Il soul è la musica dell’anima, lo spirito di un popolo, un romanzo infinito di drammi, gioia, redenzione. In esso, pochi hanno scritto pagine fondamentali come quelle di Isaac Hayes, l’uomo che ha voluto essere un Mosè nero.
È qualcosa di sottile, una lama che balena fulminea nella coda dell’occhio. La percepisci così all’inizio, mentre sei avvolto dal groove e dalla crema orchestrale, dalla fragranza della camera da letto e dall’odore di asfalto. Ogni elemento intagliato con mano esperta e lieve su tavole della legge indenni allo scorrere del tempo che chiamiamo “dischi imperdibili”. Le ha scolpite un Mosè nero che poteva condurre il suo popolo in una terra promessa solo immaginaria e quindi ha deciso di edificarla su musiche oltremondane.
Siccome esiste un prezzo per ogni cosa, quella lama diventa sempre meno sottile, tracciando un contrasto tra una povertà vissuta in prima persona e la carnalità eterea (non è un ossimoro: ascoltare per credere) di un soul che è stato modern già a cavallo tra anni Sessanta e Settanta, lo resta tuttora e nel frattempo ha cambiato il corso del pop.
Ma non è tutto. Ascolto dopo ascolto, capisci che la ricerca di un equilibrio così magnifico da sembrare incredibile – l’autentica bellezza lascia senza fiato né parole – sia stata per Isaac Hayes una catarsi. Guardandoti dritto negli occhi, questo gigante sta raccontando di come la vita sia dura, di come essendo più duro di lei e lavorando sodo è arrivato in vetta, a riempire il vuoto che ha dovuto sopportare in gioventù.
Puoi cercare di spiegarli anche in questo modo gli archi sontuosi poggiati sulle aperture strumentali e sulla solidità ritmica, le architetture slanciate e la sofisticata sensualità, il vigore del funk e l’aeriforme visionarietà della psichedelia. Come tasselli di un rompicapo che, in un gioco di specchi spontaneo e appassionato, diventa una metafora dell’esistenza. Contraddizioni incluse, certo che sì.
Poco da stupirsi, allora, se il cronachista del ghetto e l’infallibile seduttore sono lo stesso individuo. Del resto, ci troviamo di fronte a un genio che ha sconfitto il destino e non si è fatto travolgere dagli eventi quando quest’ultimo gli ha presentato il conto con interessi da usuraio.
Oltre a esserne uno dei maestri, Isaac Hayes riassume in sé il senso ultimo del soul: accostarsi alla vita per assaporarne il male e il bene, consapevoli che sono facce della stessa moneta. Che entrambe incarnano l’anima di un uomo e lo accompagnano fino all’ora suprema. Qualsiasi cosa accada.
Nato il 20 agosto 1942 a Covington, Tennessee, Isaac Lee Hayes Jr. cresce in condizioni che fanno pensare a un romanzo di Dickens in chiave southern gothic. La madre muore che lui è bimbo, il padre sparisce dalla circolazione e tocca alla nonna materna tirarlo su in condizioni di estrema povertà. La musica rappresenta un’oasi di serenità, che il ragazzino coltiva nel coro della chiesa e imparando a destreggiarsi da autodidatta con pianoforte, organo, flauto e sassofono.
Dovendo far fronte alla situazione di semi-indigenza, abbandona gli studi e riuscirà a diplomarsi ventunenne, rifiutando svariate borse di studio perché ha messo su famiglia e porta a casa il pane esibendosi nei locali di Memphis e sgobbando in fabbrica. Nel 1962 ha in carniere un paio di singoli, è apprezzato session man e, di lì a un biennio, entra alla Stax in qualità di lussuoso rimpiazzo per Booker T.
