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Una volta alla settimana compiliamo una playlist di tracce che (secondo noi) vale davvero la pena sentire, scelte tra tutte le novità in uscita.

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... Tutte le tracce che abbiamo recensito dal 2016 ad oggi. Buon ascolto.

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A volte è necessario approfondire. Per capire da dove arriva la musica di oggi, e ipotizzare dove andrà. Per scoprire classici lasciati indietro, per vedere cosa c’è dietro fenomeni popolarissimi o che nessuno ha mai calcolato più di tanto. Queste sono le storie di HVSR.

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L'eternità minimalista dei Loop

Essere un culto, svanire e tornare più arrabbiati che mai.

Da fragori che mandano in frantumi il paradiso all’assordante quiete isolazionista e ritorno. Questo il percorso compiuto da Robert Hampson – con i Loop, ma non solo – lungo trentacinque anni di carriera. L’uscita del nuovo album ci ha offerto l’occasione per ripercorrerla.

Underground Psichedelico

È un mondo difficile, ma non andate a dirlo a chi rimane costantemente nell’ombra. Soprattutto, evitate l’argomento con i Loop, i quali si affacciavano alla ribalta poco oltre la metà degli anni Ottanta, quando il filone neopsichedelico (del quale sarebbero stati prosecutori celebrati in misura inversamente proporzionale al talento) stava svanendo e in giro c’erano già gli Spacemen 3. Nonostante le accuse di plagio, viene da sorridere ricordando che anche i ragazzi di Rugby all’inizio venivano accostati per errore ai Jesus and Mary Chain.

La critica avrebbe fatto marcia indietro piuttosto in fretta, anche se nel caso della formazione capitanata da Robert Hampson si può comprendere il malinteso, generato da similitudini stilistiche e antenati in comune. In realtà, poggiando un’ipnosi ruvida sull’incastro tra la ritmica e le chitarre più che sulla stratificazione e la tessitura di queste ultime, i Loop posseggono un’identità precisa che tiene fede al nome che si sono scelti. In un’altra analogia con Jason Spaceman e Sonic Boom, sono assurti allo status di classici ponendo le basi dello shoegaze e di certe frange del post-rock.

Come per i My Bloody Valentine, questo aspetto concede la piena giustificazione alla reunion e al nuovo album Sonancy. Sì, perché sono più che mai attuali l’implacabile passo motorik, l’esaltazione alienata, le chitarre sature però eleganti che dialogano rinunciando agli assoli, quelle atmosfere in fondo più allucinate che allucinogene. Ed è sempre una dimostrazione di genio l’idea di rimandare all’infinito l’esplosione di un nucleo pulsante e colmo di tensione a lento rilascio, che viene al contrario lasciato in perenne fermento per mantenere l’attenzione dell’ascoltatore.

«This video contains fast flashing images» – giusto per mettere le mani avanti.

Missione compiuta anche nel 2022 con le cavalcate Interference e Halo, il serpentino gioiello Isochrone, l’eleganza possente, fluida e spontanea sfoggiata in Eolian e Fermion, calibrati congegni a orologeria come Axion e Aurora e intermezzi dove – sbagliandoti – credi di riprendere fiato. Mettendo il punto all’ennesima riapparizione della psichedelia, il riservato e deciso Hampson riprende il filo di discorsi lasciati in sospeso dal 1990, tuttavia asseconda un’urgenza contemporanea che tiene conto di quanto accaduto nel frattempo e sceglie una più pronunciata concisione.

Non contento, mostra l’origine di un linguaggio sul quale molti, nel nuovo millennio, hanno costruito carriere fortunate anche dal punto di vista economico. Suo malgrado, Robert resta un patrimonio per i pochi appassionati che stanno mandando a memoria Sonancy. E con tutto questo, beninteso, la nostalgia non ha niente a che vedere.

Tanto per cambiare, anche questo (le fast flashing images, dico).

