Richard Benson c’era o ci faceva? Chi stanno piangendo i giovani e meno giovani che postano sulle bacheche post muti con la sua foto? Cosa bisognerebbe riscoprire? Cosa coprire per sempre con un velo pietoso?
Richard Benson a 67 anni se ne è andato dall’altra parte. E adesso saranno problemi loro, on the other side. Richard Benson ora insegnerà agli angeli le innumerevoli varianti filosofiche sulla carne bianca. Si ritroverà finalmente a far bisboccia con Jimi Hendrix, Randy Rhoads, Eddie Van Halen e tutti gli altri suoi pari, secondo lui. Insieme a loro tirerà giù il paradiso nelle cloache affumicanti dell’inferno a suon di svise, mentre i diavoli con i forconi bestemmieranno all’unisono «UN POLLOOOO!»
Dove sei ora Richard? Forse da nessuna parte, a seconda dei punti di vista sull’aldilà. Chissà se credevi in Dio? Chissà se in fondo hai mai creduto almeno in te stesso? Perché noi altri sì, abbiamo sempre saputo che eri reale. Nostro malgrado ci siamo convinti che fossi vero. E inarrestabile, ma ci si illude sempre su chi interpreta una leggenda vivente, come te.
E invece ora ti sei fermato. Hai chiuso. Finitooooo! Così a noi non resta che farsi due conti su cosa sei stato, su quello che abbiamo visto o creduto di vedere.
Per chi non l’ha mai conosciuto quando era in vita e si ritrova ora a cercare di capire cosa abbia perso (dai misurati coccodrilli dei quotidiani cartacei e televisivi, fino ai numerosi post sui social) è dura raccapezzarsi. Cosa dovrebbe rimpiangere di Benson, adesso che non è più, uno che non ne ha mai sentito parlar prima? Era un chitarrista, ma non un bravo chitarrista. Lo dicono tutti, a parte lui. Era un musicista, ma non ha mai inciso nulla di memorabile. Non ha nemmeno – come nel caso di altri personaggi improbabili della talk e reality TV tipo Malgioglio o Paolo Limiti – mai scritto, in anni lontani, brani per interpreti più dotati e noti, che poi abbiamo ricordato nei secoli dei secoli. Cose del tipo: «Tu lo vedi adesso così, ma sai che lui tanti anni fa suonò per Tizio, collaborò con Caio?» Nessuno. Niente. Come dite? Il Buon Vecchio Charlie? Troppo poco per stendere alle spalle del sempre più panzuto e impazzito, gloriosamente indifendibile, Richard Benson, un passato serio e onorevolmente dilapidato negli anni.
È stato conduttore televisivo di programmi musicali, ma non un bravo conduttore e mai oltre le TV di provincia. Non ha mai realizzato, in nessun momento della sua carriera televisiva, alcunché di qualitativamente rilevante. Non è Red Ronnie, per intenderci. Richard è la parte finale della carriera di Ronnie… e oltre.
Allora perché, si domanderebbe il tipo che ne sente parlare solo ora, perché c’è un nutrito pubblico di tutte le età che oggi piange la scomparsa di Richard Benson? Che sapeva fare costui? Chi era mai? Cosa rappresenta per coloro che ora lo salutano con sincero affetto e soprattutto con un autentico rispetto (cosa che raramente gli veniva elargita da vivo?).
Ci vorrebbe l’Umberto Eco dei tempi migliori per spiegare la reale caratura mediatica di un tipo come Riccardo Benzoni. Pare che – perché nel suo caso è sempre stato tutto un mistero insvelabile, sapete, ma pare che – fosse davvero inglese e che negli anni ‘70 qualcuno l’avesse “italianizzato”. Si dice inoltre che fosse dotato di una fluente chioma corvina e di una sostanziosa tecnica musicale, anche se non esistono foto in cui quella capigliatura non sembri una parrucca, degenerata negli anni al cosiddetto livello “comprata dar cinese” e soprattutto non ci sono video in cui Benson suoni davvero le scale che simula di saper eseguire a velocità parossianiche (parossismo-ossianico, copyright please).
