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A volte è necessario approfondire. Per capire da dove arriva la musica di oggi, e ipotizzare dove andrà. Per scoprire classici lasciati indietro, per vedere cosa c’è dietro fenomeni popolarissimi o che nessuno ha mai calcolato più di tanto. Queste sono le storie di HVSR.

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Gang of Four: la politica nell'Entertainment!

Anticapitalismo e barbarie.

L’annosa questione del rapporto tra musica e politica è in realtà più semplice di quanto si creda. Come stanno davvero le cose ce l’hanno spiegato benissimo i Gang of Four nel 1979, in un disco d’esordio che si racconta attuale come pochi.

Musica e politica (ma soprattutto musica)

Cultura non è possedere un magazzino ben fornito di notizie, ma è la capacità che la nostra mente ha di comprendere la vita, il posto che vi teniamo, i nostri rapporti con gli altri uomini. (Antonio Gramsci)

Scrivo queste righe mentre al confine orientale dell’Europa è in corso una guerra. Come chiunque, mi confronto con massacri e tragedie indicibili, mi chiedo quando finirà e penso a un pianeta che cerca di liberarsi dei parassiti. Scrivo queste righe sapendo che la radice del problema è nel neoliberismo, corollario di un capitalismo senza freni innescato negli anni Novanta che spegne la ragione e genera mostri. Soprattutto, scrivo queste righe circondato da un crescente incubo di morte e follia del quale non si intravede via d’uscita.

Che fare? Resistere con ogni mezzo necessario, ovviamente. Resistere partendo dai gesti quotidiani, dal mettersi alla prova conservando il senso dell’umano e della civiltà da contrapporre alla barbarie. Questo insegnano Billy Bragg, Hüsker Dü e Gang of Four. Sempre loro tramandano che la retorica è una zavorra e le vere rivoluzioni iniziano ogni mattina tra le mura di casa, quando nel brusio del nuovo giorno ti trovi davanti te stesso. Quando, in quel breve spazio amniotico, ti confronti con quello che sei e potresti essere. Quando comprendi che la tua vita è intrecciata a migliaia di altre.

In un’accezione profondamente umanista, tutto ciò che ci riguarda è politico. L’arte prima di tutto. Questo è il lascito più importante del primo 33 giri dei Gang of Four: l’idea che la musica sia un mezzo di narrazione critica per mettere in discussione – se non addirittura in crisi – i dogmi che la società ci cala sugli occhi all’insegna del «produci, consuma, crepa». Un gesto coraggioso, poiché spingersi oltre la propaganda e gli slogan costa fatica ma rappresenta la chiave che può aprire molte porte, per prime quelle nella nostra testa.

Situazionismo tra indiani e cowboy.

Le canzoni che si misurano con la politica dovrebbero infatti tentare di smantellare la graticola di assiomi scontati e schermi preordinati contro la quale lottava Antonio Gramsci. Sistemando nel mezzo oasi di poesia, dovrebbero sposare danza e militanza ed è esattamente lì la forza di Entertainment!, che si ispira al Situazionismo e a Jean-Luc Godard, a Marx e a Brecht. Ma anche al pub rock, al reggae, al funk.

Per questo, anche se è uscito nel 1979 suona assolutamente contemporaneo non solo nelle forme. La sua grandezza sta anche in contenuti che, scansando l’astrattismo ideologico, allargano il campo dal personale all’universale, i quali si con-fondono e si completano come il mezzo e il messaggio. Puoi pensare ma anche ballare, mentre le canzoni pongono delle domande e, invece di fornire risposte preconfezionate, analizzano l’esperienza individuale.

Partendo spesso dai sentimenti, spiegano che siamo ingranaggi di una rete di relazioni antropiche e soltanto dopo del sistema. Che alla prima apparteniamo per natura e l’altro è un’imposizione violenta. Di ciò i Gang of Four erano consapevoli, come del fatto che “progresso” significa rispettarsi a vicenda e osare. Entertainment! è un capolavoro da ascoltare e leggere perché, al di là della musica magnifica che contiene, dimostra in che misura il personale sia politico e viceversa. E se è vero che prima o poi l’establishment ingoia tutto, fargli andare qualcosa di traverso è un nostro diritto. Anzi: un dovere.

Scansarsi in tempo quando ti tirano dietro il capitalismo.

Essenze rare

Un giorno come tanti del 1977, all’università di Leeds l’occhio di Dave Allen cade sull’inserzione di una band di rivvum and blues veloce che cerca un bassista. Il gruppo ha tenuto qualche concerto e il cantante Jon King, il chitarrista Andy Gill e il batterista Hugo Burnham intendono continuare con un elemento stabile. Lo hanno appena trovato. L’amicizia tra Gill e King risale alla scuola superiore di Sevenoaks, nel Kent. Ora, appena superati i vent’anni, frequentano il Dipartimento di belle arti dell’ateneo di Leeds, un ambiente progressista che funge da terreno fertile anche per Mekons e Delta 5, che come i Gang of Four trafficano con la black e assumono posizioni politiche nette.

