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A volte è necessario approfondire. Per capire da dove arriva la musica di oggi, e ipotizzare dove andrà. Per scoprire classici lasciati indietro, per vedere cosa c’è dietro fenomeni popolarissimi o che nessuno ha mai calcolato più di tanto. Queste sono le storie di HVSR.

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Profondo rosso, ma niente paura: parola dei King Crimson.

Red: un disco che è un punto di arrivo, ma anche di una nuova partenza.

Nel 1974 i King Crimson hanno fatto quadrato – anzi: triangolo – ponendo le basi della new wave e inventando il math rock. Perché sapevano che la potenza è nulla senza controllo e che tra prog e progressismo c’è una gran bella differenza. 

King Crimson Red
  • Artista: King Crimson
  • Titolo: Red
  • Anno: 1974
  • Tracklist:
    • Red – 6:20 (musica: Robert Fripp)
    • Fallen Angel – 6:00 (musica: Robert Fripp, John Wetton)
    • One More Red Nightmare – 7:04 (musica: Robert Fripp, John Wetton)
    • Providence – 8:08 (musica: David Cross, Robert Fripp, John Wetton, Bill Bruford)
    • Starless – 12:18 (musica: David Cross, Robert Fripp, John Wetton, Bill Bruford)
  • Formazione:
    • Robert Fripp - chitarra, mellotron
    • John Wetton - basso, voce
    • Bill Bruford - batteria, percussioni

Ordine e progresso

Avete presente il momento in cui l’appassionato medio – simpatico, un centinaio di dischi, le idee talvolta un po’ confuse – tira in ballo la psichedelia degli anni Settanta confondendo l’espansione della coscienza con i virtuosismi? Nonostante il malinteso gli vogliamo bene e, per spiegargli come stanno davvero le cose, di solito suggeriamo ascolti ripetuti di Hatfield and the North e di Pampered Menial.

Entrambi sono album splendidi e, al di là delle differenze di stile, accomunati da uno spirito che ci piace chiamare “senso per la musica progressista”. Un atteggiamento colto e avventuroso che chiarisce quanto il prog – inteso come un’attitudine ricorrente e nefasta improntata al “più è più” – sia faccenda da consegnare alla pattumiera della storia.

A noi interessa la sostanza, non ciò che ossequia l’ego e rappresenta una patologia dalla quale non sono esenti neppure Black Country, New Road e Black Midi, portabandiera del post-rock 2.0 che rinunciano al minimo sindacale di umanità. Quale che sia il genere praticato, la freddezza nuoce all’arte, pertanto ai ragazzi bisognerebbe ricordare l’esempio dei This Heat e, risalendo ancor più indietro, di Van Der Graaf Generator e King Crimson.

Eccoci alla fonte e al punto: cerniera “post” sistemata tra punk e rock, il non gruppo di Robert Fripp è un “a sé” di sconcertante contemporaneità che, concepito in termini progettuali, ha travalicato la retorica della gang rockettara e ancora sorprende per suggestioni sonore profonde e acute.  

Travalicare, ma senza troppa fretta.

Uno dei suoi segreti è il cuore umano che nasconde all’interno ed è responsabile di un raro equilibrio tra avanguardia e umanesimo. L’altro, di segreto, è una singolare ed efficacissima eccentricità bilanciata dove le regole, la loro rottura e la successiva ricostruzione si sostengono a vicenda. Lo trovate lì il cardine dello sperimentalismo che non tramonta mai e, invece di cadere sotto il peso dell’ambizione, la eleva a fondamento.

Di conseguenza, il distinguo di cui sopra è necessario per risolvere in modo costruttivo l’eterna controversia legata al prog. Sarebbe insomma più sensato parlare di underground come si faceva nel ‘68, allorché la psichedelia aveva mutato forma ed espanso la tavolozza disperdendosi in una serie di rivoli non più riconducibili al beat, al blues, al jazz e al folk, che mescolavano con altri ingredienti in qualcosa di indefinibile.

In quel qualcosa pulsa un’autentica sensibilità innovatrice, alla faccia di chi si spacciava per ultramoderno quando pescava nel barocco e nella classica una serietà d’autore che il rock peraltro possedeva. Fortunatamente non è stata solo questione di supponenza, noia e pagliacciate: altrove si puntava ad allargare gli orizzonti, a contaminazioni rigorose che hanno lasciato tracce importanti.

Per esempio quelle impresse dai King Crimson, che vengono allo scoperto nel luglio 1969 in occasione del concerto organizzato dai Rolling Stones a Hyde Park con un’aria che non ha nulla a che vedere né con l’incenso né con lo zolfo. Piuttosto, con l’odore dei libri quando si ammucchiano uno sull’altro, non c’è più posto dove metterli e sei felice lo stesso.

Così, de botto, con molto senso.