Alla fine del paradiso

Un piccolo flashback… Quando si formano, i Loop sono fuori sincrono con la scena indipendente inglese tanto quanto gli Spacemen 3. Allo stesso modo, prelevano dall’acid rock e dagli Stooges, dai Can e dai Velvet Underground il materiale, che saldano utilizzando la maniacale hardelia degli Hawkwind. Messa a punto la navicella, si tuffano nelle oscurità dell’anima, come da lezione della new wave (Suicide, P.I.L., Joy Division) più propensa a lavorare con la ripetitività e le ossessioni, spazzando via i rimasugli di misticismo per lasciare spazio a moderne angosce e temprarle in un minimalismo cupo e vibrante.

In maniera assai simile ai quadri di Mark Rothko, di fronte a un’ipnosi mai monocorde la mente è stimolata a inseguire le più piccole variazioni mentre viaggia in un oceano soltanto in apparenza uniforme. L’esteriorità inganna: dettagli infiniti si nascondono tra le pieghe e le increspature. Alla fine, quel nastro di Möbius sonoro ci ha catturato inesorabilmente. Sa il fatto suo, Robert, fin dal giorno in cui ha deciso di rimuovere l’ego dall’arte e sul palco spariva dietro coltri di fumo, tenendo la testa china sugli strumenti e guardandosi le scarpe. Prima di tanti e con ben altro vigore.

Corre il 1986 quando il cantante/chitarrista allestisce il gruppo nel Sud di Londra con Becky Stewart alla batteria e il bassista Glen Ray. Firmato per la Head, il singolo 16 Dreams è un biglietto da visita ruvido e ottundente per due anime complementari – ipnotica una, impetuosa l’altra – cucite insieme senza che si notino cesure. Alla Stewart presto subentra John Wills ed entro un annetto, con dovizia di campionamenti da 2001: Odissea nello spazio, l’album Heaven’s End chiarisce che se si puntano tangenti cosmiche è pur sempre nell’introspezione che andremo comunque a parare.  

Un disco a luci rosse.

Un’introspezione sofferta, va da sé, poiché riff di sobria e stratificata complessità confluiscono in stordenti vapori di feedback, la voce è lontana e sempre presente, il ritmo ha un’ossatura tribale attenta all’intarsio. A imprimersi sulla corteccia cerebrale è l’insieme, benché la frequentazione sveli assalti torpidi e iniettati di fuzz della caratura di Soundhead, Too Real to Feel e Head On, l’inno claustrofobico dal cuore liquido Straight to Your Heart, una Forever che trasloca gli Stooges di We Will Fall nei solchi di Closer, la supernova sull’orlo del collasso della title track, un’avvolgente e malata Carry Me. Avercene, di esordi di questa caratura. Non solo oggigiorno.

Dal centro dell’onda

Non c’è pressoché nulla da riferire che esuli dagli avvicendamenti di organico e dai dischi. Qui è la musica che conta e che si spiega quasi da sola, proiettandosi lungo una mutazione che lima il frastuono e perfeziona la trance. Dopo che The World in Your Eyes ha antologizzato le uscite su piccolo/medio vinile, ripescando tra il tanto di meritevole un abrasivo però pure estatico 12” Spinning, che è l’atto di nascita dei Brian Jonestown Massacre, e un’indicativa rilettura di Rocket USA, con il nuovo bassista Neil MacKay si passa alla Chapter 22.

Nel 1988 la melodia scintillante e le rugginose distorsioni di Collision anticipano il secondo LP, offrendo inoltre un’azzeccata rivisitazione di Thief of Fire del Pop Group. Per la serie “dimmi che cover fai e ti dirò di che pasta sei”, più tardi la band si misura a testa alta anche con Nick Drake (una dolente, acidula Pink Moon) e Neil Young (di Cinnamon Girl accentua sia lo sferragliare che il senso di stupore), mostrando un’ispirazione cui sulle prime non penseresti e invece quadra perfettamente.   

Salve, Black Rebel Motorcycle Club!

A novembre, Fade Out è squarciato in apertura dal brano simbolo dei Loop: fuori anche su EP (di nuovo: accompagnato da un rifacimento un filo più sensuale di Mother Sky), il mantra Black Sun martella le tempie in uno straordinario trip, rappresentando un’introduzione eccelsa all’iraconda This Is Where You End, alla mesmerica traccia omonima, alla Fever Knife che incede lenta tra ricordi di Spacemen 3 e anticipi di Motorpsycho. E se A Vision Stain è un’ipotesi di nevrotica funkadelia, i fragori e il groove di Pulse insegnano diversi trucchetti a Warlocks e Black Angels.

