Metal gotico erotico tra i palazzacci popolari di Amadora, poco fuori Lisbona: ma che, dàvero? Chi sono i Moonspell? E soprattutto: chi sarebbero, oggi? Dalle insospettabili smanie cattoliche di Ribeiro all’educazione misantropica black metal applicata alle odierne shitstorm del web. Il tutto, senza mai usare l’aggettivo “lusitano”.
Nel 1996, i Moonspell proclamavano l’intenzione di realizzare dischi sempre diversi tra loro, di aver praticato black metal finché era stato sensato e di puntare al gotico e a nuove vie espressive senza porsi limiti di alcun genere. La nettezza delle loro parole, messa a verbale da Cristiano Borchi sulle pagine di Metal Shock, è probabilmente dovuta anche a una serie di sgradevoli vicissitudini capitate alla band durante il breve soggiorno italiano. Per la prima volta in tour da noi, avevano fatto presto a disincantarsi parecchio sulla rinomata accoglienza italiana. Tuttavia, sul discorso della sperimentazione e l’avanguardia dei loro futuri lavori manterranno la parola. Saranno tremendamente coerenti.
Riascoltando i loro lavori più celebri e discussi – per intenderci: i primi quattro della discografia: Wolfheart (1995), Irreligious (1996), Sin/Pecado (1998), The Butterfly Effect (1999) – ci si perde in vecchie suggestioni e in domande oziose da dopo pranzo congestionato. Per esempio, viene da chiedersi se la band – proveniente da un paese che fin lì non aveva prodotto niente di rilevante in campo metallico – sia stata così irrequieta e vagabonda proprio perché la mentalità evoluzionista e cangiante di Fernando Ribeiro e Pedro Paixão aveva trovato riscontro in un tempo commercialmente instabile. Oppure, se tempi instabili sotto il profilo mercantile abbiano stimolato le peripezie creative di molte band oltre ai Nostri, istigando spazialità ed evoluzionismi tali che tanti hanno cominciato Venom e sono finiti Placebo senza capire bene neppure loro il perché.
Oggi il mondo che gira attorno al metal è sempre più propenso a premiare l’esatto contrario dei Moonspell versione anni ‘90. E, sebbene anche la prossima sia una domanda oziosa, la poniamo ugualmente: cosa combinerebbero questi portoghesi delle tenebre se nascessero ora? Vale a dire in un’epoca immobile e celebrativa, che in ogni caso offre un pubblico di riferimento a ogni sottogenere cui ci si voglia diligentemente votare (si tratti di retro-power oppure squirtal porn grind metal) a patto che non si sconfini mai, che non si esca dal recinto più o meno tracciato, adottando velleitarie contaminazioni in nome di una necessità creativa che più nessuno sarebbe pronto a scusare.
Per la verità, già tre anni dopo la suddetta intervista a Borchi, Ribeiro scrive di suo pugno un articolo su Psycho! lamentando il crescente puritanesimo della scena metal e profetizzando la nascita della creazione di «certi nuovi anni ‘80 artificiali per un pubblico che non ha potuto viverli».
E, in capo ad altri due anni, nel 2001 chiude la sua collaborazione con la rivista di Francesco “Fuzz” Pascoletti ammettendo di essere rimasto così provato dalle lagnanze, dagli insulti e dalle polemiche del pubblico metallaro rispetto ad album coraggiosi come Sin / Pecado e The Butterfly Effect da pensare seriamente di smettere con la musica e di dedicarsi ad altro nella vita. Magari all’insegnamento in un liceo femminile.
Ovviamente Ribeiro non si arrenderà. Rinuncerà, senza ricevere obiezioni o proteste, alla sua carriera di docente caliente e ricomincerà a darci dentro con i Moonspell che – a partire da Darkness and Hope passando per il più ispirato The Antidote – riusciranno a centrare definitivamente la formula goth, garantendosi una carriera discografica longeva e qualitativamente buona, e divenendo una garanzia di qualità e soddisfazione per l’audience più conservatore, ma senza più gli interessanti conflitti interiori e pubblici del periodo 1997-2000.
D’altra parte, se c’è una cosa che una band deve possedere per garantirsi una navigazione trentennale nei perigliosi e ingrati mari del music business è proprio la capacità di intuire la direzione del vento.
Un esempio? Il cambio di attitudine. Nel 1996 i Moonspell potevano permettersi frasi poco carine nei confronti dell’umanità e suscitando comunque il plauso e la simpatia del pubblico di allora: «noi odiamo la gente» diceva Fernando, «non ci frega cosa pensa il pubblico» aggiungeva il chitarrista Ricardo Amorim, e tutto era ok. Sicuramente oggi non ribadirebbero simili concetti: non per un discorso di maturità o di educazione, ma perché è evidente che fare gli spacconi e gli sregolati non funzionerebbe più. Basti vedere le figure barbine di Trey Azagthoth, sbertucciato dai fan per una disavventura alcolica a un posto di blocco, oppure le sparate nazistoidi dell’ormai bollito Phil Anselmo, che quasi ha affossato in un colpo solo vent’anni di preziose peripezie dei Down. Le metal star, oggi, devono rigare dritto e contare fino a dieci prima di parlare, perché altrimenti Blabbermouth e gli altri social rimandano loro «tutto indietro come un bungalow» (cit.), con una sfilza di commenti acidi e di insulti da ogni angolo del virtù-al mondo e, nella vita pratica, dolorose espulsioni ai festival e svuotamenti improvvisi dei carrellini del merchandise.