Lì incontra David Porter, talent scout e autore della casa sin da che era conosciuta con il nome di Satellite. Immediata l’intesa, le loro firme compariranno in calce a duecento – dicasi duecento – canzoni, trascinando in classifica Sam & Dave, Carla e Rufus Thomas, Johnnie Taylor. Arrivati i soldi e la credibilità, Isaac decide di far da sé e nel ’67 debutta con Presenting Isaac Hayes, poco rappresentativa jam messa su nastro dopo una festa natalizia piuttosto animata.
Passano altri due anni, un tragico incidente aereo ci strappa Otis Redding e decima una generazione di musicisti di Memphis, Martin Luther King viene assassinato e Hayes matura una coscienza civile. La rabbia che cova nel profondo gli impedisce di scrivere, finché un giorno non realizza che le canzoni sono l’unica arma a disposizione per fare una differenza. Intanto la Stax ha perso il supporto della Atlantic, deve camminare con le proprie gambe e la bizzarra strategia di rilancio escogitata dal boss Al Bell prevede l’uscita di ventisette (27!) LP nello stesso giorno.
Nel mucchio figura anche Hot Buttered Soul, che consegna Hayes agli annali rappresentando un punto di svolta ineludibile. Una pietra miliare assoluta, quella che nel continuum della black sancisce l’inizio della prevalenza dell’album sul 45 giri proponendo quattro brani per tre quarti d’ora di durata. Gettando ponti tra funk e soul acido, si intrecciano le trame strumentali dei fidati Bar-Kays con levigate orchestrazioni che, invece di scadere nel superfluo abbellimento, sono un elemento strutturale indispensabile che anticipa il Philly Sound e di conseguenza finirà per influenzare la disco e la house. Nientemeno.
Se il secco autografo Hyperbolicsyllabicsesquadalymistic inventa Lenny Kravitz e One Woman è una sontuosa divagazione da crooner, i groove sinuosi e sexy e gli arrangiamenti ricchi però mai svenevoli incantano, facendo scuola da Barry White – eclatante il monologo che porta via la prima metà della fluviale By the Time I Get to Phoenix – fino a hip e trip hop. La tela sonora è dilata ed espansa eppure così finemente cesellata da non poter levare una nota, e nella scaletta abbondano cover che, come accadrà nei lavori successivi, smantellano e ricompongono gli originali partendo dalle loro robuste fondamenta compositive.
Esemplare in tal senso Walk on By, trasposizione del pop aureo di Burt Bacharach in una sinfonia di barocco metropolitano e souledelia dal respiro terrigno e cosmico. Policromo e articolato, fisico e limpidissimo, nel 1969 Hot Buttered Soul suona come nient’altro in circolazione. Nel 2022, come una faccenda rivoluzionaria ed epocale.
Lo spartiacque è di eleganza e intelligenza tali da fare il botto in classifica, spianando la strada al Nostro allorché il look da icona (testa rasata, occhiali da sole, ori e gioielli esibiti con nonchalance, abbigliamento che definire “vistoso” è un eufemismo) ispirerà frotte di futuri gangsta rapper.
Riportando le lancette al 1970, l’uno-due di The Isaac Hayes Movement e …To Be Continued manda definitivamente al tappeto confermando statura e successo. Battendo un ferro “hot” e soprattutto “buttered”, il primo prosegue con passo lento e spazioso centrando apici nella beatlesiana Something, trasfigurata in superba danza di volute sinuose ma tese, nel blues liturgico I Stand Accused, nell’ennesimo scippo a Bacharach di I Just Don’t Know What to Do With Myself.
In …To Be Continued i pezzi salgono a cinque, con menzione d’obbligo per una The Look of Love – ancora Burt, ovviamente – ostaggio di chitarre insieme muscolari e leggiadre, per la magistrale scansione proto-trip hop in jazz di Our Day Will Come, per il classico You’ve Lost That Lovin’ Feelin’ saldato a una Ike’s Mood I in seguito ripescata dai Massive Attack.
