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Una volta alla settimana compiliamo una playlist di tracce che (secondo noi) vale davvero la pena sentire, scelte tra tutte le novità in uscita.

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... Tutte le tracce che abbiamo recensito dal 2016 ad oggi. Buon ascolto.

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A volte è necessario approfondire. Per capire da dove arriva la musica di oggi, e ipotizzare dove andrà. Per scoprire classici lasciati indietro, per vedere cosa c’è dietro fenomeni popolarissimi o che nessuno ha mai calcolato più di tanto. Queste sono le storie di HVSR.

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Fantastic Negrito: l’artista che visse due volte

Il suo non è solo blues: e in ogni caso, lui lo suona come nessun altro.

Scopriremo a mesi se la sua collezione di Grammy si arricchirà del quarto. Per intanto, se è dell’uomo nato Xavier Amin Dphrepaulezz che si parla, a contarne le vite lo diremmo nel pieno della quinta. Fosse un gatto, gliene avanzerebbero comunque quattro.

Il ragazzo che volle farsi Principe

Siccome con l’alias che gli ha regalato la fama esordiva nel 2014, con un mini, e non dava alle stampe il primo album che nel 2016, ci viene naturale pensare a Fantastic Negrito come a un giovincello, quando il prossimo 20 gennaio spegnerà cinquantacinque candeline. Giusto una settimana prima di Tricky, che, collaborando a Blue Lines, inscriveva per la prima volta il suo nome nel Grande Libro della Popular Music trentun anni fa, e di Mike Patton, che nel 1991 da un pezzo era una rockstar. Del Nostro, Wikipedia certifica che nasceva nel Massachusetts, ottavo di quindici figli. Altre fonti lo confermano ottavo ma di quattordici e ci informano che il padre, musulmano di stretta osservanza di origini somale, era già sessantatreenne quando Xavier vedeva la luce.

Sia come sia: la famigliona si trasferiva a Oakland nel 1979 e da lì a breve l’appena dodicenne lasciava la scuola per la strada. Sottratto alla patria potestà dagli assistenti sociali, passava da un affido all’altro e a fargli scampare il riformatorio erano una donna di nome Rose dal gran cuore e dal destino prematuramente segnato (morirà di cancro; è dedicata a lei She Don’t Cry No More, bonus in un’edizione Deluxe datata 2017 del Fantastic Negrito EP) e una fortuna sfacciata. Manco un arresto, nonostante lo spaccio di erba fosse la sua principale fonte di introiti, seguita per arrotondare dai furti in appartamento. Fintanto che un componente di un’altra gang non gli punterà una pistola in faccia per rapinarlo. E allora ciao Oakland.

Frequentando la piccola scena punk locale, assistendo allo sboccio dell’hip hop, si era nel frattempo innamorato della musica. A imprimere una svolta decisiva alla sua traiettoria esistenziale era in ogni caso altro, un album del 1980 ascoltato in differita. Titolo: Dirty Mind. Autore: Prince. Apprendendo sbalordito che costui aveva fatto tutto da sé, e da autodidatta, e che era il pianoforte il primo strumento su cui aveva messo le mani, decideva che ne avrebbe seguito l’esempio.

The Artist Formerly Known as Xavier Amin Dphrepaulezz.

Falsa partenza

Ingegnoso lo stratagemma ideato per frequentare corsi il cui costo non avrebbe mai potuto permettersi presso la University of California, Berkeley. Si faceva crescere due bei basettoni per regalarsi nell’aspetto qualche anno più dei non ancora diciotto che aveva e vestito con sobria eleganza ogni mattina si presentava a lezione. Prendendo appunti, memorizzando gli esercizi al piano degli allievi e cercandosi al pomeriggio un’aula vuota in cui ripeterli, si impadroniva in fretta dei rudimenti dello strumento e subito scriveva le prime canzoni. Spostatosi a Los Angeles in primis per porre un bel po’ di miglia fra sé e la precedente vita spericolata e in seconda istanza per cercare opportunità lavorative, imparava poi in fretta l’abc dello studio di registrazione e ne approfittava per incidere dei demo.

