Fiore all’occhiello dell’underground americano degli anni ‘80, tre punk per modo di dire si confrontano con psichedelia, jazz, radici, new wave e hard rock, ricavando uno stile unico. Una musica sexy come poche, magnifica come un miraggio.
Visioni soprannaturali mi riempivano la testa
Mentre giacevo là e una musica sexy
Ruzzolava tutto intorno
Vi va di giocare? Prendete un foglio di carta e una penna: su un lato elencate i generi che amate di più, sull’altro quelli che ritenere siano i pregi di una band. Poi immaginate che, in un preciso punto dell’America, qualcuno sia riuscito a mettere insieme i vostri desideri e padroneggi psichedelia, hard, country, jazz e post-punk in un cocktail inebriante, mescolando impeto dionisiaco e razionalità, intelletto e anima, concretezza e immaginazione.
Non è un sogno. Questo gruppo esiste e nonostante l’età, gli acciacchi e le vicissitudini calca ancora le scene più che dignitosamente. I Meat Puppets provengono da Phoenix, Arizona, e se il termine crossover ha un senso è anche merito loro. Osservando la pluridecennale storia del rock, salta all’occhio come nulla nasca da zero e come questa arte – popolare fin che volete, ma pur sempre tale – prosperi intrecciando il passato in fogge inaudite.
Alla faccia dei puristi, insomma, la sua forza sta nella contaminazione. Ne sono ben consapevoli i fratelli Curt e Cris Kirkwood, che con l’affatto marginale contributo del batterista Derrick Bostrom hanno scritto pagine indelebili nel romanzo dell’underground anni Ottanta. Come per Minutemen e Hüsker Dü, anche il loro è un caso dove si trascende l’ambito di riferimento, respirando la vita e consegnandone una visione – qui meravigliosamente “distorta” – tramite dischi memorabili e attualissimi.
Dischi dove le sonorità posseggono la concretezza della terra e la levità dell’aria. Dove possiamo ascoltare svariati rimandi stilistici tra loro eterogenei che, tuttavia, sono lampi all’orizzonte fusi in una personalità precisa. Rock vigoroso, cristallini trip californiani, country imbastardito di elettricità, folk inzuppato nell’LSD, la lezione melodica dei Sixties, il senso di concisione della new wave: tutto insieme, tutto sfuggente. E tutto bellissimo.
Pur sfaccettato, il trio porta comunque con sé lo spirito dei territori dove è cresciuto. Al pari dei coetanei Thin White Rope, Giant Sand, Texas Instruments e Black Sun Ensemble, anche i Meat Puppets hanno impressa sulla pelle la poetica del deserto e non potrebbe essere altrimenti, dal momento che quel falso vuoto prima ti scruta e poi ti entra nel profondo. Reale o metaforico, è uno spazio vivo che, insegnano Michelangelo Antonioni e Roky Erickson, può trasformarsi in microcosmo narrativo e in pura ossessione.
Per questo è un luogo psichedelico in senso letterale ed ecco spiegata la dilatazione della realtà, i cervelli che si scoperchiano ed espandono, l’epifania allucinata che passa sotto il nome di miraggio. Così si intitola uno dei migliori LP dei Nostri e un cerchio si chiude. Epico e stralunato, fisico ed etereo, qualcosa di meraviglioso è accaduto, laggiù nel deserto.
Vedi un sacco di cose, lassù, ma non farti spaventare
Chi ha bisogno di azioni quando ci sono le parole?
Pensieri, parole e azioni arrivano da Phoenix, che sorge proprio come una fenice tra ceneri di sabbia. Colà Curt (chitarra e voce, classe 1959) e Cris (bassista, un anno e mezzo più giovane) crescono fumando erba e facendosi le ossa in complessini dediti a rifare ciò che passa alla radio. Conseguito il diploma, nel 1980 allestiscono i Meat Puppets con l’amico Derrick Bostrom, attingendo il repertorio dalla sua collezione di 45 giri punk.
