Sto leggendo Little Girl Blue, la biografia di Karen Carpenter scritta da Randy Schmidt, che è un po’ il massimo esperto sui Carpenters in circolazione. E mentre leggevo la storia – agghiacciante – di una donna morta a trentadue anni di anoressia nervosa, mi sono accorto di aver dimenticato dove diavolo io abbia scovato il famigerato album solista che la Carpenter incise nel 1979 e che vide la luce solo nel 1996.
Premesso che 1) ho un solo disco dei Carpenters, acquistato su una bancarella dopo aver ascoltato l’omonimo album da solista di Karen Carpenter stessa; 2) non conosco nessuno che ascolti i Carpenters e tantomeno sapesse dell’album da solista della cantante; 3) non si tratta esattamente di musica su cui uno inciampa per caso… Come ci sono arrivato?
Voi mi direte che sono problemi da due lire per una domenica pomeriggio, ma… che diamine, sto parlando di un disco che ho ascoltato almeno una volta alla settimana, negli ultimi quattro anni. Ce l’ho su CD, ce l’ho nella cartella “media” del mio computer, ce l’ho su entrambi i miei lettori MP3. Ne ho una copia masterizzata in macchina. Per questo parlo di ossessione.
(E sì, se proprio lo volete sapere, lo sto ascoltando mentre scrivo questo post)
Da dove, quindi?
Io credo che la colpa sia di Kuwata Keisuke, e della sua cover di I Need to Be in Love. Ora, io sono fondamentalmente convinto che I Need to Be in Love – scritta dal francamente inquietante Richard Carpenter e dal suo compare John Bettis, incisa dai Carpenters nel 1976 – sia una delle cinque canzoni d’amore perfette di tutti i tempi (ok, poi ci facciamo una Top 5), oltre a essere la canzone da rimorchio numero uno in assoluto.
No, davvero: mettetela in un karaoke, fatela cantare anche da un mostriciattolo stonato, e le donne in sala gli tireranno reggiseni e chiavi d’albergo come capitava a Tom Jones. Provateci… È perfetta!
(Sì, ok, lo so che siete mortalmente sofisticati, ascoltate solo eroinomani tedeschi che cantano con i rutti e considerate le canzoni d’amore una cosa da sfigati – ma prendete semplicemente l’accoppiamento di testo e struttura melodica…)
Così, Kuwata-san l’aveva rifatta durante uno dei suoi concerti a favore della raccolta di fondi per la lotta all’AIDS (il pezzo è famoso perché in Giappone – dove comunque c’è ancora un forte seguito per i Carpenters – l’avevano usata come canzone dei titoli per un popolare dramma televisivo), io l’avevo sentita e avevo fatto una ricerca, inciampando sulla faccenda del disco solista.
(E dannazione, Neil Hannon ha ragione: è l’intonazione… chissenefrega delle parole, è tutto nella voce)
Ecco, così devo aver scoperto la voce di Karen Carpenter.
Seguono quattro anni di ascolto ossessivo.
Dalla biografia, emerge una giovane donna incastrata in una famiglia abbastanza spiacevole, con una madre ostile e invadente (che pare abbia salutato il biografo ufficiale, aprendogli la porta di casa, con la frase «Sappia che io non ho ucciso mia figlia»), e intrappolata in un ruolo musicale che non le permetteva di esprimersi. A lei piaceva suonare la batteria – ma una donna alla batteria, negli anni ’70, era vista come una specie di fenomeno da baraccone.
Avrebbe voluto cantare canzoni un po’ più… humpf, ma madre e fratello praticavano un controllo strettissimo sui testi: solo amore virginale, cuori spezzati ed estasi pseudocattolica, per la povera Karen. Niente di rischioso, niente di vivo, niente di adulto. E se la voce è meravigliosa, testi, costumi e scene sono spesso agghiaccianti.
L’idea, a quanto pare, era che Richard fosse quello che doveva avere successo, e che la sorellina si ostinasse a rubargli la scena – prima suonando i tamburi, e dannatamente bene – poi cantando le canzoni. Cose che una ragazza per bene non avrebbe dovuto fare. Povera Karen.
Pagando di tasca propria, ha fatto poi un disco con quei forsennati dei compagni di merende di Billy Joel, con un’infilata di jazzisti pronti a tutto capitanati da Bob James, relegando il cantante dei Chicago a fare da terza voce nei cori, facendo cover di Paul Simon e riarrangiando come voleva lei i pezzi migliori del catalogo… e loro hanno messo il disco in frigo per 17 anni.
La casa discografica lo aveva giudicato impubblicabile. Quincy Jones aveva provato a dir loro che erano idioti, ma loro non gli avevano dato retta. È stato quello probabilmente l’ultimo chiodo nella sua bara. Ed oggi io sono qui che ascolto quel disco – e mi domando come procurarmi gli undici brani extra che la Carpenter aveva inciso in quella sessione, e che pare circolino su bootleg.
Ossessioni, si diceva.