Passerà tuttavia parecchio prima che uno capiti nelle mani giuste e provvederà un amico a farcelo arrivare. Caddie al Bel-Air Country Club, lo allungava a Joe Ruffalo, ex manager indovinate un po’ di chi… esatto: di Prince… che a sua volta lo girava a Jimmi Iovine. Autentica leggenda della discografia (in curriculum collaborazioni con John Lennon, Bruce Springsteen, Patti Smith, Tom Petty, Dire Straits, Graham Parker, U2, Simple Minds e Pretenders), Iovine convinceva la Interscope a ingaggiare il giovanotto. Si era già fatto il 1993 e per ascoltare il primo album di Xavier (e basta, per via dell’impronunciabile cognome) bisognerà attendere il 1996, inizio gennaio, una decina di giorni prima del ventottesimo compleanno dell’artefice.

Grafica orribile, mai ristampato (ma se volete togliervi lo sfizio di possederlo in formato fisico vi costerà più la spedizione del disco) e neppure disponibile su Spotify (un omonimo album di un omonimo è una robaccia country; nulla a che vedere), The X Factor è una raccolta onesta e modesta di rhythm’n’blues moderno ma non troppo. Innervato qui di Philly Sound (Without You), un attimo dopo di flemmatico funk (Purely Sexuel), più avanti ancora di blues (Angel of Mercy) come di latin jazz (Life in da City, Part I; qui anche un tocco di gospel), diviso fra ballate sentimentali (Gentle Screamer, The Good Kiss of Love; Cinnamon Girl, che però poi sterza crossover) e brani ritmicamente più accesi (Rainy Weather, Lucky 7). L’autore non manca di estro (che ci azzecchi quello che pare un clavicembalo di impronta barocca nella sbandata in area reggaeton di Slow Boogie solo lui lo sapeva, ma se lo sarà probabilmente scordato) e nondimeno è la scarsa originalità a fare mediocre un’operina anche gradevole.

Però però però… Nella canzone scelta come singolo, Saturday Song, e nella clip che la correda Xavier è già 100% Fantastic Negrito: nello spartito; nella polemica politica che prende di mira povertà e violenza diffuse.

Diner, pistole, pancake, poliziotti incazzati e manifestanti ancora più incazzati: è l'America, baby.

Diversi tipi di investimento

The X Factor vende pochissimo, nonostante nel tour che lo promuove il titolare suoni di spalla a Fugees, De La Soul, Arrested Development. Non ne è contenta la Interscope, che persuasa di avere scoperto indovinate un po’… esatto: il nuovo Prince… aveva investito nell’operazione una cifra a sei zeri. Non ne è contento l’artista, che si è sentito all’inizio manipolato e in seguito abbandonato a sé stesso. L’etichetta sarebbe nondimeno pure disposta a riprovarci prima di mollare il colpo, mentre è il nostro uomo a non esserne convinto. Trascorrono tre anni senza che nulla accada, fino alla fatale sera del 1999 in cui, fresco di celebrazioni per la festa del Ringraziamento, un automobilista ubriaco passando un incrocio con il rosso centra in pieno la vettura guidata da Xavier. Quando tre settimane dopo esce dal coma il quasi trentaduenne scopre nell’ordine che: 1) gli è cresciuta una bella barba, che non taglierà più; 2) ha perso l’uso di entrambe le mani (dopo svariati mesi di fisioterapia recupererà appieno la funzionalità della sinistra, parzialmente quella della destra); 3) la Interscope ha colto l’occasione per rescindere il contratto. «Free at last! Free at last! Thank God Almighty, I’m free at last!» (1) Ma a che prezzo…

The Artist Formerly Known as Martin Luther King.

Avrete inteso: al protagonista di questa storia non difetta lo spirito di iniziativa. Una volta al mese organizza epici party a pagamento nel loft di quasi trecento metri quadrati acquistato con i soldi avanzati dagli anni trascorsi chez Interscope e con i proventi si paga di che vivere e andare in tour a più riprese in Europa con una teoria di band (Chocolate Butterfly, Blood Sugar X, Me and This Japanese Guy) delle quali non sono rimasti che i nomi e i ricordi di chi assistette a qualche spettacolo. Non potendo ovviamente più suonare il pianoforte è passato alla chitarra e una chitarra è l’unico strumento che porta con sé quando, avendo fallito nell’impresa di trovare l’America nel Vecchio Continente ed essendosi stancato di Los Angeles, torna a Oakland in compagnia della donna che ha sposato.