La metropoli è ai margini del deserto di Sonora e, lontana dai grandi centri dell’industria musicale, gode del distacco con cui il talento reinterpreta le mode e condensa gusti in teoria antitetici. Vale eccome per il nostro power trio, anche se il primo reperto – l’EP In a Car, edito dalla World Imitation – propone un esagitato hardcore da ventenni che in qualche modo devono pur cominciare.
Una copia finisce sulla scrivania di Greg Ginn, chitarrista dei Black Flag alla guida dell’etichetta SST, che li assolda all’istante. Nel 1982 un breve, abrasivo album omonimo poggia strutture sghembe su una ferocia stralunata e un approccio iconoclasta alla tradizione. Nondimeno, la vera svolta giunge l’anno successivo, quando una formazione già stanca dell’ortodossia di urla e furore sfoggia una strabiliante maturità.
In pochi mesi ha preso forma l’estrosa mistura di rock aspro ma flessuoso, psichedelia priva di prolissità, funk e new wave che, speziata da un’idea policroma dell’Americana e un grunge che non esiste ma che, con il senno di poi, è facile percepire, li consegna agli annali. Attorno a questo linguaggio composito, per l’intera carriera i Meat Puppets proporranno variazioni sul tema lavorando con la scrittura, l’esecuzione da virtuosi misurati, una visionarietà insieme appassionata e ironica.
Qualità alla base di II, capolavoro tuttora fresco e intrigante che nell’84 sorprende per la bellezza che corteggia l’indescrivibile e un’estasi dalla quale affiora la tensione. Un viaggio mentale attraversa metamorfosi hard (Split Myself in Two, New Gods), strumentali in anticipo sul post-rock (Aurora Borealis, I’m a Mindless Idiot), surrealismi acid-wave (Plateau, Lake of Fire), country robusto (Lost, Climbing) oppure saldato a blues mutante (The Whistling Song) e corretto con anfetamine (Magic Toy Missing). Nient’altro suona come le meraviglie presentate in tour che rafforzano l’intesa e allargano il bacino d’utenza. Riascoltare per credere.
All’altezza di Up on the Sun la stampa mainstream si accorge di questi hippie contemporanei che, stratificando un lussureggiante intarsio tra chitarre, armonie vocali e ritmo, sono approdati subito a uno stile classico. Difficile terzo album? Favoloso semmai, per la circolare gemma che lo intitola, per una giocosa Maiden’s Milk, per i Talking Heads capitanati da Jerry Garcia di Away, Animal Kingdom e Buckethead. Altrove, Swimming Ground e Two Rivers rivedono il folk rock nervoso di Feelies e R.E.M., Creator flette i muscoli con classe, Seal Whales è un limpido incanto e Hot Pink una slanciata cantilena.
Gustoso corollario, l’EP Out My Way tampona lo stop dovuto a un infortunio di Curt. Neanche il tempo di rifiatare, che nell’87, a pochi mesi di distanza, gli stakanovisti recapitano due album diversi e complementari. Mirage introduce i sintetizzatori e confonde le tinte in acquerelli neo-psych (la title track, The Mighty Zero, Love Our Children Forever), funky sbiancato (Quit It, Leaves, I Am a Machine), squarci heavy (Beauty, Liquified), gioielli roots (Confusion Fog, Get on Down, A Hundred Miles) e folk trasognato (The Wind and the Rain).
Più diretto, Huevos viene inciso in quattro giorni di “buona la prima” reagendo alle stratificazioni che caratterizzavano Mirage e alle difficoltà di renderle sul palco. Di conseguenza, si rocca con gusto perfezionando un marchio di fabbrica, rivelando la devozione per gli ZZ Top nelle fumiganti e squadrate Paradise, Automatic Mojo e Dry Rain, omaggiando con intelligenza i Creedence Clearwater Revival in Look at The Rain, Bad Love e I Can’t Be Counted On.
Che fare, quando le major assediano l’ultimo fortino del college rock? Vagliare le proposte e incidere un addio alla SST che tasti il polso all’attualità esprimendosi sulla fioritura del grunge. Da suoi anticipatori, in Monsters i Meat Puppets si permettono raffinata potenza (Attacked by Monsters, Meltdown, The Void) e luccicanze Paisley (Light, Like Being Alive), giostre sulfuree (Flight of the Fire Weasel) e scontri frontali tra Grateful Dead e Led Zeppelin (In Love, Touchdown King). Il pubblico è tiepido, ma presto cambierà idea. Nel frattempo i tre si prendono una pausa. Meritatissima.
