I geni hanno lune di miele e altre di traverso. E se è vero che cimentarsi senza posa con generi diametralmente opposti può talvolta disperdere anche il più sommo dei talenti, la sua grandezza rimane inalterata. Specie se è di un masterpiece senza tempo come Imperial Bedroom che parliamo.
Come in una favola a lieto fine, nel variopinto zoo del rock alcuni appassionati hanno coronato il sogno di diventare artisti. Gente come Peter Buck e Jason Pierce, Bobby Gillespie ed Elvis Costello, fan terminali ed esemplari che posseggono collezioni vastissime ma seguitano ad ascoltare dischi nuovi e ne parlerebbero per ore, dicendo cose sensate con l’entusiasmo di quando di anni ne avevano parecchi in meno. Ovvero, con la passione che un bel giorno li ha spinti a imbracciare una chitarra, a sistemarsi dietro un microfono, un pianoforte o una batteria perché l’anima si agitava in preda a brividi e scossoni. Perché avevano qualcosa da dire e cercavano un mezzo adatto a esprimerlo.
Fatto numero uno: Elvis Costello è un genio. Fatto numero due: Elvis Costello ha composto centinaia di canzoni. Eppure il gentleman è al corrente della sua perdonabile logorrea, considerando che già attorno a metà degli anni Ottanta affermava di aver scritto troppo. Da allora, chi è stato registrato all’anagrafe il 25 agosto 1954 come Declan Patrick Aloysius Macmanus non è stato con le mani in mano. Traete le vostre conclusioni, sapendo che persino il pasdaran più fedele ammetterà che da un bel po’ stiamo aspettando un suo equivalente di Time Out of Mind.
Pensandoci, però, quell’album potremmo averlo già tra noi. Quattro anni or sono, Look Now si ricollegava a Imperial Bedroom – apice oggi prossimo a spegnere le quaranta candeline – rispolverando un’urgenza assente dalla collaborazione con Burt Bacharach di Painted from Memory, AD 1998. Improntato alla raffinatezza essenziale che ottieni a una certa età, vedeva la luce dopo un tour in cui si rileggeva per l’appunto Imperial Bedroom e rinsaldava il sodalizio con Burt. In sostanza, era una specie di ponte tra un capolavoro e un’opera importante che guardava (“look”) indietro con la testa al presente (“now”). Proprio come a Elvis riesce quando accantona la smania di cimentarsi con qualsiasi genere esistente e schiva gli esercizi stilistici.
È cosa di non poco conto che un ritorno ad alti livelli abbia come riferimento il 33 giri in cui (opinione di Mark Deming che sottoscriviamo) un «angry young man» si trasforma in alchimista pop. Un pop senza tempo, perché deriva da radici evidenti apertamente riconosciute. E dal momento che il “giovane arrabbiato” è anche colui che pochi anni prima ha scritto Alison, ecco salire al proscenio Tin Pan Alley e il Brill Building, le forme e gli arredi dei Beatles e di Odessey and Oracle.
Ecco una sagacia con pochissimi eguali degna di Randy Newman, ecco angoli acuminati nascosti come enigmi e trappole, ecco canzoni dove è bellissimo perdersi inseguendo ogni sfumatura. Perché – fatto numero tre – Elvis Costello possiede un talento immenso e inafferrabile. Della qual cosa, come delle tante meraviglie che ci ha offerto, non lo potremo mai ringraziare abbastanza.
La via che conduce a Imperial Bedroom è lastricata di mosse che rispondono a quanto le ha precedute trattenendone qualcosa. Alla sua magnifica quindicina mancherà solo un ampio riscontro commerciale, laddove la critica coglie immediatamente il peso e il valore coprendo di elogi chi – in un lustro di coerenti metamorfosi – è passato con disinvoltura dal cantautorato post-punk a un pop colto e ricercato.