Fanno base al Fenton, un pub sinistroide e bohémien dove discutono di arte e politica. Di tante idee, la più chiara è partire dall’attitudine del punk per realizzarne il “dopo” con una ricetta minimale però attenta alle sfumature. Un meccanismo calibrato e oliato alla perfezione, nel quale ognuno (come spiega il nome “democratico”, peraltro riferito alla fazione maoista che deteneva il potere nella Cina anni ‘70) ha pari valore e si somma agli altri in una chimica irripetibile.

Fiori, birra e musica dal vivo: what else?

Seguendo i situazionisti, si rimuovono elementi familiari dal contesto originale per sovvertirne il significato: un funk angolare e dinamico è riletto alla luce del ’77, irrobustito con il piglio dei Dr. FeelgoodWilko Johnson un modello dichiarato per Gill – e colorato da un gusto arty per la contaminazione tra i generi. Intessuta a ritmiche insieme possenti ed elastiche, la chitarra guizza e scalcia e sparge cocci aguzzi. Affidandosi a un impassibile amplificatore a transistor, si porge seccamente funky, spalanca tempeste rumoriste, scompare in varchi di falso vuoto che suggeriscono ipotesi dub dei Free. La voce declama, insegue il basso e consegna le melodie a ritornelli esplosivi. Talvolta, lungo gli anfratti fa capolino una melodica reggae.

Come tutta la grande arte, è musica che risolve i contrasti in un equilibrio unico. Un equilibrio splendido sin dal singolo di debutto, edito dall’indipendente Fast Product nel dicembre del ’78. Se Damaged Goods è inno di memorabilità pari all’impatto e all’articolazione delle quali gode, e la minore Armalite Rifle un r’n’r sbilenco con echi di Clash, stupisce la fisicità astratta di Anthrax, che dopo novanta secondi di feedback molla la briglia a un stranito funk wave in tempo medio, al fiammeggiare della chitarra, a King e Gill che duettano con le parole come i Velvet Underground di The Murder Mystery.

La chitarra guizza e scalcia e sparge cocci aguzzi, il resto prova a non farsi troppo male.

Con la differenza che, al posto del surrealismo, paragonano l’amore a una sostanza nociva ed espongono le risorse tecniche impiegate per l’incisione. All’introspezione calata nel sociale risponde la quarta parete che viene giù come nei film di Godard. In tempi meravigliosi può darsi che un fulgido esempio di arguzia centri la vetta della classifica indie, che John Peel lo trasmetta a ripetizione e convochi i Nostri per le esaltanti esibizioni radiofoniche recuperate dalle Peel Sessions, che i concerti siano sempre più gremiti.

All’apice del clamore, il capo dell’etichetta Bob Last suggerisce di vagliare le offerte delle major e rivolgersi a un pubblico più ampio. La EMI si aggiudica il gruppo - in America, la Warner - e nel maggio 1979 At Home He’s a Tourist / It’s Her Factory non mostra alcun compromesso, recapitando la fenomenale mutant disco scarnificata tra macerie dub e schegge chitarristiche e una polaroid in cui i Public Image Limited osservano la funky Kingston con velato ottimismo. I problemi sorgono quando si cerca di spingere il pezzo a Top of the Pops e nel testo i ragazzi rifiutano di cambiare la parola “preservativo”. La BBC bandisce, alla multinazionale capiscono di avere in casa una tigre dalle zanne aguzze e il rapporto si incrina.

Che noia le major, che barba il politically correct!

La solidità dell'oro

Questioni di poco conto spazzate via da Entertainment!, la cui importanza viene immediatamente colta dalla critica e l’influenza del quale può essere spiegata stilando una semplice lista di seguaci, che dai Red Hot Chili Peppers (prodotti a inizio carriera da Gill, seppur con esiti deludenti) giunge fino a Squid e Shame, passando per Minutemen, Fugazi, Henry Rollins, Rage Against the Machine, Kurt Cobain, R.E.M., Steve Albini, Liars e decine di altri.

Suggerimenti per la comunicazione di massa.

Tutti adorano la creatività fragorosa che straccia presunte antitesi sin dal titolo, in cui un perentorio punto esclamativo unisce impegno e intrattenimento annunciando che la descrizione della realtà non rinuncia alla poesia. La copertina, curata da King, è un détournement che, tramite un fotogramma di un film western trattato fino a cancellarne i tratti somatici, riduce le persone a stereotipi razziali/culturali. Così trasforma il rapporto tra cowboy e indiani in una metafora più ampia, mentre i commenti sottostanti rivelano un rapporto in cui il gesto cordiale nasconde inganno e sfruttamento. Per il capitalismo, insomma, siamo tutti pellerossa.