È il profumo inebriante di musiche per/da intellettuali che non si chiudono in una torre d’avorio circondati da false sicurezze. Gente che bada al sodo, guarda avanti e sa che la ruggine non dorme mai. Gente che applica la disciplina, però sa anche riderci su mentre spiazza critica e pubblico. Esatto: gente come Robert Fripp.

Alla corte di re Robert

Vi starete forse domandando come mai Red e non In the Court of the Crimson King. Oltre a essere un’opzione meno scontata, è perché il primo LP dei King Crimson oggi risulta più databile. Prima di gridare all’eresia, passate al vaglio la produzione del quinquennio ‘69-‘74, tenendo conto che quella pietra miliare non viene assolutamente sminuita – il contrario, semmai – dalla facilità con la quale possiamo collocarla in un preciso contesto storico e stilistico.

Un contesto che altri lavori viceversa eludono, Red più degli altri per la condizione di punto di arrivo capace di riassumere e precorrere. Poco da stupirsi: Robert Fripp è un genio che ignora la convenzionalità, sia quando inscena buffi siparietti casalinghi con la moglie Toyah Willcox che quando rifiuta di essere considerato leader di una rock band. Ha ragione, ovviamente.

Buon Natale da casa Fripp.

In realtà, Robert incarna l’unico elemento fisso di un’entità sonora senza eguali. Non è solo l’uomo seduto su un curioso sgabello che non canta e maneggia la chitarra con accordature e fraseggi inconsueti. È il centro creativo che tuttavia integra il contributo di chi gli sta accanto in una rete di scambi reciproci, dirigendo una mutevole orchestra con mano lieve però decisa.

Difficile essere più post di così, anche alla luce di un’intelligenza mai ostentata, della fiera indipendenza dalle regole del business e della voglia di mettersi in discussione. Nato nel Dorset sotto il segno del toro, Fripp è un tipo caparbio, paziente e riflessivo. A suo dire, non aveva né orecchio né senso del ritmo ed è stato meglio così, siccome ha seguito regole sue e lo senti forte e chiaro nella musica, diventata un’ossessione da che nel Natale 1957 riceve in regalo una chitarra.

Cambieranno i modelli ma non la poserà più, iniziando presto la tipica trafila di gruppi dove già si distingue spaziando tra rock e jazz. Successivamente, mentre studia storia ed economia e i tempi stanno cambiando, si ispira a Beatles e Jimi Hendrix, a Bartók e Dvořák ponendo le basi di Giles, Giles & Fripp, che durano una quindicina di mesi sufficienti a smerciare seicento copie di The Cheerful Insanity of.

Trova l'intruso.

Allestito nell’agosto ’67 con due fratelli, l’ensemble traffica con stravaganti canzoni e ha una struttura aperta. Se la cantante Julie Dyble (appena uscita dai Fairport Convention) si tratterrà poco, contano molto il polistrumentista Ian McDonald e il paroliere Peter Sinfield: infatti, quando a Peter Giles subentra il bassista/cantante Greg Lake, è con costoro che ci si stabilizza cambiando la ragione sociale.

Nel ’69 i King Crimson sgobbano sul repertorio e iniziano a esibirsi lasciando tutti di stucco. A maggior ragione in ottobre, allorché In the Court of the Crimson King sistema le coordinate progressiste con tessiture complesse di grande fluidità, allontanandosi dalla tradizione blues per fare immediatamente scuola grazie alle squadrature ritmiche, alle partiture contorte, a incastri tra hard, jazz e classica tenuti insieme da un’essenzialità che è – e resterà – ignota ai più.  

Equilibri temporanei 

Tra gli estremi dell’articolato schiacciasassi 21st Century Schizoid Man e della dolcezza sospesa di I Talk to The Wind esiste un universo in perenne espansione, che coglie il respiro dell’epoca piazzandosi quinto nella classifica inglese e ventottesimo in America. Nondimeno, stanchi e insoddisfatti, McDonald e Michael Giles se ne vanno e di lì a poco Lake si unisce al circo di Keith Emerson.

In ogni caso, Greg e Michael compaiono su In the Wake of Poseidon, che nel 1970 affronta la transizione in panorami solo in parte riconducibili all’album di debutto. Per forza di cose, la “creatura” è da subito improntata a ininterrotte mutazioni estetiche in parte modellate sui cambi di organico, l’instabilità del quale viene sfruttata abilmente.    

Prova ne sia che, pur con una squadra riformata dall’arrivo del fiatista Mel Collins, del batterista Andy McCulloch e di Gordon Haskell a basso e voce, Robert convoca Keith Tippett, Jon Anderson, Robin Miller, Marc Charig e Nick Evans per Lizard, riuscitissimo saggio di jazz rock cameristico colto e ombroso.

Una delle millemila formazioni / incarnazioni: a voi scoprire quale.

