Da più di un quarto di secolo il leader dei Gun Club non è più tra noi, eppure la sua eredità artistica non ha mai smesso di crescere. Figlia di salde radici, è allo stesso tempo classica e iconoclasta. Un’arte oscura e minacciosa, anche, sotto la quale però pulsava un cuore umano.
Con i lineamenti da smarrito Marlon Brando dei bassifondi, Jeffrey Lee Pierce lo davi per spacciato appena ci puntavi sopra gli occhi. Era uno con l’aura fosca di chi non arriva alla vecchiaia e si nega un tramonto in cui, alla maniera di certi bluesmen del Delta, continua sereno a fare ciò che ha sempre fatto. Non era una parte per l’ennesimo “segnato” che trattava il maledettismo – in realtà, un termine vago per faccende più profonde, ineffabili – come fosse un aspetto del quotidiano. Lui e la bestia che teneva chiusa dentro, quella che sentiva il battito del sesso e che accendeva il fuoco dell’amore. La belva che gli stava seduta accanto quando aspettava Satana a un crocicchio.
Come l’amico e discepolo Mark Lanegan, scomparso improvvisamente mentre ultimavamo queste righe, nei confronti del cosiddetto “lato oscuro” Pierce nutriva una specie di orgoglioso fatalismo. Per questo motivo era credibile quando vaneggiava di «Elvis venuti dall’inferno» con voce da invasato, e lo stesso vale per un’arte che immerge in tumultuose acque punk i misteri del blues e i risvolti del sogno americano.
Un’arte che di conseguenza incarna l’ethos di una nazione edificata sulle contraddizioni, priva di storia antica e dunque obbligata a fabbricare mitologie a posteriori. In quello spazio di leggendaria realtà trovate anche la sua scabra poesia, che accosta carnalità e romanticismo, disagio e violenza in un calderone incendiario chiamato non a caso club del fucile.
Viene quasi spontaneo immaginarsi Jeffrey fuori da una casa di tronchi, che ti urla «vattene dalla mia terra!» dopo aver sparato un colpo di avvertimento ad altezza uomo. Oppure attorno a un falò, intento a scambiare perle di saggezza con Cormac McCarthy e a disegnare ritratti di squilibrati che danno del “tu” alla vecchia con la falce. Non possedeva armi perché era una pistola puntata contro se stesso, questo bianco per sbaglio incamminato sul filo del rasoio rimasto schiacciato dalla lotta tra istinto e ragione, da una vita oltre i limiti, dal dolore autoinflitto.
Ma non è per questo che bisogna ricordarlo. A rendere Pierce importante è il lascito artistico, il modello di nuovo tradizionalismo che sputa addosso ai puristi e scalcia e graffia come se non ci fosse un domani. Quel magnifico bastardo definito tribal psychobilly blues e swamp voodoo rock che nelle radici ha scoperto la sincerità, la concretezza e l’iconoclastia del punk.
Tra Hank Williams, Robert Johnson e gli X le affinità sono questione di carne e nervi ma più che altro di spirito. Dischi come Fire of Love e Miami sono qui a dimostrarlo, profumando di un’eterna classicità e maneggiando inquietudini che sono massimi sistemi. Il blues è ovunque, basta saperlo cercare. Anche se può costarti la vita. Anche se dopo che l’hai trovato, potresti non avere più pace.
Questa è una vicenda tormentata e spesso sgradevole, come una lunga penitenza che si risolve nell’unico modo possibile. Su alcuni aneddoti abbiamo preferito soprassedere: detestiamo il sensazionalismo fine a se stesso che non racconta nulla sull’artista e, benché l’essere umano abbia fatto ogni cosa per dissipare il suo indiscutibile talento, siamo dell’opinione che gli ambiti debbano essere separati, sempre e comunque. Se non altro, per giustizia verso ciò che davvero conta.
Il ventisette giugno 1958, all’ospedale di Montebello, California, la signora Margie mette al mondo Jeffrey Lee. Il marito Robert lavora al Sindacato elettricisti, sono democratici di stampo kennediano e risiedono nel sobborgo di El Monte, contea di Los Angeles. L’esistenza quieta del pargolo è ravvivata nel ’61 dalla sorella Jacqui e da mamma che gli trasmette la passione per la beat generation e per il jazz.
