna il capolavoro nel capolavoro ed esorta a ripartire da capo.

I filtri di Instagram prima di Instagram.

La magnificenza di Nowhere centra l’undicesima piazza nelle chart nazionali (un record per la casa madre) e viene confermata nel 1991 dall’ultimo imperdibile EP, Today Forever, e nel volgere di un annetto da Going Blank Again, album che dell’esordio offre una robusta e azzeccata variazione sul tema. Il problema è che il percorso fulmineo e intenso ha nel frattempo sfinito i ragazzi, scavando un solco tra Bell e Gardener e alterando gli equilibri interni. Si impone una fatidica pausa e quando mai l’espediente ha salvato un rapporto?

Nel 1994 la sintonia è scomparsa e con essa la magia: in pieno boom del britpop, Carnival of Light sterza con pochi guizzi verso sonorità dal taglio più classico. Tra sguardi in cagnesco, quello che era un collettivo compatto si trascina senza verve né smalto fino all’estate seguente. Mark sbatte la porta imitato da Andy e lo scarso Tarantula vede la luce a band sciolta, nei giorni in cui a godersi la fama sono quegli Oasis in cui lo stesso Bell – recidivo che troveremo anche nei Beady Eye – milita dopo aver guidato i marginali Hurricane #1.

Sorte fors’anche peggiore dell’indifferenza cui va incontro il Gardener solista e del profilo modesto mantenuto dagli altri? Chissà. Ma siccome il tempo è galantuomo e cura le ferite, gli amici si rivolgono di nuovo la parola e, in una contemporaneità che li cita spesso e volentieri, i Ride non si negano una reunion che dal 2017 ha consegnato dischi di apprezzabile caratura. In ogni caso, nulla di paragonabile a un archetipo inarrivabile, che risplende più che mai proprio come un sogno a occhi aperti.

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