Nella busta interna, una serie di televisori contiene immagini accoppiate a frasi apparentemente slegate come «presentiamo i fatti in modo neutro affinché il pubblico giudichi da solo» e «diamo alla gente ciò che desidera», laddove le liriche trattano di reificazione, di sessualità e non-amore, del ruolo delle masse nella storia, di un’attualità di repressione restituita con vivide simbologie. Quando in 5.45 il rituale del tè soccombe alla guerra spettacolarizzata in televisione, l’incredibile modernità di quello che non è un “semplice” disco ti ghiaccia il sangue.

Sky's the limit.

Aspetti che conterebbero poco o nulla se nei solchi di Entertainment! non sfilassero dodici gemme, una più sfavillante dell’altra. Apre i giochi il manifesto Ether: ossatura battente, voci in chiamata e risposta rhythm’n’blues, Gill che pilota un magistrale saliscendi di tensione. Alternando stop e ripartenze, Natural’s Not in It appoggia un riff di elementare efficacia e una cantilena appiccicosa su sagaci geometrie, la circolare Not Great Men avvolge un post-soul in vapori dub, Damaged Goods e At Home He’s a Tourist sono di caratura troppo elevata per restare escluse e l’orecchiabile vigore di Return the Gift sparge paranoia in discoteca.

Il riassunto stilistico Guns Before Butter è un sigillo di facciata perfetto tanto quanto la sferragliante I Found That Essence Rare che inaugura il lato B saldando il conto con il punk. Glass mescola i DNA di XTC e Wire, Contract immagina James Brown in abiti cubisti, 5.45 si porge insieme slanciata e tagliente e Anthrax splende in una versione riregistrata, nella quale uno dei monologhi ragiona sulla funzione delle canzoni d’amore nel pop. Nel settembre 1979 Entertainment! raggiunge la quarantacinquesima piazza in Inghilterra e la trentanovesima in Australia. Tempi meravigliosi, oh sì.

Paralizzati in se stessi

Dopo un paio di tour statunitensi in cui la banda fa legioni di proseliti, nel marzo 1981 Solid Gold non cede di un passo in termini di impegno, però svolta verso toni riflessivi e un impasto meno spigoloso. Gesto convincente, persino esaltante nel sinistro ticchettare di Paralysed e nella gotica What We All Want, nella contorta Why Theory? e in una He’d Send in the Army lydoniana senza decadentismo. Altrove, Outside the Trains Don’t Run on Time e A Hole in the Wallet lucidano la pista da ballo per Sandinista! e in Cheeseburger e The Republic funk rima con post-punk.

Dimostrazioni che ci si può aprire alla linearità mantenendo standard elevati.  Un’illusione, purtroppo. Restano ancora energie per il pregevole EP Another Day / Another Dollar, con la cupa Capital (It Fails Us Now) e una To Hell with Poverty! che si mangia in un boccone Rapture e compagnia. Intanto Allen ha lasciato per fondare gli Shriekback e dal giro di Robert Fripp arriva Sara Lee. Come Scritti Politti e A Certain Ratio, i Gang of Four si conformano al new pop nel discreto Songs of the Free, che rinuncia quasi totalmente a nervi e asprezze e ottiene una piccola hit con il sinuoso sarcasmo di I Love a Man in a Uniform.

«To have ambition was my ambition» – una dichiarazione d'intenti.

Mai un buon segno, però, quando inizi a perdere pezzi: significa che gli equilibri sono (stati) alterati e difficilmente la magia si conserverà. Nella primavera ’83 anche Burnham se ne va, Hard è imbarazzante e lo scioglimento una prima conclusione naturale. La Gang ricompare dimezzata nel 1991 con la trascurabile vena elettronica di Mall e, nel volgere di altri quattro anni, con l’irrilevante Shrinkwrapped.

Segue un ulteriore rompete le righe fino al nuovo millennio, quando il revival new wave e la pletora di figliocci in circolazione suggeriscono alla formazione originale di tornare in azione dal vivo e con un album di classici riverniciati. L’accanimento terapeutico prosegue con continui cambi d’organico e un tris di dischi tra l’inutile e il fastidioso, poi al comando resta solo Andy Gill, scomparso per un problema respiratorio nel febbraio 2020 e chissà che non c’entri la trasferta cinese di pochi mesi prima.

A questo punto piacerebbe annotare che la questione sia consegnata una volta per tutte agli archivi. Figurarsi: nel 2021 la Matador ha pubblicato il lussuoso cofanetto 77-81 e pochi mesi fa l’ennesima incarnazione dei Gang of Four (King, Burnham, la Lee, l’ex Slint David Pajo alla chitarra) ha tenuto una serie di concerti in terra americana. Qualcuno, per favore, dica loro di smettere.  

Gang of Four Andy Gill Dave Allen Jon King Hugo Burnham Dr. Feelgood Wilko Johnson Clash Public Image Ltd. 

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