A dieci anni Jeffrey imbraccia la chitarra, apprende i rudimenti della batteria e da adolescente preferisce la scuola di recitazione. Mentre frequenta l’università, capisce che sta sprecando tempo ed energie. Nel frattempo la musica (la venerazione per Bob Marley il primo sintomo del “vorrei la pelle nera”, laddove il glam sarà utile per modellare l’immagine) ha scalzato le ambizioni attoriali.
Attorno al 1977 affronta il divorzio dei genitori, traslocando con la madre e gettandosi a capofitto nelle sue passioni: ventunenne, lavora alla Bomp! del compianto Greg Shaw, firma articoli per la fanzine Slash, trattando con competenza di rockabilly, blues prebellico e reggae e fonda il fan club dei Blondie. I primi passi sono claudicanti, ma non importa se i Cyclones durano solo un concerto di spalla alle Go-Go’s e i Red Light, che trafficano con il power pop, sono giusto un filo più concreti. In questa fase Pierce è un randagio in cerca d’identità che a New York diventa amico di Deborah Harry e Chris Stein, visita la Giamaica e la Louisiana e infine torna a casa.
Al bandolo di suggestioni che ha intrecciato serve un catalizzatore e il destino lo offre nelle sembianze del mezzosangue latino Brian Tristan, un ammiratore dei Ramones che si fa chiamare Kid “Congo” Powers con il quale l’intesa è immediata. In comune hanno un’educazione sonora da autodidatti, l’amore per l’avanguardia e il passato, un approccio che antepone l’espressività alla tecnica. Jeffrey spiega l’idea meravigliosa che ha in testa mettendo in mano al ragazzo una copia di Cut delle Slits e un paio di 33 giri di Bo Diddley: abbozzato un progetto, il ponte tra epoche e stili che punta a superare l’ortodossia punk viene allestito con il bassista Don Snowden e Brad Dunning dietro tamburi e piatti.
Di nome fanno Creeping Ritual, si distinguono per un estro che dal country porta a Ornette Coleman tramite War e Marvin Gaye e nell’aprile 1980 cambiano definitivamente nome e sezione ritmica, prelevata direttamente dai disciolti Bags. È la svolta: con Terry Graham e Rob Ritter, i Gun Club compiono il definitivo salto di qualità, anche se a novembre Kid entra nei Cramps.
La separazione è amichevole, ciò nonostante fa un certo effetto rilevare che il rimpiazzo avesse in precedenza sostenuto un provino alla corte di Lux Interior e Poison Ivy. Per Ward Dotson è un’ulteriore raccomandazione che si aggiunge alla bravura con la quale suona la slide e alla conoscenza di blues e Sixties rock. Trovata l’ultima pietra angolare, l’edificio si cementa con la fitta attività concertistica e le idee sono chiare al punto che, al momento di fissare qualche canzone su vinile, si pensa a un formato più corposo del solito 45 giri.
Completati sei brani, si scopre però che l’etichetta designata è rimasta senza denaro e non può stampare il disco. Fortuna vuole che dal cielo cada un’offerta della Slash, la quale pagherebbe di buon grado le ore extra in studio necessarie per un minutaggio da album, a patto che esso veda la luce per la sussidiaria Ruby, gestita da un Chris D. pronto a fungere da produttore. Così sarà.
Inciso in diretta con un budget risicato però mettendoci tutta la cura possibile, Fire of Love irrompe nell’estate 1981 con fattezze inedite e conturbanti. Una lama passata con perizia sulla giugulare fondendo punk, rockabilly, country e blues con un piglio da peggio gioventù, irascibile e sfacciata, come spiegano con dovizia di particolari Preachin’ the Blues, convulso gioco di pieni e vuoti dove Robert Johnson risale dagli inferi e non fa prigionieri, lo sferragliante primitivismo di un’attualissima Sex Beat e la Cool Drink of Water di Tommy Johnson bistrattata tra narcosi e desolazione.