La fonte dell’ecclettismo sta anche nella passione trasmessa dal padre Ross, un trombettista jazz. Cresciuto a Londra, Declan si trasferisce sedicenne con la madre nei pressi di Liverpool e completa gli studi. Tornato nella capitale verso metà decennio e messa su famiglia, sgobba negli uffici della Elizabeth Arden mentre, senza smuovere granché, bazzica la scena pub dal versante country-rock con i Flip City, adotta il cognome da nubile della nonna paterna e si esibisce da solista come D.P. Costello.
Riempiti i cassetti di composizioni, prepara un demo che finisce sulla scrivania di Jake Riviera e firma il primo contratto discografico nel ‘77. Non tragga in inganno la data, ché del punk il ragazzo ha giusto l’irascibile vis polemica e lo sferzante cinismo. Basta e avanza per una figura vicina ai cani sciolti Graham Parker e Joe Jackson che esordisce a 45 giri con il tagliente reggae bianco Less Than Zero, prodotto da Nick Lowe e suonato con i Clover, una cricca di San Francisco che finirà per spalleggiare Huey Lewis.
Li potete ascoltare anche su My Aim Is True, che ripesca il singolo e, incazzato con disinvoltura, è splendido ovunque e più che altrove nell’R&B Blame It on Cain, nei Byrds power pop di (The Angels Wanna Wear My) Red Shoes, nella dolceamara e incantevole Alison. Classici cui vanno dietro i Velvet Underground alle prese con il blues di Waiting for the End of the World, i rock’n’roll ruvidi ed epidermici Welcome to the Working Week, No Dancing e I’m Not Angry, il fresco stile urbano che in Miracle Man e Sneaky Feelings omaggia gli States attraverso pinte di birra scura. L’album esce in estate, allorché Costello guarda altrove e allestisce la band che lo scorterà a lungo, gli Attractions.
Con il tastierista Steve Nieve e la sezione ritmica di Bruce e Pete Thomas (tra loro non imparentati) la chimica è fulminea e in tournée fanno faville, anticipando di anni lo “sdoganamento” di Bacharach con la cover di I Just Don’t Know What to Do With Myself. Nel frattempo, i Top 20 salutano Watching the Detectives, istantanea domestica in levare dove dei nuovi sodali c’è solo Steve.
Sull’album This Year’s Model, fuori a otto mesi da My Aim Is True, gli Attractions presenziano invece al completo. Il cambio di marcia è avvertibile nella compattezza e nell’ansia anfetaminica che innerva anche episodi meno tirati (Little Triggers, Lip Service, Living in Paradise, Night Rally) ed è punk nel senso “garagista” del termine, cioè come potevi intenderlo all’epoca dei numi tutelari Stones, Who, Kinks.
Al di là delle etichette, è una squisitezza dall’impazzare dell’organo al piglio di (I Don’t Want to Go to) Chelsea, passando per la tumultuosa No Action, l’energia ipnotica di Pump It Up e le curve di This Year’s Girl, gli incastri di The Beat e l’irresistibile You Belong to Me. L’uno/due formato LP spedisce al tappeto con un sorriso. Sardonico finché si vuole, ma un sorriso. Tipo quello che a Los Angeles conquista la groupie Bebe Buell, con la quale Elvis inizia un tormentato tira-e-molla dal prevedibile finale per la gioia dei fogli scandalistici di Albione.
Invece di schiantarsi contro un muro, anche per questo motivo il difficile terzo album Armed Forces tira il freno e lima gli spigoli. Conservando efficacia e minimalismo, centra la piazza d’onore nella chart britannica e si fa largo tra i primi dieci statunitensi con solide tessiture pop rock che sono ormai un marchio di fabbrica e camuffano liriche incentrate sul tormento e il rancore.
In un lavoro che impasta metafore, giochi di parole, ragionar d’amore e temi sociali (tanto che avrebbe dovuto intitolarsi “fascismo emotivo”) spiccano l’avvolgente perentorietà di Accidents Will Happen e una Senior Service alla XTC, la spigliata filastrocca Oliver’s Army e la sinuosa Green Shirt, la frenesia di Goon Squad e la Giamaica girata new wave di Two Little Hitlers.