E la vendita dei dischi? Oh, quelli. Continuerebbero a uscire con regolarità, come sappiamo, nella più assoluta intangibilità, come spettrali fantasie fischiettate da qualche tomba dei vecchi tempi.
Paradossalmente – come faceva notare sempre Cristiano Borchi su Metal Shock a metà anni ‘90 – i Moonspell degli esordi, «ai tempi di Wolfheart, erano criticati per la scarsa originalità della proposta». Questo, solo tre anni prima delle secche invettive da piedi a Irreligious, vale a dire ai giorni del loro primo demo Wolves from the Fog.
Lasciamo stare il dato particolare che oggi quel debutto è considerato un episodio fondamentale per il black metal. Forse è la successiva carambola creativa a non mostrare una grande propensione pionieristica, e l’originalità dei Moonspell – elogiata senza indugio sin dai primi album ufficiali – non ci ha mai convinto. Senza nulla togliere alla capacità compositiva di una band in grado di scrivere grandi canzoni praticamente in ogni disco (siamo ormai a dodici e non ce n’è uno che sia dimenticabile), le scelte stilistiche non hanno però mai offerto chissà quale trovata seminale, da ricondurre solo ed esclusivamente a loro una qualsiasi piccola lista di seguaci.
Quando, nel 1994, su un’etichetta dal nome quasi impossibile (la Adipocere), uscì l’EP Under the Moonspell, la critica esaltò l’uso massiccio di voci femminili ed elementi orchestrali, non tenendo conto che i Paradise Lost già lo facevano da tre anni, che i My Dying Bride e il loro violino sanguinante erano approdati sulle sponde del fiume oscuro e i Cradle of Filth avevano dato al black metal una svolta dolciastra come l’odore della carne marcia sostituendo i satanassi con i vampiri. Per non dire dei Type O Negative, che nel ‘94 erano all’apice della loro decadente parabola tra Sabbath, Beatles e Joy Division.
I Moonspell stavano seguendo la linea gotica tracciata dai gruppi anglosassoni e svedesi e, con ammirevole intraprendenza e un tocco più irrequieto, hanno allacciato alle vetuste cattedrali di Halifax e di Stoccolma i rosari e le cipolle odorose delle inquiete e silenziose contrade latine. Nessuno nega loro il coraggio e il merito di aver cercato se stessi a rischio di smarrirsi per sempre (e soprattutto di perdere fan e contratti discografici in un tempo in cui entrambe le cose erano molto reali e facevano la differenza per un gruppo… e per la Century Media). Però, da Wolfheart a Sin, i Moonspell non hanno mai tecnicamente aggiunto nulla di unico e avveneristico, incluse certe contaminazioni etniche abbondantemente anticipate dai Sepultura. Hanno dismesso di corsa i costumi del black metal nordico, così inflazionato e saturante nel 1993, e si sono imbracati di tutta la paccottiglia pagana in arrivo con il primo carico underground, tra pellicce di lupo e lune di gesso. Successivamente, eccoli adornare le croci di cordami elettronici intermittenti, salvo recuperare nel frattempo la vecchia coltre primeva della furia black metal nel progetto fortemente voluto dal frontman stesso, i Daemonarch, dando prova di essere ormai giunti a una scissione schizoide.
Ma cosa pretendere da un cantore come Ribeiro, capace di poderose nenie baritonali e di urla che piallano il cervello al pubblico delle ultime file? Sarebbe stato sprecato, se si fosse limitato a berciare e ululare come un qualsiasi emulo di Dead. Così come il resto del gruppo – in grado di masticare e amalgamare folk sballato, esoterismo britannico, dark elettronico e metal estremo –, avrebbe languito nella mitraglia zanzarosa in coda ai carri armati dei Marduk. E così è stato giusto che, da Wolfheart e Irreligious, i Moonspell iniziassero a tenere larghi i confini della propria ricerca, fin quasi a tradire se stessi nelle leggiadrie oscure di Sin / Pecado e deludere definitivamente il pubblico più parrocchiale con The Butterfly Effect, che – nonostante le ottime intenzioni e risultando indubbiamente valido dopo ascolti annosi – resta un tiro alto sopra la traversa in termini di consacrazione e di salto in avanti nella famigerata macchina di cui ci hanno edotti i Mötley Crüe nel libro The Dirt.
Con questo non vogliamo relegare i Moonspell in seconda fila. Sono tra le band più significative del gothic metal anni ‘90, ma non è così semplice spiegare a chi non li conosca e ami, perché. Ci proveremo.