In un clima di irresistibile ambiguità, sfilano inoltre il febbrile punk blues For the Love of Ivy e una Promise Me dall’incedere stravolto su violino che scortica come una versione sudista dei Velvet Underground, i Suicide che imbracciano le chitarre per Ghost on the Highway, Black Train e Goodbye Johnny, l’esaltazione furibonda di She Is Like Heroin to Me, Fire Spirit e Jack on Fire che distilla la linfa di Dream Syndicate e Violent Femmes, di Pixies e White Stripes, del roots punk anni ’90 e di David Eugene Edwards.
Incredibile che l’ingegno sregolato che di tanta magnificenza è il responsabile principale ritenga approssimativo l’esito e sia ai ferri corti con l’etichetta. Il paradosso vivente che alterna le decisioni tiranniche alla manipolazione chiede asilo alla Animal di Chris Stein e i Gun Club varcano nell’82 la soglia del Blank Tape, un angusto studio newyorchese che avvolge Miami di un fascino claustrofobico. Oltre a non rifugiarsi nella fotocopia dell’esordio, il secondo 33 giri attesta la maturazione vocale del leader, lima qualche spigolo mantenendo tiro e personalità (ascoltare per credere A Devil in the Woods e Like Calling up Thunder) e accentua le influenze country in una tesa Texas Serenade e negli indimenticabili gioielli Carry Home e Mother of Earth.
Calato in un’atmosfera oppiacea, il quartetto salda il conto con il passato nella psicotica, martellante cover di Run through the Jungle, si appropria con meditata frenesia del traditional folk John Hardy e rallenta il rockabilly di Jody Reynolds The Fire of Love in un anticipo di Jon Spencer Blues Explosion. L’equilibrio tra irruenza e metodo trabocca invece dalla smania di Bad Indian, dall’ombrosa Brother and Sister e dal crooner inacidito della magistrale Watermelon Man.
Uno splendore che induce a pronosticare onori e qualche dollaro in più, Miami. Se non che, quando giunge nei negozi Ritter ha già salutato, in copertina i volti sono tre e il torvo capobanda offusca compari rivolti altrove e presto fuori gioco per la solita storia dei galli e del pollaio. Prima di andarsene, Rob ha comunque istruito a dovere Patricia Morrison, maliarda goth e altra ex Bags che si aggiunge al chitarrista Jim Duckworth e al batterista Dee Pop nella nuova formazione che figura sul mini-LP Death Party, in cui brillano una compatta title track e la raffinata The House on Highland Avenue.
Verso la fine del 1983 Duckworth e Dee gettano la spugna, Graham e Powers rientrano nei ranghi e l’anno seguente The Las Vegas Story dipinge il cupo affresco di un’America matrigna, segnando un cambiamento nella continuità che, sistemata la foga sotto pelle, incanala il clima della città che lo battezza in suoni più lucidi, densi, odorosi di decadenza. Dell’ultimo lavoro irrinunciabile della band piacciono il tambureggiante inno Walking with the Beast, una The Creator Has a Master Plan di Pharaoh Sanders compressa in cento secondi, la trascinante Eternally Is Here e un’evocativa Give Up the Sun.
Se The Stranger in Our Town è un’esagitata corsa nel buio, My Dreams fotografa un’ipotesi di Joy Division a stelle e strisce, Secret Fires è il perfetto commiato country folk e le ruvide Bad America e Moonlight Motel mediano vigore e tradizione. Quanto il rifiuto delle convenzioni serva da bussola lo chiarisce My Man’s Gone Now: George Gershwin riletto schiacciando a fondo sul pedale della teatralità come uno strafatto Mark Almond.
Con il clamore suscitato in Inghilterra parrebbe finalmente fatta, invece è l’inizio della fine. Terry abbandona e Pierce trasloca la base operativa a Londra. Durante le festività natalizie, gli presentano la fotografa giapponese Romi Mori ed è amore a prima vista, con conseguente abbandono della vita on the road e dei Gun Club. A metà decennio il solistico Wildweed offre ballate alla Dylan e momenti più concitati che rappresentano un mezzo passo indietro, anche se l’aspetto peggiore della faccenda è un individuo che sta per gettare dal finestrino il senno per correre più svelto verso l’abisso.