Insomma: ventiquattro mesi, tre LP, due capolavori. Che fare, adesso?
Non di rado, dietro un vertice assoluto c’è un’anticamera dove inizi a sentire profumo di immortalità. Quella stanza – non ancora da letto, né tanto meno imperiale – si intitola Trust e a breve ci arriveremo. Ora dobbiamo rendere conto di un passo “a lato” che trae origine da due avvenimenti, primo dei quali la produzione del debutto degli Specials. Nell’estate del ’79, sapendo della sua presenza al mixer, potresti supporre che Declan si appresti a trafficare con lo ska revival.
Figurarsi: piaccia o meno, un acrobata di tale rango prende sempre in contropiede, perciò dello ska offre soltanto un assaggio gettando Human Touch nel calderone di Get Happy!!. A monte del quale c’è l’altro fatto, scottante e controverso, del litigio con Stephen Stills e Bonnie Bramlett. Accade che una sera, al bar di uno sperduto holiday inn dell’Ohio, inizino una discussione sulla superiorità delle rispettive nazioni in ambito rock. Sbronzi marci, a un certo punto trascendono e il Nostro ci va giù pesante insultando James Brown e Ray Charles.
Sommerso dalla vergogna, anche se Ray lo ha perdonato all’istante, Costello (tutt’altro che razzista) ripara con un atto d’amore verso la musica nera. Di conseguenza, l’enciclopedismo creativo di Get Happy!! filtra con schizzato pop wave la Motown, il soul versione sudista e quello del culto Northern. Pur con qualche riempitivo, convince nella I Can’t Stand Up (for Falling Down) di Sam & Dave, nelle trascinanti Possession e Temptation, in una battente High Fidelity. Senza dimenticare la sospesa Riot Act, una forsennata I Stand Accused, il gioiello venato di folk New Amsterdam.
Poi si rientra tra le mura dello studio, dando forma compiuta a materiale per la prima volta composto al pianoforte. In questo, Trust somiglia a Imperial Bedroom, come nella determinazione ad allontanarsi dai cliché: ma dal momento che far evolvere un canone può essere questione di tentativi, incarna sia un bignami dell’artista che il presagio di splendori prossimi venturi.
Nei suoi solchi coabitano il rustico rocker (Luxembourg, From a Whisper to a Scream), il seduttore con anima (Watch Your Step, New Lace Sleeves), l’autore “post ‘77” (Clubland, White Knuckles), il versatile ritrattista a suo agio con aromi jazz, martellamenti alla Bo Diddley e signorilità pop. La crescita è da cavallo di razza, nonostante una crisi alimentata da droga e alcol che non impedisce di consolidare il successo in patria e negli Stati Uniti.
L’America, appunto. Grande appassionato di country, nella primavera 1981 l’irrequieto è a Nashville per incidere con il famoso produttore Billy Sherrill. Il diversivo Almost Blue imbocca così un’altra temporanea via laterale con riletture di Hank Williams, Merle Haggard e Gram Parsons e la hit Good Year for the Roses, in passato resa famosa da George Jones. Perplessa la stampa, oggi appare chiaro che Elvis volesse tirare il fiato e darsi una ripulita prima del grande salto.
Nel frattempo qualcosa è cambiato. In parallelo a musiche più sofisticate, l’uomo abbassa la guardia e apre il cuore. Da cercare lì uno dei pilastri su cui poggia Imperial Bedroom, cioè nell’umanità con la quale l’artefice si introduce da spia nella casa dell’amore che si sgretola e che lui stesso conosce. Pertanto, canzoni di potenza a lento rilascio e liriche profonde – non a caso è il primo LP a riportarle nella busta interna – si saldano a una penna stellare.
Altro elemento fondamentale, quello, come del resto la chiarezza di visione che spinge a convocare in regia il navigato Geoff Emerick (tra le altre cose, ingegnere del suono in Revolver, Sgt. Pepper’s e Abbey Road) onde non far ammattire Lowe. Servono dodici settimane agli studi AIR per vestire brani concepiti (forse inconsapevolmente, ma tant’è) come racconti brevi. Interpretati dalla duttile voce dell’autore, portano in primo piano ciò che in Trust era allusione e approdano a una perfezione così fluida da nascondere la complessità che ne sta alla base.
