Ambizioso, complesso e sfaccettato, per qualcuno Anima latina rimane un disco difficile. Per noi, invece, rappresenta il capolavoro in grado di ritrarre fedelmente uno dei veri geni della canzone italiana.
Nella celeberrima L’avvelenata, Francesco Guccini metteva in dubbio – forse: le cose non sempre sono come sembrano – che con le canzoni si possano fare rivoluzioni e poesia. Al netto del livore, aveva torto ma anche no. Il punto sta nell’intendersi sul tipo di rivoluzione: se cioè l’artista, che in quanto tale spesso si muove in aree grigie, innalza barricate nelle vie oppure frantuma muri nella testa delle persone. Tutto questo lo si giudica in base al segno che imprime sul/nel tempo e, ovviamente, sulla disciplina di riferimento e sulla società.
Pensi a Lucio Battisti e subito ritornano in mente brani che chiunque conosce e ha intonato almeno una volta, da tragiche gite a detestabili karaoke. Ritornano frasi che sono patrimonio comune come le poesie imparate sui banchi di scuola, perché, quando lavorava con Lucio, Mogol poeta lo era eccome. In realtà, “Battisti e Mogol” sono una creatura in tutti i sensi unica, nata da una sintonia che innalza l’artigianato ad arte nell’istante in cui fonde due anime in qualcosa di superiore. Una creatura che chiude cerchi e spalanca prospettive.
E non è una rivoluzione, tutto ciò, al pari dell’entrare – per rimanerci: di generazione in generazione – nella cultura e nell’immaginario, nel cuore e nella memoria? Non è uno sconvolgimento aver svecchiato di colpo una musica fino a poco prima pesante nell’accezione negativa, attingendo da modelli esteri però soffiandoci dentro un innegabile gusto “nostro”? Ebbene, lo dobbiamo a quei due il salto in avanti dalla tradizione stantia del “bel canto” a uno stile finalmente attuale per respiro e ambizioni.
Senza la voce che carezza e sferza, senza la parafrasi di blues e rock, di soul e progresso, senza quei testi e quei colori, senza il gioco tra emozione e rappresentazione, le cose sarebbero (state) diverse. Anche per questo Battisti lo ascolti ovunque, da Enzo Carella, all’indie italico contemporaneo, passando per figure diversissime come Manuel Agnelli e Francesco Bianconi.
Di conseguenza risulta naturale considerarlo uno dei pilastri sui quali poggia l’edificio del pop nostrano, essendo l’altro Franco Battiato. Le affinità non mancano: figli di una provincia dell’impero ma apprezzati all’estero, sono riservati e all’occorrenza taglienti, misteri ecumenici che si affidano alla sapiente unione tra istinto e calcolo per slanci, visioni, fughe.
Colpisce, inoltre, un percorso inverso che vede Franco (ammiratore dell’uomo di Poggio Bustone) decollare dalla sperimentazione verso il pop di alto rango mentre Lucio, fino a un certo punto, viaggia nella direzione opposta. Nell’arco delle rispettive carriere, però, entrambi girano intorno alla propria musica e non stupisce che, nel cammino battistiano, un momento congeli il tempo anticipando il Battiato “mistico” nella sublime sospensione di Vento nel vento.
E sorprende ancora meno, in retrospettiva, che la crescita conosca in Anima Latina un apice assoluto. Perché se Lucio Battisti ha liberato il canto che l’Italia teneva pronto a esplodere come un fuoco d’artificio, poi lo ha scagliato oltre l’infinito in un gesto di estremo coraggio. In ciò che chiamiamo un capolavoro.
Quello che conduce ad Anima Latina è un tragitto preciso. Nel dicembre 1974 Battisti è in cima al mondo. Non ha nulla da dimostrare, eppure gli tocca scansare risibili accuse di simpatie destrorse anche se il suo supposto “disimpegno” nasconde ben altro, in primis la sensibilità verso tematiche ecologiste.
Alle spalle ha la gavetta che, grazie all’istintualità e l’apertura mentale che lo caratterizzano, gli ha permesso di tradurre in un linguaggio personale e in memorabili successi la lezione del folk, del rock e del rhythm’n’blues, come di approcciarsi con ottimi esiti all’uso dello studio di registrazione e di valorizzare al meglio musicisti prestigiosi.
In più, sta per rendersi indipendente dal punto di vista discografico e, al pari dei Beatles, rinuncia ai concerti per dare forma compiuta a ciò che ha nella testa. Con Giulio Rapetti al fianco, nel 1970 ha toccato una vetta con Emozioni, un intimo stupore dove ricercatezza e spontaneità risultano, oltre che complementari, inscindibili. Dopo di che ha deciso di indirizzarsi verso il formato album e lasciare l’orecchiabilità beat agli imitatori privi di arte e di parte.
L’artista genuino punta all’espressione, perciò nel ‘71 Amore e non amore saluta la Ricordi cogliendo un nobile momento di passaggio tra torridi soul rock e affreschi progedelici aperti alla scuola colta. E poi Pensieri e parole sistema un’ennesima pietra miliare a 45 giri allorché Umanamente uomo: il sogno prosegue l’allontanamento dal recente passato, accostando con maestria lo straordinario, malinconico inno I Giardini di marzo, la profondità di E penso a te, il rumorismo orroroso de Il Fuoco a una vigorosa Sognando e risognando e all’apparente leggerezza di Innocenti evasioni e Comunque bella.