Prima della picchiata, Jeffrey illude di potersi assicurare una carriera più che onorevole. Recita poesie con Henry Rollins e Lydia Lunch, compare nell’emozionante album culto I Knew Buffalo Bill accanto a Jeremy Gluck, Nikki Sudden, Epic Soundtracks e Rowland S. Howard e, pur non rinnegando i vizi, nell’86 riapre il Club con la fidanzata al basso e il batterista Nick Sanderson. Le prime esibizioni non sono però benauguranti: Congo si risparmia per i Bad Seeds, gli altri arrancano, intesa e spunti brillano per assenza.
Destano perciò sorpresa in autunno la regia di Robin Guthrie e soprattutto la buona caratura di Mother Juno, del quale si apprezza il rimettersi in gioco malgrado una voce a tratti stanca e qualche episodio opaco. Menzione d’obbligo per la luminescenza Breaking Hands e il convulso quadretto western Hearts, per la serrata My Cousin Kim e la rabbia soffocata di Port of Souls. Il guaio serio sono gli eccessi che mostrano il conto: sulla soglia dei trent’anni, il californiano soffre di cirrosi al fegato e inizia a lasciarsi andare alla deriva. Fatalismo, nel bene e nel male.
Un abboccamento con la Island cade nel vuoto e un colpo di genio prende altre direzioni: l’idea di attualizzare antiche murder ballads avrebbe i crismi del rilancio in grande stile, tuttavia Pierce ne discute con il più determinato Nick Cave e sappiamo com’è andata a finire. Intanto il decennio sfuma sul più morbido Pastoral Hide & Seek e su un discreto standard compositivo di breve durata. Prova ne sia che l’inconcludente Divinity mescola fiacchi episodi in studio e dal vivo allorché Sanderson ha dato forfait per Simon Fish, ovvero il Willie Love che, con Tony Melik alias Cypress Grove, appare nel ’92 su Ramblin’ Jeffrey Lee & Cypress Grove with Willie Love. Non male il secondo lavoro solista di Pierce, in virtù degli originali Stranger in My Heart e Go Tell the Mountain che rialzano la testa e dell’ultimo sprazzo di lucidità, consegnato – quasi fosse un messaggio in bottiglia – a riletture di Charlie Patton, Lightnin’ Hopkins, Howlin’ Wolf e Skip James.
Nei mesi seguenti il Nostro intervalla uscite acustiche e timbrature di cartellino con il gruppo. Quando Congo dice basta, si isola e i casini non si contano più. La lavorazione del mediocrissimo Lucky Jim è un inferno costellato di droga e il resto addirittura peggio: tradita Romi con un’altra fotografa nipponica, nel tragico valzer Jeffrey ci rimette l’amore della vita e la residua voglia di viverla. Scaduto il visto, lascia il Regno Unito e tenta di ricostruirsi una carriera in Giappone, straniero in terra straniera dimenticato dai più e rimpianto da pochi. Non funziona, ovviamente.
Dopo il rimpatrio, a Los Angeles gli amici ricordano un animale ferito, inchiodato al bancone del Viper Room ad aspettare la sua ora come fosse una roba da nulla. Cercano di ricoverarlo, ma è troppo tardi. Il 31 marzo 1997 Jeffrey Lee Pierce cede a un’emorragia cerebrale nello Utah, dove si era recato per visitare il padre. In un giorno d’autunno del 2006, Jacqui sparge nel vento di Kyoto le ceneri del fratello, che adesso ha un nome buddista che significa “colui che vede la saggezza negli altri”. Peccato che, accecato dai fantasmi, non riuscisse a scorgerla in se stesso. Eppure…
Eppure, nel mare di pubblicazioni postume in larghissima parte marginali e/o improntate alla speculazione, un significato profondo lo possiede The Jeffrey Lee Pierce Sessions Project, il tributo in tre volumi (We Are Only Riders, The Journey is Long e Axels & Sockets) curato dall’etichetta Glitterhouse dove artisti di rango appartenenti a diverse generazioni si misurano con la voce dell’uomo, estratta da nastri con demo e inediti. Bello e prezioso, svela un’apparizione che vorresti guardare negli occhi per spiegarle quanto la sua eredità sia importante, tenuta in altissima considerazione, soprattutto capace di cancellare tutto il resto.
In questo mondo ognuno viene e va con il blues addosso, ma è cosa succede nel mezzo che può fare la differenza. Riposa in pace, Ramblin’ man.