Chi può negare che gli USA, per quanti problemi abbiano, siano la Terra delle Opportunità? Xavier Amin Dphrepaulezz riprende a guadagnarsi il pane principalmente vendendo ganja ma stavolta è tutto perfettamente legale, trattandosi di marijuana farmaceutica che lui stesso coltiva. Ha rinunciato alla musica, perlomeno da esecutore giacché da ascoltatore si è appassionato a quel blues che conosceva sin da piccolo ma aveva sempre un po’ disdegnato, pensandolo obsoleto e un’eredità dell’epoca della schiavitù. La chitarra giace abbandonata in un angolo del salotto fino al fatidico giorno in cui, non sapendo più che inventarsi per far smettere di piangere il primogenito, la imbraccia e ne trae un unico accordo, di Sol. Un sorriso illumina istantaneamente il viso del bimbo. Da quella sera per farlo addormentare gli canterà e suonerà i Beatles. Across the Universe, per cominciare. Da lì a rimettersi a comporre è un attimo.

Le nuove canzoni vengono testate nella galleria d’arte che ha appena aperto (già annotato che è uno cui non difetta lo spirito di iniziativa?), in vari ristoranti e per le strade della stessa Oakland e in occasionali puntate a San Francisco. A fine 2014 si iscrive a un concorso della NPR con un video in cui, accompagnato da un chitarrista, un contrabbassista e una percussionista, canta in quello che pare un angolo di officina il neo-spiritual Lost in a Crowd. Partecipano in settemila. Vince lui.

Working Class Hero.

Come se non ci fosse uno ieri

Nel Fantastic Negrito EP, che arriva nei negozi il 30 settembre 2014 griffato Blackball Universe, marchio di proprietà dell’artista stesso, Lost in a Crowd non figura. Probabilmente esclusa per via dell’eccessiva somiglianza sia a Night Has Turned to Day, dagli accenti analoghi ma con un piano che le evita di parere una outtake di O Brother, Where Art Thou?, che alla stantuffante cantilena legata dall’organo It’s A Long, Long Road. Esibiscono al confronto una relativa modernità le ballate Nobody Makes Money, che pencola verso il soul, e The Time Has Come, solo pianoforte e voce e romanticissima nella prima versione sporta quanto smaccatamente “Stax” (avrebbe potuto cantarla Otis Redding) nella Reprise che, dopo il sensuale black rock Fever, suggella il tutto. Se possedete il disco e non vi tornano i conti è perché ne esistono tre stampe, con copertine e scalette diverse. Forse vi manca qualcosa, allora, ma in compenso potete godere di una An Honest Man insieme languida e sferzante e/o dell’arcana (puri anni ’30) e accoratissima e già citata She Don’t Cry No More. E magari pure di Lost in a Crowd: una lettura differente ancora da quella, trafitta da una tastiera ficcante e propulsa da un basso alla Bootsy Collins, che verrà inclusa nel giugno 2016 nel debutto “vero”, The Last Days of Oakland.

«The best sleep I ever had».

Qualche mese prima in un’intervista concessa al sito PopMatters, colui che ormai solamente per famigliari e amici è Xavier, e nella cui musica nessuno riconoscerebbe più l’artefice del distantissimo non solo nel tempo (due decenni!) The X Factor, ha individuato in Robert Johnson il più riverito dei suoi modelli, mostrato apprezzamento per l’opera di divulgazione del blues svolta da gruppi bianchi come Rolling Stones e Led Zeppelin (fra i coevi, da Jack White) e dichiarato di essere in una relazione complicata con l’hip hop. Nessuna citazione per Lenny Kravitz, a cui, non fosse stata tanto tardiva l’esposizione al mondo del suo talento, avrebbe potuto far concorrenza, e per il quasi coetaneo (un anno e mezzo più giovane!) Ben Harper. Un’anima affine.

Primo asso calato di quello che è a oggi un poker, l’album integra il canone che ha preso a delinearsi nell’EP (da cui potrebbero provenire tracce come l’omonima, inaugurale e brevissima, una giocosa quanto pestona e rock’n’roll Scary Woman, la malevola The Nigga Song, la tribale The Worst e naturalmente Lost in a Crowd) con il groove irresistibile di Working Poor, un favolistico semi-valzer quale About a Bird, una zeppeliniana Hump Thru the Winter e il blues che evolve parimenti in hard Rant Rushmore. Curioso e significativo che sia tuttavia una cover il brano più personale del disco: del classico di Lead Belly In the Pines (2), Fantastic Negrito offre una versione para-grunge, molto più “Nirvana” dei Nirvana di MTV Unplugged. Straordinaria. Indimenticabile.

Non poteva mancare il video ufficiale di un pezzo particolarmente importante (e ricorrente) in questa storia.