La critica apprezza, il pubblico compra e comprerà. In massa, oltretutto. Bene così, ché il duo è intenzionato a metterlo alla prova. Al termine di quello stesso 1972, Il mio canto libero dispiega l’eleganza e l’urgenza che illuminano l’omonimo soul gregoriano, la mestizia in tralice di La luce dell’est, la già citata Vento nel vento, le intense L’aquila e Io vorrei… non vorrei… ma se vuoi.
Infine, Il nostro caro angelo consolida la maturità nella polemica garbata però ferma di Ma è un canto brasileiro, nell’ineffabile gioiello La collina dei ciliegi, nell’inquietudine percussiva e sfregiata con l’elettronica di La canzone della terra, nel blues mediterraneo Prendi fra le mani la testa, laddove la title track e Questo inferno rosa si tuffano in abissi emotivi di accecante bagliore. Potrebbe bastare, e invece…
Nella collana appena descritta, la coppia non ha solo infilato una gemma dietro l’altra. Ha anche sparso indizi della svolta in corso dentro strutture sempre più elaborate (che comunque trattengono spontaneità e carica emotiva) e in arrangiamenti moderni, arguti. Testo e spartiti hanno camminato di pari passo insieme all’intesa e tutto sta per culminare in un attimo irripetibile. In uno spartiacque che coinvolge gli stessi artefici.
La spinta a superarsi al massimo, complice un viaggio in Sudamerica che espande ulteriormente gli orizzonti, Anima Latina può sigillare la trilogia dell’astrattismo “misurato” con un capo d’opera. Con un calderone dal quale emergono suggestioni etniche e jazz, rock prefissato space e kraut, un impegno che incastra i ritmi su melodie che paiono assenti e invece – programmaticamente, volutamente – chiedono attenzione, come del resto è per le liriche di un Rapetti mai (più) così criptico.
Impegno e pazienza mancano ai detrattori di allora, i quali storcono il naso di fronte a ricercate cattedrali sonore e slarghi strumentali d’avanguardia che spazzano via con un colpo di spugna il prog tricolore raggiungendo l’eternità. Ti domandi dove abbiano vissuto fino al giorno prima, costoro, visto che l’aria di sicuro non è cambiata di colpo.
Lo spiega a chiare lettere l’iniziale Abbracciala abbracciali abbracciati: batteria ampia – da sample trip hop, nientemeno – che snoda ipnosi dove Lucio si pensa Scott Walker abbigliato da David Axelrod, l’ugola affondata in una fitta trama e lo sguardo sui labirinti del cuore. Senza soluzione di continuità, la meraviglia Due mondi incalza tra cerchi concentrici di cupi synth e ancheggiare armonico, tra ottoni rigogliosi e il duetto con Mara Cubeddu.
Se Anonimo preconizza gli Air sorprendendo con un taglio (ehm) aeriforme, minacciosi panorami spagnoleggianti e la stranita coda che cita I giardini di marzo, Gli uomini celesti scatta una marmorea ma flessuosa polaroid in un Brasile immaginario. Dopo le brevi riprese di Gli uomini celesti e di Due mondi, la seconda facciata sviluppa una materia cangiante dalla quale farsi avvolgere, ogni volta stupefatti come se fosse il primo ascolto.
La canzone che intitola il disco scatena danze febbrili ferite da stasi, tastiere e meditazioni fino a sfociare in una corale brezza carioca e a riprendere il ballo; Il salame stempera solo in apparenza la severità tramite un folk tra cosmico e cameristico; La nuova America si porge germanica e funky, bucolica e post-rock. Alla tesa psichedelia tra etnico e attonito di Macchina del tempo risponde Separazione naturale, che chiude tra stridori e borbottii come un Battiato – ecco: se esiste un referente per l’intero 33 giri, è proprio il siciliano – preso in ostaggio dagli Harmonia.
Chi cercava le hit resta di stucco. I più attenti capiscono la lucentezza cristallina e la solidità plastica. Capiscono il gesto, i significati, gli effetti sul breve e lungo termine. E, negli anni a venire, capiranno che qualcosa finisce con un sussurro profumato di schianto. Lo sforzo ha causato le prime crepe e, pur nell’assenza di cadute, Battisti e Mogol cominciano a staccarsi uno dall’altro, sereni e cortesi come i vicini di casa che sono.
Gradualmente, Lucio si chiude al mondo. Approfondisce la passione per l’universo della musica nera e poi, adottate la tecnologia e le sagaci parole di Pasquale Panella, studia l’attualità per restituirne una visione surreale e ironica. Autorecluso nella bolla di partecipato distacco che ha iniziato a costruire con Anima Latina, svanirà tra punti interrogativi e silenzi eloquenti lungo la scomposizione totale della canzone e di sé. Pur sempre umanamente umano, quel gran genio del nostro amico.