Ancora, leggenda vuole che abbia sempre praticato in modo quasi diabolico il cosiddetto teatro della crudeltà (soprattutto quella degli altri). Sapete no, quell’assalto istrionico verso il pubblico teorizzato da quel matto scatenato di Antonin Artaud e messo fruttuosamente in pratica da Jim Morrison, Hank Bukowski, Nikki Sixx e Andy Kaufman (più vari epigoni, tipo Massimo Ceccherini)? Ma più probabilmente quei fischi e quelle risate a Richard gli spezzavano il cuore tutte le sere, e se li accettava e sopportava era perché aveva capito che se non voleva cercarsi un lavoro vero dopo i cinquanta, quella strada lastricata di pomodori e sputi era la sola che avrebbe potuto percorrere.
Richard Benson era e rimane un enigma, dice qualcuno. C’era o ci faceva? Probabilmente entrambe le cose, come si pontifica in questi casi. La verità sta in mezzo, sempre. Ma è soprattutto multidimensionale. E lui come animale televisivo è sempre stato percepito a più livelli. Chi è nato e cresciuto nella capitale (e nel Lazio) l’ha sempre visto come il conduttore di Ottava Nota, trasmissione privata dedicata alla musica rock e metal, in cui il Benzoni faceva conoscere talentuosi chitarristi, esprimeva giudizi tranchant (anzi, proprio “trancianti” dovremmo dire) su band e album in uscita e mostrava – nonostante l’apparente sregolatezza semantica – una certa competenza al riguardo.
E la competenza in fondo era vera, non bisogna dubitarne, anche se forse definirlo intenditore era e rimane un po’ esagerato. Probabilmente per la stessa ragione che porta molti a considerare Vittorio Sgarbi “un grande critico d’arte” e Roberto Benigni “un uomo di altissima cultura”: sanno il fatto loro, questo è certo, ma tali qualità sono risaltate in proporzione all’attitudine fuori dalle righe del primo e i trascorsi nel vernacolo-oltraggioso del secondo. L’andazzo chiassoso e scatenato di Benzoni ha dato alla sua effettiva e gustosa conoscenza discografica di certi generi, la valenza di una vera eccellenza enciclopedica. Ma è un fatto che tanti ex ragazzi metallari e rockettari degli anni ‘80 e ‘90, ammettono di dovere molto a Benson e la sua Ottava Nota. Le imbeccate di “Ricchiard”, come lo chiamava chi osava alludere a certe sue ambiguità genderiche, erano giuste: i gruppi e i musici che lui proponeva e sosteneva si rivelavano davvero qualitativamente superiori per gli appassionati in cerca di consigli. “Ci spizzicava”, come dicono a Roma, ma non era un espertone. Era solo un buongustaio di progressive e di rock virtuosistico e per diversi anni, dall’alto di un’emittente locale, ha rappresentato un punto di riferimento per il disperato pubblico rockettaro, a secco di trasmissioni e di video musicali.
Ecco. Questo è forse ciò che possiamo mettere davvero dal lato “serio” della carriera di Benson.
Ma c’è chi invece se ne sbatte di Ottava Nota e del rock, esaltando – in via provocatoria e da esteta trash d’altri tempi – l’opera di instancabile creatore e rifinitore di se stesso che Benson non ha mai smesso di coltivare fino agli ultimi attimi di vita. In effetti, si può dire ciò che si vuole, ma è impossibile negargli l’autorialità assoluta del proprio personaggio. Non c’erano Boncompagni o Gino e Michele dietro l’animale televisivo che Benson ha creato negli anni Novanta e che ha sviluppato negli anni Duemila.
Carlo Verdone, quando lo ha coinvolto nel suo film Maledetto il giorno che ti ho incontrato, non a caso, non ha pensato di aggiungere nulla al personaggio Benson. Non gli ha cambiato nome o sfondo d’azione. Richard Benson nel film del regista romano faceva semplicemente se stesso e il teatro in cui metteva in scena il proprio inferno rock imbracciando una sei corde malmsteeniana, è rigorosamente quello di Ottava Nota.