Per prima cosa, non hanno attinto soltanto alla letteratura di genere (Vampiria) e d’autore (dai versi di Pessoa alle fantasie romantiche del post-moderno Süskind e del pre-moderno Goethe). Non hanno attinto alle medesime fonti musicali degli altri. Sì, l’ispirazione è chiaramente presa dal post-punk e dai Dead Can Dance, ma si chiama in causa un insospettabile Leonard Cohen, non a caso il più latino dei cantautori americani (vedi la bellissima The Hanged Man).
E – altro punto a favore dei Moonspell – è l’aver avvicinato il metal anni ‘90 alla religione cristiana senza scimmiottare il messia mansoniano o, ancora peggio, predicare nuovi arrivi salvifici alla stregua di una qualsiasi christian power o doom metal band avventista del settimo scorno.
Piccola chiosa sulle influenze dichiarate e taciute di quegli anni telluricamente saltellanti. La cosa più curiosa – che comunque non riguarda solo i Moonspell – è che la maggioranza dei grandi nomi goth metal anni ‘90 si sia genuflessa davanti ai Depeche Mode, divenuti un inaspettato punto di riferimento del genere alla pari dei Black Sabbath. Tuttavia, nessuno (inclusi i Moonspell) ha mai nominato i Sisters of Mercy per poi plagiarli in modo quasi spudorato come i Paradise Lost in Say Just Words o i Ribeiro boys in Crystal Gazing e Than the Serpents in My Hands.
Ma se dobbiamo riconoscere un’autentica peculiarità ai Moonspell, tale da specificarne la grandezza, crediamo sia la costante voglia di sorprendere e sorprendersi offrendo al pubblico quella che Ribeiro ha definito, nella sua rubrica di Psycho!, «la parte migliore del gioco». La band portoghese ha infatti sempre manifestato un’audacia e una necessità di progredire senza perdere credibilità. L’ha fatto nel tentativo non di piacere a un pubblico più vasto, ma anche di capire fin dove potersi spingere e sentirsi ancora genuini. Il tutto stando però attenti a non traumatizzare troppo l’audience dopo gli eccessi peccaminosi della farfalla.
I gruppi che hanno dato loro l’esempio si sono magari trasformati, scandendo la metamorfosi in modo più brutale da un disco all’altro (i Paradise Lost da One Second a Host, i Tiamat da Wild Honey a A Deeper Kind of Slumber), mentre i Moonspell hanno farcito le scalette di ogni album con brani goth, altri più estremi e ballate elettriche. C’è un cambio di passo e di sapori incessante che è una costante da Wolfheart in poi. In nessuno dei primi quattro lavori trovate un pezzo che somigli al precedente e qualunque sfaccettatura espressa continua a fare capolino in ogni lavoro successivo, fino all’ultimo sorprendente Hermitage risalente al 2021.
Quello che oggi è un album dei Moonspell, si può paragonare a un ordinato anfratto di emozioni, vampiri e croci spaccate, ammuffite. Niente è davvero stato lasciato indietro. Tutto vive e succhia. Andrea Vaccaro ha scritto (sempre su su Psycho!, nel 1999) di essere stato con Ribeiro a visitare il Duomo di Milano, assistendo a una scena che l’aveva lasciato a bocca aperta: vederlo entrare e dopo qualche passo andare ad accendere candele, genuflettersi e fare altre cose che non si sarebbe aspettato da chi predicava il satanismo filosofico ed era già stato pagano adoratore della luna. Eppure, è parte dell’attitudine dei Moonspell mantenere viva ogni archetipica forma di fede che l’anima può produrre, così come – da bravo sacerdote nero – Fernando alimenta ogni singola fiamma che schizza di ombre e di luce i muri della chiesa creativa edificata da lui e dal resto del gruppo. Non è una questione di incoerenza, o come nel caso di Glen Benton, di una maschera pagliaccesca da indossare e togliere davanti e dietro i riflettori. Ribeiro e i Moonspell sono profondamente spirituali, e questa è sempre stata la vera e decisiva spezia che rende tuttora l’intera discografia della band (escluso forse 1755) qualcosa che vive e respira dentro le nostre orecchie.
Con i Moonspell si parla da sempre di erotismo in musica, ma non nell’accezione letterale (An Erotic Alchemy), per quanto Fernando attinga alle suggestioni dei poeti decadenti e si conceda strizzatine d’occhio alle fighette gotiche in prima fila (ma come biasimarlo?), piuttosto della sensualità accentuata di pezzi come Magdalene, la versione apocrifa e scorsesiana della “puttana di Gesù”. E questo potenziale erotico è il muscolo e il nervo vibrante del sound della band, focalizzato su e generato da Fernando, appunto, giustamente posto come fulcro di ogni spettacolo dal vivo. Lui è il vento alle nostre spalle, sprigionato dalle dodici stigmate incise sull’arazzo tessutale del più vibrante gothic metal.
L’erotismo come carisma e il carisma come effluvio d’amore. L’amore come canto dell’anima che sgorga dagli occhi di chi ama. Occhi negli occhi di un intero esercito di demoni disperati, davanti a cui Ribeiro non ha mai abbassato lo sguardo gentile e peccaminoso in trent’anni di oscurità e speranza.
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