Caleidoscopico, per dirla didascalicamente.

Altro giro, altra etichetta. Nel 1990 la Situation Two rende di pubblico dominio l’indole sperimentale del terzo e migliore 33 giri dei Nostri, dopo il quale entra in squadra il chitarrista Scott Dawson. Preannunciato dal devastante, elastico funk mutante Arc-Lite, A Gilded Eternity è intriso di rumore sommesso e per lunghi tratti addirittura meditativo. Le trame, fitte e robuste, disturbano in maniera subliminale, i brani sono galassie che ruotano attorno a un buco nero nel quale vuoi gettarti, perché sei sicuro che dall’altra parte ti attendono canzoni magnifiche.  

Belli capelli e ancora strobo a palla.

Le architetture slanciate di Vapour, The Nail Will Burn e Breathe into Me coniugano finezza e abrasività con il piglio che appartiene ai classici, Afterglow ostenta una sapiente articolazione e, come una scheggia “made in Sheffield”, Blood mescola assortite allucinazioni su una batteria circolare. Ancora: From Centre to Wave getta i Cure di Pornography in un altoforno, la splendida dilatazione Be Here Now immagina una versione gotica del Paisley Underground e Shot with a Diamond getta un ponte sul futuro prossimo tramite una malsana ambient post-industriale dove aleggiano spezzoni di Apocalypse Now.

Cambiano i colori, ma gli effetti sono i soliti.

A dispetto di un discreto incremento nelle vendite, la stanchezza causata dalla routine disco/tour e l’impossibilità di ulteriori evoluzioni sanciscono la (prima) fine del viaggio. Il saluto è Wolf Flow, consigliatissima raccolta di session per John Peel dal titolo palindromo. Non è un caso, ovviamente.

Svanire, isolarsi, ritornare

In retrospettiva, è evidente che A Gilded Eternity porti un canone alle estreme conseguenze. Oltre il suo plastico, cangiante muro del suono ci può essere solo l’attraversamento del confine che separa i sussurri dal silenzio, e così sarà. Dopo lo scioglimento, MacKay e Wills (riapparso più di recente anche nei Pumajaw) proseguono con gli apprezzabili Hair & Skin Trading Company e il leader, trascorso un po’ di tempo nei Godflesh, approfondisce il decostruzionismo. Accantonata la chitarra, maneggia sintetizzatori e drone fino ad approdare con coerenza a un astrattismo di scuola isolazionista.

I lavori dei Main – dove Robert è spalleggiato da Dawson e successivamente da Stephan Mathieu – si alternano ad altri, in solitudine, dentro un perimetro sperimentale che raggiunge l’apice e un nuovo invalicabile estremo nei medi anni Novanta. Con logica consequenzialità, il cerchio si chiude sulla musica concreta, un trasferimento in Francia e la collaborazione con il prestigioso Groupe de Recherches Musicales parigino.

Dei Loop si torna a parlare nel 2008, in occasione del piano di ristampe (curatissime e generose di bonus) della Reactor. Mentre Hampson si guarda indietro, in lui rinasce l’amore per la sei corde: un lustro più tardi, la line up di A Gilded Eternity si esibisce al festival All Tomorrow’s Parties. Ennesima dissolvenza. Avanti veloce al 2015, quando una nuova incarnazione – vi figurano Wayne Maskel e Hugo Morgan, sezione ritmica degli Heads, più il chitarrista Dan Boyd – pubblica il corposo EP Array 1, pannello inaugurale di un trittico che non viene portato a termine.

Il nostro uomo oggi, bello come un Johnny Marr che non si tinge i capelli.

Il nostro uomo ha infatti messo da parte una quantità di composizioni tale da meritare un intero LP, firma con la Cooking Vinyl e in piena pandemia, con tutte le difficoltà che potete immaginare, registra Sonancy. Il resto, come rimarcato in apertura, appartiene alla stretta attualità. A un nuovo dispaccio inviato da un genio che guarda sempre avanti. Uno che, come le sue fantastiche sculture soniche, continua a muoversi anche quando sembra immobile. Less is more, signore e signori.

Loop Robert Hampson 

↦ Leggi anche:
Loop: Halo

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