A proposito di campionamenti e atmosfere filmiche: secondo titolo da consigliare all’eventuale neofita e asso di un imbattibile poker blaxploitation completato da Superfly di Curtis Mayfield, Trouble Man di Marvin Gaye e Foxy Brown di Willie Hutch, nel ‘71 Shaft straccia in quattro facciate l’omonima pellicola che commenta offrendo anticipi di downtempo, sospensioni easy listening, funk urbano, jazz elettrico, una Theme from Shaft che incalza e travolge a 45 giri, la ballata da manuale Soulsville, i venti minuti magmatici della colossale Do Your Thing. E poi…
E poi Black Moses cristallizza il soul progressista in un altro doppio. Pagando qualcosa in termini di mestiere e fisiologica magniloquenza, brillano la Ike’s Rap II che disegna i fondali dove agiranno Tricky e Portishead, l’efficace intensità di Brand New Me, Man’s Temptation e Part-Time Love, l’appeal dell’arcinota Never Can Say Goodbye, il country tinto d’ebano For the Good Times. Con fin troppi imitatori in circolazione, l’unico e solo Mr. Hayes mette il punto alla sua carriera con atteggiamento messianico. Se lo può permettere eccome.
In cima al mondo hai un problema: più in alto di così non potrai arrivare e, quando altri prenderanno il tuo posto, il rischio è rovinare a terra e rotolare nella polvere. Non così il nostro uomo, che conserva la dignità pur spegnendosi artisticamente in una serie di album via via più fiacchi. Annotazione che vale per l’autocelebrativo Live at the Sahara Tahoe, certo non per l’apprezzabile Joy e per le colonne sonore Tough Guys e Truck Turner che si sistemano nella coda della cometa funk.
Tuttavia, la disco music incombe, bisogna inventarsi altro oppure giocare di rimessa. Isaac deve affrontare preoccupazioni quotidiane che, sommate a un’inventiva in netto calando, impediscono di reinventarsi: a metà del decennio, il rapporto con una Stax indebitata fino al collo è in frantumi e le parti raggiungono un accordo che permette all’artista di svincolarsi dal contratto e fondare il marchio Hot Buttered Soul, distribuito dalla ABC.
Comunque poca roba il risultato: Chocolate Chip soccombe al manierismo, Disco Connection cavalca la moda senza verve, Groove-a-thon e Juicy Fruit campano di rendita. Di mezzo ci si mettono poi un management inefficace, l’acquisto fallimentare di una squadra di basket e seccature affaristiche che culminano in una bancarotta. Nel 1977 Isaac ha perso la casa e i diritti sui dischi, ma non va meglio sotto il profilo creativo, poiché dopo il passaggio a Polydor e CBS quanto esce fino a fine anni ‘80 merita un sostanziale oblio.
Ripreso fiato dal punto di vista economico, Isaac si ritira per un po’ concentrandosi sulla recitazione e aderendo a Scientology. Tuttavia, se i discendenti continuano a glorificarti con parole e fatti, prima o poi devi esporti: grazie all’ascesa dell’hip hop, è considerato un padrino del genere e nel 1995 torna con due album che si spartiscono il lato strumentale e quello orientato verso le canzoni.
Almeno teoricamente, dal momento che nella prassi Branded e Raw and Refined mescolano le carte per cogliere l’essenza di uno stile multiforme. Il cerchio si chiude con classe e ispirazione più che apprezzabili, perché nessuno “interpreta” Isaac Hayes meglio di se stesso.
Dopo quello che sarà un inconsapevole addio, Isaac presta la voce al personaggio di Chef in South Park, compare nel remake di Shaft e aiuta l’esordiente Alicia Keys. Indaffarato fino all’ultimo, nell’agosto 2008 un infarto lo stronca nella sua abitazione di Memphis, là dove la storia ha avuto inizio. Su un fermo immagine da sceneggiatura hollywoodiana, cala il sipario e scrosciano gli applausi.
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