Non solo: con intelligenza e vivacità, Imperial Bedroom dimostra che l’arte può nascere da citazioni e rimandi mescolati tra di loro fino a ottenere una personalità. Lo annuncia la copertina, dove il quadro Incantatore di serpenti e polipo sdraiato è una decostruzione ideata da Barney Bubbles del celebre Tre musici di Pablo Picasso. Lo spiega con dovizia di particolari una scaletta generosa che tocca i cinquanta minuti ma dalla quale non togli nulla.
Lo stesso vale per i florilegi orchestrali, curatissimi però mai sovraccarichi, che sono farina del sacco di Nieve e le colorazioni escogitate da Geoff, bravissimo ad ampliare lo spazio sonoro e inserire particolari preziosi senza ricorrere alle tecnologie stile “ultimo grido” che invecchiano in un attimo.
Le canzoni, dunque. Se la stratificata Beyond Belief apre i giochi in una falsa quiete che sfocia nella tensione, Tears Before Bedtime affronta la black con spirito cabarettistico e intarsi di voci e tasti; l’acidula Shabby Doll brilla sul refrain ma è trafitta dalle svisate del basso e in The Long Honeymoon John Barry ambienta un tango in jazz sulla Rive gauche. Brusco ma azzeccato il risveglio sul frammento di schitarrate e urla selvagge che, a mo’ di parentesi, racchiude Man out of Time, tenerezza fragorosa in cui Phil Spector supervisiona Highway 61 Revisited. Sigillano la facciata Almost Blue, ballad fumosa di rimpianto e l’esuberante …And in Every Home, cartolina da Forever Changes se fosse stato, appunto, Abbey Road.
Giri il vinile e, mentre ti sforzi di seguire testi perversamente stampati senza soluzione di continuità, sfilano l’incalzante euforia di The Loved Ones, una Human Hands per la quale Paul McCartney farebbe tuttora carte false, il white soul trasparente di Kid About It e Boy with a Problem. Ancora: Little Savage è (im)possibile quintessenza di Rubber Soul e (appunto, di nuovo) Revolver, Pidgin English alterna stop e ripartenze omaggiando i Love, You Little Fool è pop barocco aggraziato che flette i muscoli. Titoli di coda ad appannaggio del crooner che in Town Cryer levita su archi e fiati con in tasca un pizzico di malinconia. La puntina si solleva e ogni cosa ti è rimasta dentro. Per sempre.
Quante ne ha combinate, nel frattempo, il nostro funambolo. Tra alti e bassi, matrimoni e divorzi, gli Attractions mollati e ripresi, una certezza salta all’occhio: dall’ingresso nel novero dei grandi classici, ha preso a sperimentare con slancio crescente e una certa dispersione, così che nel tragitto che porta all’attualità ognuno sistema i punti fermi che preferisce. I nostri? Elvis che da una melodia di Clive Langer ricava l’immensa Shipbuilding e chiama Chet Baker a eternarla. Costello che, in perfetta solitudine sul palco del Live Aid, intona All You Need Is Love e lo stadio di Wembley gremito lo segue.
Declan McManus che si proclama King of America, calando un asso nel quale la Band osserva se stessa da questo lato dell’Atlantico. Uno dei suoi alter ego che colora di psicodrammi blu(es) i Fab Four nella gemma I Want You, si immagina clown e finalmente scrive con Sir Paul. Lo stesso individuo, uno e trino, che nel ’94 tira indietro le lancette dell’orologio con l’elettrizzante Brutal Youth e, in tempi più recenti, sconfigge il cancro recapitando le saporite pagine di Unfaithful Music & Disappearing Ink e la classe di Look Now. Elvis che non ha alcuna intenzione di lasciare il palazzo. Lunga vita al Re.