Dove va la gente cattiva quando muore?
Non va in paradiso, dove volano gli angeli.
Inizialmente il passaggio di categoria è indolore. Nel 1991 Forbidden Places esce su London soffrendo l’epocale vendemmiata d’autunno e, benché resti commercialmente a metà del guado, convince con l’energico scioglilingua Sam, con la hardelia di This Day, Another Moon e Whirlpool, con il blues rock elaborato del brano omonimo e di Nail It Down. E se That’s How It Goes è un country latino, No Longer Gone si porge incantata però imperiosa e Six Gallon Pie galoppa a passo di indiavolato cow-punk.
Altri giorni, quelli in cui una casa discografica concede di crescere gradualmente. Per un biennio i ragazzi mantengono un profilo basso, dopo un’infruttuosa audizione scartano John Frusciante (sì: era appena «uscito dal gruppo») e accettano l’invito del fan Kurt Cobain ad aprire le date del tour di In Utero. Il resto, come si suol dire, è storia.
Verso la fine della tournée, infatti, i Nirvana entrano negli studi di MTV per l’intenso testamento Unplugged ed eseguono tre pezzi di II in compagnia degli stessi Meat Puppets. I quali, inconsciamente, pongono le fondamenta del successone Too High to Die, trainato nel ’94 dalla succitata esibizione televisiva, dall’onda di emozioni scatenata dalla tragedia di Kurt e da canzoni di ottima fattura.
I tempi sono maturi, il suono alternativo entra in classifica coronando una crescita decennale e finisce un’era. Per i nostri eroi, il sigillo è l’ultimo LP da avere senza esitare, nel quale Paul Leary dei Butthole Surfers sovraintende il riassunto estetico illuminato dal rifacimento “fantasma” di Lake of Fire e dal singolo Backwater, da eleganti coesioni ipnotico-melodiche (Violet Eyes, Flaming Heart, Station) e felici trasfigurazioni creative (Never to Be Found, Severed Goddess Hand, Shine).
Una volta in cima, le cose prendono una pessima piega: il Kirkwood minore ha gravi problemi di droga e l’appannamento trapela dal manieristico No Joke!. Esasperato e avvilito dalla scomparsa della madre, Curt rifonda la band in Texas mentre Cris vede la consorte morire di overdose. Malgrado l’impegno, nel 2000 Golden Lies non risolve l’impasse. Dissolvenza.
Se questo fosse un film, sullo schermo ora apparirebbe la scritta “sette anni dopo”. Sette anni dopo, un Cris Kirkwood ormai pulito racconta di quando ha assalito una guardia postale, si è beccato una pallottola nello stomaco ed è finito in galera. In faccia gli leggi l’inferno che ha percorso allorché abbraccia il fratello, sapendo che, qualsiasi cosa accada, il sangue è sangue. Poi impugna il basso, accende l’amplificatore e i Meat Puppets tornano in pista.
Sufficiente Rise to Your Knees, carino Lollipop e sfocato Rat Farm, nella nuova vita spiccano Sewn Together e Dusty Notes, ultima missiva dove Bostrom rientra nei ranghi frattanto allargatisi con l’ingresso di un tastierista e del figlio di Curt, Elmo, alla chitarra. Nulla che possa replicare la magia che fu, sia ben chiaro, tuttavia per la famiglia dell’Arizona affetto e stima restano immutati.
Parliamo pur sempre di chi ha raggiunto vette come II, Up on the Sun e Mirage e di chi, da essere umano (non) comune, si è arrangiato come poteva nel difficile mestiere di vivere. Di chi è caduto, però alla fine ha saputo rialzarsi. Oltre alla musica straordinaria e sul serio eterna, ai Meat Puppets vuoi bene anche per questo. Ma soprattutto perché, come canta un loro celeberrimo connazionale, non si possono spezzare i legami che uniscono. A maggior ragione se ciò che tengono insieme è un’autentica band of brothers.
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