Il fatto è che, nonostante l’aria da “guitar hero imbroglione”, lui sapeva sorprendere il proprio pubblico. Talvolta, quando ci si aspettavano pagliacciate incommensurabili, Richard sceglieva un approccio più defilato. Come nel caso dell’uscita di una videocassetta didattica in cui “Richard Benson” avrebbe dovuto spiegare agli inesperti “laqualunque” come si suona la chitarra “ruuack!”. Ebbene, il suo approccio in quella VHS era stato inaspettatamente misurato, professionale e generoso di consigli pratici e utilissimi per il dilettante smanioso di cominciare a fare casino con una Fender, rivelandosi nel tempo una guida visiva molto più utile delle didattiche ipervirtuose di Greg Howe o George Lynch uscite negli stessi anni, per lo più deprimenti e impraticabili dalla maggioranza.
Un’altra cosa che va riconosciuta a Benson è che, nonostante la sua totale incapacità in tutto quello che simulava di saper fare, ha sempre continuato a galleggiare nel mondo mediatico ben prima che divenisse la norma, e senza mai usare un reality show per rilanciarsi. E anche dopo che l’arrivo di internet ha tolto il lavoro a tanti personaggi pubblici, lui si è ancora una volta rigenerato come meme.
Dalla TV spazzatura di Max Giusti, dove il pubblico degli abbonati Rai si era trovato davanti questo energumeno urlatore vestito di nero da cui non sapeva bene cosa attendersi, alle visionatissime clip di Youtube in cui Richard veniva “trollato” dai figli di quegli abbonati RAI ormai annichiliti, per le sue scale “iperpentatoniche” d’annata, i suoi sproloqui rissosi dal palco del Coetus pub o per l’interpretazione artistica del Cristo Canaro. Ecco, il Cristo Canaro in particolare, (o Cristocanaro tutto attaccato) è senza facili ironie e ancor meno mezzi termini, un’indescrivibile trance attoriale a metà tra Pasolini e Totò che visse due volte – un momento unico e definitivo della creatività di Benson.
Insomma, tutto ciò che Richard Benson ha fatto in quarant’anni di vita pubblica è diventato praticamente cult e più sovente “scult”, almeno fino a quando il regista e cantautore Federico Zampaglione non ci si è messo d’impegno a produrgli in modo professionale e competitivo un disco completo.
Il risultato è inevitabilmente una delusione perché L’inferno dei vivi – e il video-singolo di lancio I nani – ha un aspetto troppo smaliziato e confetturato per pretendere di sprigionare il consueto delirio subliminale di Benson. Delirio che lui ha sempre mostrato di saper cavalcare quando rimaneva l’unico produttore e ingegnere di se stesso.
Gli anni peggiori o forse i migliori della sua traversata creativo-medianica sono gli ultimi. L’uscita di scena di Richard Benson è come doveva essere la conclusione della carriera di una grande rockstar: oltre misura.
Dopo una lunga lotta per la sopravvivenza, che dal 2016 è diventata sopravvivenza fisica, a causa della malattia e la conseguente indigenza, Richard Benson ha concluso il suo cammino senza mai smettere di essere la maschera. Non solo, ha usato la tecnologia casalinga sia per domandare aiuto ai fan, che – e soprattutto – per prometter novità clamorose e ritorni decisivi. Questo senza nascondere i segni devastatori del tempo e la mala salute, ormai sempre più evidenti. A proposito di quelli, i pochi rimastigli li ha mostrati per annunciare tour nei più grandi stadi d’America ed Europa.
E forse è qui che davvero, chi non l’ha mai “coperto” prima, potrebbe comprendere la reale grandezza di Richard Benson. La sua figura ha sempre cavalcato l’etere in equilibrio tra la pena e il grottesco, ma gli ultimi clip su Facebook, hanno raggiunto qualcosa di poetico. Dicono la verità su di lui. Su quanto era tenace, pazzo e fedele a se stesso. E su come sia stata proprio questa follia, chissà quanto lucida, a fargli attraversare anni di scherzi telefonici in diretta e platee ridanciane che lo coprivano di carne andata a male fino alla miseria e la sofferenza degli ultimi scampoli.
Ciao Richard, insegna agli angeli a fregarsene del giudizio di Dio!
Richard Benson Federico Zampaglione Ottava nota personaggio di culto musicale romano stile libero max trasmissione radiofonica gruppo prog buon vecchio ricoverato in una clinica arriva la prima apparizione tempo ricoverato ciao 2001 l'inferno dei vivi richard philip henry john benson lottato come un leone 67 anni leone anche questa volta madre tortura