Blues che non è blues, o solo blues

Il 2016 negli Stati Uniti è anno di elezioni presidenziali, quelle che, in forza di un sistema di voto ormai inadatto ai tempi e alla demografia che iniquamente avvantaggia una parte minoritaria nelle urne, porteranno Donald Trump alla Casa Bianca. Candidato alla nomination democratica, che perderà, Bernie Sanders ha modo di ascoltare Working Poor e ne è colpito. “Working poor” è chi pur avendo un lavoro, e dunque uno stipendio, è pagato troppo poco per arrivare a soddisfare le necessità minime di una vita dignitosa. Peggio che essere disoccupati, e l’anziano progressista (per gli standard americani un socialista) ne ha fatto uno degli argomenti della sua campagna. La canzone risuona puntualmente ai comizi. Logico che l’autore ne sia inorgoglito, un effetto collaterale che il suo nome penetri il mainstream, per quanto non a sufficienza da fare entrare un disco che è uno slow seller (il brano di cui sopra lo ha anticipato di quattro mesi) nei Top 200 di Billboard. Opera dalle tante sfaccettature, The Last Days of Oakland potrebbe indifferentemente finire in più di una delle graduatorie “di settore” pubblicate da una rivista che è organo semiufficiale dell’industria discografica USA. Viene accomodato in quella blues. Raggiunge la quarta posizione, performance rimarchevole che verrà migliorata di un posto dal successore, mentre l’album dopo ancora andrà al numero uno. Ai Grammy del 2017 si impone nella categoria “Best Contemporary Blues Album” e, per quanto ne esista anche una denominata “Best Traditional Blues Album”, viene da chiedersi che concezione abbiano di tale genere musicale i giurati. Non sanno proprio cosa sia, nella peggiore della ipotesi. Apprezzano e adottano un approccio più esistenziale, filosofico piuttosto che filologico, nella migliore.

«Hey John, come up here!» ed eccolo che invita l'amico sul palco spiegando che sono cresciuti insieme passando le giornate a derubare la gente.

Collocando in copertina una foto dello Xavier non ancora Fantastic Negrito nel suo letto di ospedale, espressione abbattuta e attonita, un cerottone su una tempia ed entrambe le braccia ingessate, Please Don’t Be Dead nel giugno 2018 esorcizza un passato doloroso e che però ha anche contribuito in positivo a fare di lui l’individuo che è diventato. Talune conseguenze dell’ormai lontano incidente pesano tuttora e sempre peseranno sul suo quotidiano, ma il tempo dedicato a compiangersi è zero. Pronti e via, lo chiarisce il deflagrare heavy rock di Plastic Hamburgers. Nel percorso con in fondo la micidiale innodia funkadelica di… ahem… Bullshit Anthem, il disco dispiega rispetto al predecessore non tanto una scrittura superiore e più varia (siamo lì) quanto un’articolazione più sapiente. Lampante che si sia meditato lungamente l’ordine in cui esporre gli articoli in catalogo, eccezionale la fluidità con cui dal gospel laico Bad Guy Necessity si passa al bluesone una tantum tipico A Letter to Fear e da quello al soul che anela all’Africa A Boy Named Andrew. La cerimonia vudù con ideale officiante Dr. John di Transgender Biscuits non potrebbe essere piazzata che lì dov’è, subito prima dei Black Keys in trip lisergico di The Suit That Won’t Come Off. C’è pure qui se vogliamo (il ricalco è evidentissimo) una In the Pines, solo che si chiama A Cold November Street e si impenna fragorosa prima di girare luttuosa, similmente a come la successiva The Duffler si aggira fra il guerresco e il mellifluo. Che manca? La più bella ballata finora del Nostro, Dark Windows, archi sontuosi e Bill Withers dietro l’angolo. Never Give Up, che ci riporta in chiesa ma per 1’06” soltanto, purtroppo e che peccato. Applausi.

Un mezzo omaggio ai grandi del blues.