Altro giro, altro rimpasto: in dicembre Ian Wallace e Boz Burrell rimpiazzano McCulloch e Haskell, il paroliere è licenziato (gli subentra Richard Palmer-James) e l’anno dopo Islands si racconta ispirato. Tuttavia, nell’aprile ‘72 Fripp rimane senza compagni di viaggio e i King Crimson paiono finiti. Invece, mentre il prog degenera loro si rigenerano in una favolosa compattezza di stampo art rock.

Il parterre di, ehm… re che la assicura è composto dalla straordinaria sezione rimica di John Wetton e Bill Bruford, dal violinista/tastierista David Cross, dalle percussioni “trovate” di Jamie Muir. Lo strepitoso Larks’ Tongues in Aspic coniuga sagacia ed energia in vertici di sperimentazione eguagliati a inizio 1974 da Starless and Bible Black, dove si fa a meno di Muir.

Strumenti che qui carezzano e là ustionano, rumore imbrigliato, poliritmi inafferrabili, impasti stratificati ed eleganti mai autocompiaciuti sboccano in un dinamismo che smonta e ricostruisce il rock dalle fondamenta. Con Robert sulla soglia dei trent’anni, per la storia basterebbe. Eppure, un balzo attende dietro l’angolo verso un futuro ancora più remoto. Immagina? Puoi.

Su, un po' di fantasia!

Incubi in rosso

Immagina di dover fare quadrato – o meglio, triangolo – attorno a musicisti eccelsi che non si pestano i piedi a vicenda. Immagina un fulcro chitarra/basso/batteria impreziosito da misura e attenzione ai dettagli. Immagina una macchina sonora possente però agile, scagliata al di là del progressive da un minimalismo di ampie vedute e infinite possibilità esplorative. Immagina di centrare in pieno le sinapsi dell’ascoltatore e di rivoltarlo come un calzino.

Immagina e otterrai Red, caposaldo insieme astratto e fisico che, tra svariate altre cose, chiude idealmente la prima metà del decennio con una tabula rasa che indica la via ai This Heat, inventa il math rock dei Don Caballero e spinge le radici fino a Slint e Motorpsycho, a Tool e Kurt Cobain. Allievi tra loro differenti che raccolgono il travolgente vigore, un’introspezione inquieta, le configurazioni acuminate e composite, lo sviluppo naturale dell’insieme, i ritmi massicci ma pirotecnici.

Se sai controllarla, la potenza è la base di tutto in ambito rock. Nell’estate 1974, sotto lo sguardo dell’esperto ingegnere del suono George Chkiantz ai londinesi Olympic Studios, Fripp, Wetton e Bruford più ospiti si gettano in un pozzo di rabbia gioiosa e nevrotica. Una foto dell’artwork presenta un indicatore con l’ago sul rosso, ma la verità è ben diversa e appartiene al calibratissimo power trio di furiosi gentiluomini che intrecciano improvvisazioni e parti scritte sapendo quando è ora di fermarsi.

Ne derivano una title track ansiogena che ascende in cerchi concentrici, arrampicandosi su un riff granitico però plastico e su un organismo così slanciato da camuffare l’elaborato telaio, una Fallen Angel in transito da un romanticismo elegiaco e avvolgente a disturbanti labirinti di spigoli e uscite da evitare, la One More Red Nightmare che si ricollega al brano omonimo, cavalcando con eccitazione maniacale un serrato gioco di tensione e rilascio.   

Muscoli e cervello si saldano anche nella dissonante e cupa ambient urbana di Providence che, raccolta sul palco dell’omonima città del Rhode Island, si trasforma in un ribollire astratto prossimo ai Can e a Miles Davis. Starless è capolavoro nel capolavoro: una giostra di frammentazioni armonizzate che sfidano la gravità, atmosfere melanconiche e incantate che Fripp pugnala al cuore con un liricissimo assolo, il crescendo verso convulsioni aggressive e taglienti risolto in una chiusura epica.

Quarant'anni dopo suonava (ancora) così.

Tutto come fosse la cosa più semplice, la più spontanea, la più giusta. Incredulo, riparti da capo e dopo decine di ascolti la magia rimane intatta. Superate le colonne d’Ercole, lo sforzo e l’intensità lasciano sul campo quella che per anni sarà l’ultima incarnazione dei King Crimson, dissoltosi in parallelo alla pubblicazione di Red. Robert Fripp si prende un indaffaratissimo periodo sabbatico: con Brian Eno architetta l’ottimo Evening Star, produce e presta la chitarra a destra e a manca, studia Gurdjieff.

Dopo aver avviato la carriera solista e la League of Gentlemen, non può ignorare a lungo il richiamo della sirena cremisi. Nel 1981, con Bruford, Tony Levin e Adrian Belew avvia una seconda fase con il bellissimo Discipline, strapazzando la new wave in pieno fulgore che gli è non poco debitrice. Sarà l’ultimo apice, il cerchio chiuso come la “O” di un Giotto postmoderno.

Roberto di Bondone.

King Crimson Robert Fripp 

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