Il contrasto fra l’artwork di Please Don’t Be Dead e quello di Have You Lost Your Mind Yet? (agosto 2020) non potrebbe essere più marcato. Chioma alla mohicana, barbone asimmetrico come gli occhialoni che sfoggia, un completo che certamente all’epoca giurassica dei suoi diciotto anni non gli avrebbe permesso di intrufolarsi inosservato a Berkeley, appoggiato a un bastone che giusto uno come lui può trasformare da ausilio ortopedico in epitome di eleganza, Fantastic Negrito guarda in macchina con aria seria, decisa. L’album si svela policromo quanto la giacca di chi lo firma, sciorinando, fra il resto, dopo la collisione James Brown/Sly Stone Chocolate Samurai che lo apre, spiritual in varie declinazioni (con cartoonesco inserto rap in I’m So Happy I Cry, archeologico in Shigamaboo Blues), il suo brano più radiofonico di sempre (How Long?, un po’ Clapton e un po’ Santana), la reinterpretazione radicale di un vecchio successo hip hop (Captain Save a Hoe, ospite l’autore stesso, E-40), una ballata hendrixiana reimmaginata come avrebbe potuto Prince (Your Sex Is Overrated), blues alla buon’ora ma ibridato di funk (King Frustration), un apocrifo di Stevie Wonder (All Up in My Space), uno dei migliori Living Colour (Platypus Dipster). Nella sua prova più ecumenica l’artista non rinuncia all’invettiva politica. Justice in America, titola un siparietto di ventinove secondi. «Money money money», il coro che vi risuona amaro e beffardo.

La tecnica della doppia esposizione, ormai abusata, dopo la prima stagione di True Detective.

Xavier in bianco e nero (3)

Con Have You Lost Your Mind Yet? Fantastic Negrito entra per la prima volta nella classifica generalista di Billboard. È un numero 66, potrebbe parere poca roba ma non è con le vendite che si misura l’impatto culturale di costui. D’altronde: nemmeno ha un’etichetta in patria, dopo l’EP e l’esordio autoprodotti, i due dischi seguenti sono usciti per la britannica Cooking Vinyl e che uno che si è aggiudicato tre Grammy consecutivi debba (un po’ è una scelta, un po’ una necessità) tornare per il suo quarto album a far da sé (Storefront il marchio che si inventa) la dice lunga su quanto sia diffidente la discografia a stelle e strisce nei confronti di un artista il cui potenziale commerciale pure è notevolissimo. D’altronde: pubblicato lo scorso 3 giugno, White Jesus Black Problems ha due livelli di lettura. 

Uno più superficiale, che vale soprattutto per noi non di madrelingua che ai testi badiamo meno che agli spartiti e che bomba di disco è, musicalmente? Di fruizione ancora più immediata del predecessore, epidermico (e nondimeno cresce con gli ascolti: a dismisura) persino in un brano di grande complessità quale l’iniziale Venomous Dogma (che è tre canzoni in una, serenata per archi che dopo un paio di minuti si trasforma in un vibrante spiritual salvo infine virare verso il rock-blues). Figurarsi in Highest Bidder o Trudoo, funkissime; nel festoso doo wop Nibbadip; in quella novella On the Road Again (Canned Heat) che è Oh Betty; in una Man With No Name di afflato liturgico come la conclusiva Virginia Soil. La traccia numero nove di tredici (tre sono però interludi che fungono da raccordi nella vicenda messa in scena) sembra arrivare dal manuale della perfetta ballata da FM anni ’70, completa di (s)folgorante ritornello. Si chiama You Better Have a Gun e basta il titolo a indurre il sospetto che sotto il vestito pop la società statunitense sia messa a nudo.

Fantastic Negrito Unchained – written and directed by Quent… ah no.

È un concept, White Jesus Black Problems, e la storia che racconta romanzandola è quella di due avi di Fantastic Negrito che nella Virginia coloniale del Settecento riuscivano a formare una famiglia nonostante lui fosse uno schiavo nero, lei una serva bianca a contratto. I figli che nascevano dall’unione appartenevano così alla prima generazione di afroamericani liberi. Un secolo prima della guerra di secessione, il che rende tanto più formidabile una parabola di orgoglio razziale che parlando dell’America di tre secoli fa si rivolge in realtà a quella di oggi. Laddove lo showbiz è disposto a rinunciare a far soldi pur di non farli con un nero che non le manda a dire.

(1) Tratta da I Have A Dream, il più celebre dei suoi discorsi, pronunciato alla marcia su Washington del 28 agosto 1963, e lì declinata al plurale, la frase è riportata al singolare sulla tomba del reverendo Martin Luther King, Premio Nobel per la Pace assassinato a Memphis il 4 aprile 1968.

(2) Nota anche come Where Did You Sleep Last Night.  

(3) Il riferimento è alla serie TV Netflix Colin in bianco e nero.

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